La polemica scoppiata nei confronti della pasta “La Molisana” per le abissine rigate, dal «sicuro sapore littorio» apre un dibattito sul passato coloniale italiano e l’uso del politicamente corretto. A tal fine vogliamo proporvi i contributi di Alessandro Pes e Luca Peretti di DINAMOPress e Monica Scafati attivista, ricercatrice indipendente e nostra collaboratrice. Buona lettura
Quella pasta dal sapor littorio… E il colonialismo è servito!
Le abissine rigate, dal «sicuro sapore littorio». Le Tripoline o le Bengasine, sempre di pasta parliamo. Le torte «negretta» o «moretta», con tanto di ricette sui blog culinari (vere e proprie potenze del web con milioni di visualizzazioni) e presenza fissa in molte pasticcerie. Proprio uno di questi blog, nel rilanciarne la ricetta, suggeriva qualche anno fa «negretti o moretti, chiamateli come volete, ma tenetene sempre una piccola scorta in frigo e avrete una coccola sempre pronta». I biscotti «tripolini» che la Gentilini ha saggiamente fatto diventare nocciolini, da qualche parte si trovano anche i bigné «africanetti» o «faccette nere», mentre per il cioccolato Tripolino Barbero basta andare sul sito del colosso Eataly.
Si rischia di non capire molto del mini scandalo che ha coinvolto ieri la pasta La Molisana, dopo che un po’ improvvisamente è montata la polemica social sulle Abissine rigate, se non si inserisce la pasta all’interno di un ben più ampio contesto di resti e rimossi coloniali (e orientalisti) nel cibo italiano. Capita la mala parata, la compagnia si è affrettata a cambiare la descrizione sul sito delle suddette Abissine (che però, continuano a chiamarsi così). Probabilmente ai proprietari o agli amministratori de La Molisana non interessa che una storia di oppressione si associ ai loro tipi di pasta, quello che conta è agganciare il prodotto alla storia, qualunque essa sia, dolorosa o meno, oppressiva o no, perché l’obiettivo è venderla quella pasta e se, per venderla, devi richiamare la storia del fascismo e del colonialismo italiano che importa, anzi, come scrivevano loro fino a ieri sul sito «lo storytelling c’è già», che fortuna.
Perché inserirsi nella tradizione, come ci hanno spiegato gli storici Terence Ranger e Eric J. Hobsbawm, è un passaggio fondamentale per il successo di un regime ma anche di un prodotto.
Le Abissine e le Tripoline non sono perciò rimaste soltanto col loro nome ma anche pubblicizzate come un prodotto che ci arriva da un passato felice e di conquista; acquistarle diventa la possibilità di gustare quel passato. Il problema è che quel passato non ha un gusto gradevole e risulta indigesto a gran parte della società etiopica, eritrea, libica, italiana e somala. «Negli anni Trenta l’Italia celebra la stagione del colonialismo con nuovi formati di pasta: Tripoline, Bengasine, Assabesi e Abissine. La pasta di semola diventa elemento aggregante? Perché no!» e ancora «Di sicuro sapore littorio, il nome delle Abissine Rigate all’estero si trasforma in shells». Fino a ieri pomeriggio era questa la descrizione che si poteva leggere nella scheda delle Abissine rigate sul sito de La Molisana.
Anche la descrizione delle Tripoline («Il nome evoca luoghi lontani, esotici e ha un sapore coloniale») è sparita, mentre servirà un surplus di polemica a mezzo social per far capire che forse anche la descrizione delle Cinesine («Dalla forma che ricorda gli occhi di una donna cinese deriva il nome di questa pasta di piccole dimensioni che piace ai piccoli!») potrebbe risultare offensivo. Appena è montata la protesta sui social sul sito dell’azienda la scheda è stata modificata e la responsabile marketing ha rilasciato un’intervista spiegando che si è trattato di un errore e che l’azienda «non ha alcun intento celebrativo» e che «siamo molto attenti alla sensibilità dell’opinione pubblica e in questo caso l’unico errore è stato non ricontrollare le schede affidate all’agenzia di comunicazione».
Insomma, un problema di comunicazione e marketing, risolto. Appare invece irrisolto un quesito importante, fondamentale; cosa rimane della storia del fascismo? E della storia del colonialismo italiano?
Perché non è sufficiente modificare una scheda prodotto dichiarando che ci si è accorti di aver urtato la sensibilità dell’opinione pubblica. Una risposta del genere può andare bene per il marketing del prodotto ma non per tutto il resto. La questione, dal punto di vista della ricostruzione storica, è che è palesemente falso affermare che l’espansione coloniale italiana durante il fascismo (e anche nel periodo del colonialismo liberale) sia stata un’esperienza aggregante e felice.
Il problema quindi diventa della società civile e non soltanto di una o più aziende private perché, se per vendere un prodotto, ci si associa una storia e questa viene distorta per rendere il prodotto appetibile, il problema varca i cancelli dell’azienda e diventa un problema ben più diffuso. Infatti se questa particolare marca aggiungeva fino a ieri toni apertamente colonialisti, le Tripoline sono un tipo di pasta che tutti i grandi marchi di pasta chiamano così, senza nessun disagio apparente, magari notando solo, come fa De Cecco, che «la tradizione popolare vuole che questo formato [le tripoline] sia stato creato in onore del re Vittorio Emanuele a Napoli» – per i Tripolini (al maschile stavolta, pasta piccola da minestrina) invece rivolgersi all’Esselunga.
Non ci sono quindi solo statue, nomi di vie, modi di dire ancora presenti nel parlare comune («tutto l’ambaradan») a ricordarci il nostro passato coloniale e il nostro vissuto orientalista e trasformarlo in una inquietante quotidianità.
Nel campo degli studi postcoloniali il lavoro su questo ambito è ben avviato: dagli studi pionieristici dello storico Guido Abbattista che lega i biscotti assabesi all’Esposizione Generale Italiana di Torino, dove furono presentati alcuni abitanti nella baia di Assab (testa di ponte del colonialismo italiano in Africa) nel 1884, sino ai più recenti di Simone Brioni e Irene Fattacciu. La pasta è insomma un pezzo di quell’inconscio coloniale che ogni tanto riemerge, inatteso, scomodo, obliquo. Tra una statua e l’altra, magari pensiamo anche a trovare un altro modo per chiamare le Tripoline, o almeno sapere a cosa facciamo riferimento ogni volta che le prendiamo dagli scaffali. Perché, se il marketing è una cosa seria, la Storia lo è molto di più.
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L’innegabile degenerazione del ‘politicamente corretto’
Certo se ne parla spesso e da lungo tempo, almeno dal 1930 sembrerebbe, se si volesse ricostruirne la storia.
Sembra banale doverne scrivere considerando il poterne già abbondantemente leggere, e perfino Wikipedia, sintetizzando la definizione del vocabolario Treccani per renderla meno prolissa agli insofferenti delle letture oltre le quindici righe, ne fa in fondo un quadro se non esaustivo, almeno chiaro.
A partire dalla sinistra statunitense per muovere verso molte altre latitudini con i movimenti del Sessantotto ed esplodere negli anni Ottanta, il politically correct è oggi un imperativo delle comunicazioni. Una vera e propria disciplina del comportamento linguistico, una grammatica.
L’obbligo morale di evitare che l’eloquio possa recare offesa a categorie “di minoranza” o discriminate, animato senz’altro dalle migliori intenzioni di chi prospettava una giustizia o “giustezza” sociale a partire dalle più basiche e quotidiane interazioni, ha progressivamente conquistato settori ampi del discorrere.
Dalle questioni razziali a quelle etniche e religiose, a quelle relative alla salute fisica e mentale delle persone, fino all’età e al genere, la lingua è stata oggetto di una progressiva “ridefinizione” operata per lo più attraverso l’ingentilimento di parole che, all’orecchio pubblico affinato da nuove istanze, sembravano ormai indizio probante di uno sguardo verticalista e saturo di forme di giudizio, uno sguardo denigrante, uno sguardo orientato da paradigmi non più accettabili, disconosciuti, giunti al momento del dover essere decostruiti per consentire la strutturazione di una nuova e più evoluta società.
Numerosi sono stati gli studi, i testi, gli autori, le rivendicazioni e le proposte per abolire, mitigare o sostituire parole, declinazioni e modi di dire, per un uso “corretto” della lingua e del parlare.
Quello del politicamente corretto è stato un filone interessante e meritorio di analisi socio-linguistica delle interazioni, che però come sempre accade, nell’assurgere agli onori della pubblica considerazione, è incappato nella becera banalizzazione tipica di qualsivoglia formulario o catechismo, costringendo riflessioni importanti entro lo spazio superficiale e angusto, eppure totalizzante, della “corrente d’opinione”.
Ed ecco dunque che il progressismo intellettuale con cui si era inteso fare della lingua uno strumento di autocoscienza, nella piena coscienza -appunto- di come la lingua sia veicolo di percezione e rappresentazione del sé e del mondo, si è inaridito nella regolamentazione perentoria di condotte verbali ispirate più che altro al livellamento e al “neutralismo”, creando una sorta di discrasia del rapporto tra forma e contenuto, o forma e sostanza, o del rapporto tra significante e significato, o perfino generando un’aporia.
Se si pensa ad esempio al politically correct applicato all’utilizzo sessista della lingua, si vedrà che nei contesti della linguistica femminista militante, il rifiuto dell’androcentrismo scritto e parlato si è sviluppato di pari passo alle pratiche di emancipazione della donna, alle lotte per l’emersione e il riscatto dalla condizione di subordinazione e occultamento culturale, familiare, economico, professionale e sociale.
Le donne dunque, non hanno inteso cambiare solo la forma con cui venivano rappresentate e con cui, per abitudine e forse rassegnazione analogicamente si autorappresentavano, ma cambiare la sostanza di come si percepivano e venivano percepite, modificando realmente il loro modo di essere e porsi, di agire.
In numerosissimi altri ambiti, un percorso analogo di reale corrispondenza tra “il dire e il fare”, di fatto non c’è stato, e le modificazioni della lingua possono essere equiparate ad operazioni meramente stilistiche, prive di una relazione concreta con la realtà, operazioni rimaste circoscritte all’ambito della sola rappresentazione.
Molte sostituzioni lessicali suggeriscono una nobilitazione fittizia e fatto questo, prestano il fianco da un lato all’ipocrisia, e dall’altro perfino alla censura.
Rispetto all’ipocrisia si pensi al caso della terminologia utilizzata nel mondo del lavoro, da cui quel che intendo spero risulti auto evidente: operatore ecologico in luogo di netturbino, collaboratore scolastico anziché bidello, operatore cimiteriale invece che becchino; cosa realmente è cambiato nel mansionario di queste professioni, e quanto il chiamarle diversamente ha inciso sulla “posizione” sociale o economica di queste categorie di lavoratori?
Rispetto alla censura poi, pensiamo ad alcune locuzioni come “danni collaterali” per designare fattuali stragi di civili in contesti di guerra, o “ridimensionamento” per designare licenziamenti di massa.
E mentre mi accingo ad elencare formule gentili per parlare in maniera a-problematica di problemi enormi, penso che in realtà l’ho già fatto.
Era un testo scritto nel 2011, intitolato RASSEGNA(t)i(n)STAMPA in cui ad un certo punto mi trovavo a chiedere:
“[…] come mai chiamiamo la guerra missione di pace e esportazione della democrazia la guerra preventiva, chiamiamo moneta unica una moneta a pagamento, chiamiamo cure obbligatorie le procedure per non arrendersi al destino della morte, chiamiamo rimborsi i fuori busta di certi stipendi, chiamiamo flessibilità il precariato, chiamiamo ora di religione la catechesi dei giorni feriali, chiamiamo vicini di casa dei perfetti sconosciuti, chiamiamo casa un debito di vent’anni per 60 metri quadri, chiamiamo manovra finanziaria la riduzione delle pensioni, chiamiamo intrattenimento televisivo il lavaggio del cervello e pubblicità l’innesto silente di desiderio del superfluo,chiamiamo termovalorizzatori gli inceneritori, chiamiamo politici i delinquenti immuni alla legge, chiamiamo droga la canapa e medicine gli psicofarmaci, chiamiamo aree verdi brandelli di natura scampati alla cementificazione urbana, chiamiamo alimentazione l’ingordigia, igiene lo sperpero casalingo di preziose risorse idriche, chiamiamo acqua minerale quella venduta in plastica da società a cui si vendono le sorgenti patrimonio dell’umanità, chiamiamo integrazione tra scuola e territorio i progetti volti a trasformare le menti in manovalanza a servizio del profitto e assemblee di istituto le proiezioni di film che ammutoliscono il confronto sui temi caldi, chiamiamo quote rosa il diritto alla parità dei sessi, chiamiamo tutela del valore della vita l’obiezione all’aborto e errore l’uccisione di civili innocenti in balia dei bombardamenti, chiamiamo violenti i rivoluzionari, criminali i disobbedienti, terroristi gli anarchici, eroi i militari e poliziotti traumatizzati quelli condannati per le violenze di Genova, chiamiamo raptus quel malessere estremo che induce la cosiddetta gente normale a gesti insani di liberatoria follia, chiamiamo brave persone quelle obbedienti e sbandati i ragazzi che cercano su strade alternative di costruire un mondo loro, chiamiamo volontariato il lusso di chi può lavorare gratis e tirocinio formativo il lavoro gratis obbligatorio, chiamiamo opere pie le donazioni di un milionesimo del proprio capitale ai poveri e reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina l’ospitalità gratuita data ad un migrante in difficoltà, chiamiamo regali le tangenti e pensierini i regali a basso costo, chiamiamo globalizzazione l’accentramento del potere, alleanze i fenomeni di subordinazione, e non violenza il dovere di una incondizionata accettazione, chiamiamo facilmente mafiosi molti giovani del sud Italia costretti all’illecito da un’eredità di faide senza tempo e contesti marginalizzati, chiamiamo imprenditori i grandi speculatori e federazioni bancarie alcune tra le più pericolose associazioni a delinquere, chiamiamo rieducazione l’ergastolo ostativo e giustizia la pena di morte, chiamiamo intellettuali i membri del nuovo staff di governo, rappresentanti quelli che si comportano da padroni, servitori i più inclini all’abuso, tasse i furti di stato, e popolo sovrano l’orda di schiavi che per un tozzo di pane traina il carrozzone.”
E se ad auto-citarsi non si fa mai bella figura, il ricorso a una testimonianza ormai decennale mi è sembrato utile a comprovare che in effetti, l’affermarsi del politically correct -anche se in questo estratto mi riferivo anche ad altro- ha condotto ad effetti molto diversi da quelli auspicati.
Già a partire dagli ultimi anni Novanta infatti, non pochi sono stati quelli che a mezzo di ricerche e saggi hanno cercato di mettere in luce, del politicamente corretto, la degenerazione in “alleggerimento” dell’impatto di alcune narrazioni, fino pratiche di vero e proprio “occultamento linguistico”, configurandosi in ultimo come acritico dogmatismo.
“Assistito” invece di “paziente” in riferimento alle persone ospedalizzate o in cura, “non abbienti” invece di “poveri”, “minori non accompagnati” al posto del ben più drammatico “bambini e adolescenti soli”, sono solo alcune delle sostituzioni che consentono non certo il “miglioramento” della condizione in sé del soggetto che si vuole nominare, ma di mitigarne ed edulcorarne la percezione.
Si pensi ad esempio all’evoluzione linguistica relativa al designare alcune forme di malattia: da sordo o cieco a non udente e non vedente, da para o tetraplegico a non deambulante, da minorato, invalido o handicappato a portatore di handicap, diversamente abile, disabile, e infine diversabile, parola civile e gentile che però mirabilmente mostra uno dei più gravi esiti del politicamente corretto.
Nelle scuole ad esempio, si parla ormai da anni di “studenti disabili” ricomprendendo in questa categoria persone con sindrome di down, persone autistiche, persone paraplegiche, persone con ritardo cognitivo leggero, medio, grave, persone con malattie degenerative, persone con problemi psichiatrici, e insomma per non farla oltremodo lunga, tutte le persone che per ragioni diversissime, beneficiano della legge 104/92. Il politically correct è stato dunque in questo caso veicolo di una dannosissima generalizzazione e omologazione, che non ha eliminato alcuno “stigma” sociale, ma ha soltanto aumentato notevolmente il numero delle sue vittime potenziali, forse in osservanza del principio del “mal comune mezzo gaudio”.
Ricordo un episodio particolare in cui uno “studente disabile” con una diagnosi di ADHD, ovvero disturbo evolutivo dell’autocontrollo (deficit dell’attenzione/iperattività), dopo aver disturbato non poco un compagno finì per ricevere in cambio, da questo stesso, un minaccioso spintone. Dunque, un episodio non certo encomiabile ma nemmeno così scabroso -soprattutto se lo si pensa accadere tra quattordicenni-. Ebbene, in brevissimo tempo si è trasformato nell’increscioso evento di “qualcuno” che picchia un disabile, dando adito agli uditori di immaginare scene in cui un individuo spregevole e senza cuore si accanisce contro una creatura incapace di difendersi! Volevano espellerlo…
Tornando invece questioni di tipo più generale, tendenzialmente il politicamente corretto ha fatto sì che alla denotazione stessa di una “differenza”, venisse attribuita aprioristicamente e automaticamente, l’intenzione di metterla in luce al solo scopo di veicolare un giudizio di valore, e che questo fosse sempre negativo e denigrante.
Dunque, se pure è vero che un giudizio di valore era implicitamente inteso in parole come “negro” o “frocio”, o in parole come “grasso” o “terrone”, che esprimevano realmente una disapprovazione sociale, molte altre sono state indebitamente annoverate tra le impronunciabili con l’effetto di silenziare dibattiti urgenti.
Pensiamo a come anche l’espressione “persona in sovrappeso” in luogo “persona grassa” abbia finito per configurarsi come forma di body shaming, e come il tentativo di superare la disapprovazione sociale di un certo canone estetico abbia censurato la possibilità di discutere lucidamente e con franchezza del rapporto col cibo delle società benestanti, dell’opulenza, dell’obesità. Una malattia che nonostante non veda l’Italia tra i paesi più colpiti, è anche qui causa di 57.000 morti annue, responsabile dell’80% dei casi di diabete, del 57% dei casi di ipertensione, del 35% di cardiopatie ischemiche e tumori. Tre bambini su quattro sono in sovrappeso e uno su quattro è già obeso. Gli obesi sono 6 milioni e 500 mila i grandi obesi, con un’incidenza sul sistema sanitario calcolata a 4,5 miliardi di euro già nel 2012, ma guai a fare riferimenti al peso, degli individui e del problema!
Pare sia diventata impraticabile ogni sorta di analisi “comparativa” e che il termine “discriminare” abbia ormai completamente perso la sua relazione con l’atto del “discernere” per acquisire il significato unico di “disparità”, nella considerazione e nel trattamento.
Un po’ come se davvero non fosse possibile evitare di gerarchizzare se non rinunciando in toto alla capacità di “differenziare”, costringendo l’esistente alla più totalitaria delle omologazioni!
Ed è per questo che il politicamente corretto è più fascista del “sapore littorio” del nome “Abissine” dato negli anni Trenta alle conchiglie rigate che da alcuni giorni sollevano ridicole e accanite indignazioni! Aver indotto l’azienda a rimuovere dal sito lo storytelling che in molti hanno letto ma non compreso, pare sia l’ultima vittoria dell’antifascismo! Che piace vincere facile invece non solo “pare”, ma a questo punto è più certo!
Mi sarebbe piaciuto poter liquidare in blocco questi lettori nella categoria di “analfabeti funzionali” e derubricare il fatto, ma la verità è che non posso, perché non lo sono.
Al contrario molti di loro sono persino professionisti stimati, professori di italiano e di storia, ricercatori, attivisti! Ed è da questo che mi accorgo che il problema si è fatto davvero grave!
Un po’ come la questione di musei e monumenti che raccontano una storia intrisa di imperialismo, colonialismo, razzismo, sessismo.
Un po’ come se per rinnegare precetti che ormai non ci appartengono, si dovesse eliminare la memoria che pur sono stati, e che sono appartenuti alle società di cui siamo figli, nipoti e pronipoti. Eppure a me sembra che la “rimozione” abbia a che fare molto più con l’incoscienza che con la coscienza, e che difficilmente si erige a monito qualcosa che sia “non più pervenuto”.
Mi sembra che la rimozione sia un buon antidoto all’imbarazzo, e un’agevole scappatoia per sottrarsi a responsabilità ben più complesse.
Responsabilità che beninteso non possono certo essere quelle del “bianco” d’oggi sulla riduzione in schiavitù del “nero” di ieri, anche se pure questa forma “senso di colpa” è stata spesso propagandata per veicolare alla “bene e meglio” la redenzione.
Mi riferisco a una responsabilità individuale e sociale di insegnamento e apprendimento, di conoscenza e memoria, alla responsabilità di formulare pensieri, azioni e orizzonti migliori a partire dalla consapevolezza di ciò che è stato.
Evidentemente però, più che diffondere davvero la nuda verità degli orrori italiani perpetrati in Etiopia, è facile e breve censurare la parola “Abissinia” e le sue relative applicazioni e declinazioni.
Così come dopo la drammatica morte di George Floyd si è parlato di censurare Via col vento, Fantasia, Dumbo, Il libro della giungla, Colazione da Tiffany, Nascita di una nazione, e molti altri titoli. Nell’occhio del ciclone politically correct ho visto finire dopo la statuaria commemorativa perfino i quadri di Gauguin, e forse è ora di discutere seriamente l’argomento prima che per ipercorrettismo si configuri una contemporanea e rediviva iconoclastia, che si riviva l’inquisizione e il perpetuo incombere della minaccia di scomunica con tutte le sue più truci conseguenze.
Forse più che accendere roghi per bilanciare con la volatile leggerezza della cenere il peso della subordinazione di tutte le etnie, le culture e le economie a quella bianca nord occidentale, pensando davvero a come favorire il “riscatto” dovremmo forse smettere di fagocitare lo spazio globale con i nostri prodotti culturali e commerciali, e lasciare il giusto spazio all’emersione della narrazione delle minoranze. Diamo ad uno scultore di colore che discenda da una progenie di africani venduti e deportati la possibilità e lo spazio di raffigurare un Cristoforo Colombo forgiato dal suo sentire e dal suo sguardo, ammesso che una simile operazione gli interessi, e accettando anche che potrebbe non interessargli affatto, e che magari abbia a proporci ben altri simboli, carnefici, eroi o antieroi, accogliamo quel che ne viene fuori, e ragioniamo.
Favoriamo una lettura plurale della storia!
E accettiamo anche il fatto che una storia plurale è per forza di cose più corposa e complessa, che richiede maggiore studio e spirito critico, e che difficilmente è riducibile a miseri slogan da riversare sui social.
Ricordo un intervento di Chimamanda Ngozi Adichie del 2009 al TED Talks, il cui video è poi circolato con il titolo “The danger of a single story”, divenuto infine un libello. Sosteneva che il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti, e trasformano una storia, nell’unica storia.
Nel 2018 invece, lo storico Eugenio Capozzi ha pubblicato un testo in cui al titolo “Politically correct” faceva seguire il sottotitolo “Storia di un’ideologia”; una disamina dello sviluppo di questa retorica che, ad esempio, nonché in rapporto a quel che scrivevo su Chimamanda Ngozi Adichie, finisce col formulare una critica di fondo alla cultura occidentale in quanto tale, trasformata nella esecrabile singol story di una civiltà strutturalmente imperialista, colonialista, sfruttatrice e produttrice di discriminazioni, ma questa è forse e per l’appunto un’altra storia.
Ad ogni modo, tornando ad un quadro ben più generale, il tratto comune a tutte queste letture ideologiche che sfociano nella precettistica politicamente corretta, è il rifiuto totale della dialettica e del pluralismo, l’assolutizzazione di una moralità che per farsi condivisa si pretende univoca, una moralità tanto falsa quanto piena di sé.
Nella descrizione del libro si legge che “proprio quando un fenomeno culturale e politico appare avviato verso la parte discendente della sua parabola, può diventare oggetto di studio”.
Se dunque la degenerazione può essere considerata indizio di una flessione discendente della parabola, è proprio l’ora di sforzarsi a comprendere cosa realmente è accaduto e accade.
E proprio mentre scrivo va in onda al Tg un servizio che parla del ritiro dalle scene del famoso Mr. Bean, che a me tra l’altro non piace; pare abbia detto che con questo politically correct non è più possibile fare il comico!
Certamente vero, ed anche preoccupante perché in realtà sono molte le cose che grazie al politically correct non è più possibile fare, ma neanche dire, scrivere o semplicemente pensare! Di questo passo si ritirerà dalle scene una nutrita compagine di “professioni intellettuali”, perché nessun pensiero davvero libero ed evoluto può sopravvivere a questo squallido e pervertito dogmatismo!