Menu

Confini e confino

Il Decreto sicurezza è il manifesto di un nazionalismo iure sanguinis autoritario che restringe il diritto di asilo e reprime il dissenso. Confini, territoriali e razziali, e confino, sotto forma di espulsione sociale e detenzione

La Camera dei deputati il 28 novembre 2018 ha definitivamente approvato, con la coartazione delle libertà parlamentari legata alla questione di fiducia, la conversione in legge del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113. È un provvedimento fortemente lesivo dei diritti, che chiude confini e apre a nuove forme di “confino”, un provvedimento costellato di incostituzionalità.

Le prime perplessità riguardano il tipo di atto: non si tratta di un caso straordinario di «necessità e urgenza», che solo legittima l’adozione di un decreto legge (art. 77 Cost.). Non è solo questione di forma: l’«assetto delle fonti normative», come ricorda il giudice costituzionale, influisce sulla forma di governo ed «è correlato alla tutela dei valori e diritti fondamentali» (sent. 171 del 2007). La scelta della decretazione d’urgenza, al di fuori dei rigidi confini dell’art. 77 Cost., lede il principio di sovranità popolare, sia esautorando il Parlamento quale sede di confronto tra le forze politiche sia ostacolando lo sviluppo della discussione nella società. Non sussiste una situazione di emergenza in relazione ai numeri della protezione temporanea umanitaria, o quanto alla presenza di rifugiati; se di emergenza si vuol ragionare, tale è quella delle 1989 persone annegate nel mar Mediterraneo nei primi dieci mesi del 2018 (1267 nella rotta del Mediterraneo centrale, fra Libia e Italia).

1. Il migrante come questione di sicurezza pubblica e il conflitto sociale

Quanto al contenuto, compare sin dal titolo un topos classico, il connubio fra immigrazione e sicurezza pubblica, un mantra nelle legislazioni recenti sul tema della sicurezza, quale che sia il colore del governo (per limitarsi a due esempi, la legge n. 94 del 2009 del Governo Berlusconi IV e il “pacchetto Minniti” del Governo Gentiloni): è una scelta le cui ragioni di fondo veicolano un approccio contro la Costituzione.

Uno Stato dove la Costituzione adotta come meta-principio quello personalista, riconosce con una norma che difficilmente incontra eguali per la sua ampiezza il diritto di asilo (art. 10, c. 3), apre ad una comunità internazionale improntata a pace e giustizia (art. 11), dovrebbe vedere lo straniero in primo luogo come persona, con la sua dignità e i suoi diritti da garantire. Non sono mere aspirazioni utopiche: la Costituzione è ancora al vertice del sistema delle fonti. Il migrante, invece, è visto come problema di sicurezza pubblica in sé: il nemico che suscita paure, supportando così svolte autoritarie, e il nemico contro cui canalizzare la rabbia sociale, distogliendo l’attenzione da un conflitto sociale segnato da crescenti diseguaglianze e da un progressivo annichilimento di una delle parti.

La protezione internazionale e quella umanitaria sono visti non come status da garantire, quanto da circoscrivere, nella prospettiva che l’asilo più che un diritto sia un escamotage utilizzato dai migranti per occupare lo spazio proprio dei cittadini. L’asilo è, se pur paradossalmente, garanzia dei diritti universali: quando essi non sono garantiti subentra il diritto di asilo. Se nemmeno esso è riconosciuto, cosa resta dell’universalità dei diritti?

2. L’asilo: un diritto in estinzione

Uno dei tratti connotanti il decreto legge riguarda proprio la protezione umanitaria: scompare. Non esiste più il permesso di soggiorno per motivi umanitari, rimangono solo alcune ipotesi specifiche, quali il permesso per casi speciali, per cure mediche, per calamità, per protezione speciale.

Le tipologie di permessi contemplate non garantiscono una tutela ai diritti inviolabili dell’uomo in senso ampio, ex art. 2 della Costituzione, nonché ai diritti previsti nei trattati internazionali e nelle norme consuetudinarie che riconoscono i diritti della persona umana e la sua dignità (violando gli articoli 10, c. 1 e 2, e 117, c. 1, Cost.).

La protezione umanitaria risponde ad esigenze di garanzia dei diritti che non riescono a trovare risposta negli strumenti previsti: una necessità tutt’altro che pretestuosa, come è argomentato anche dal fatto che forme di protezione umanitaria sono contemplate in ben venti fra i Paesi membri dell’Unione europea.

La protezione umanitaria nel corso del tempo è diventata un succedaneo del diritto di asilo costituzionale (art. 10, c. 3, Cost.), venendo a configurarsi, con un’interpretazione avallata anche dalla Cassazione (sez. VI, ord. n. 10686/2012; da ultimo, sez. I, sent. n. 4455/2018), come una terza forma di asilo. Era un asilo “minore” rispetto al riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione sussidiaria: uno strumento che, insieme alle due ipotesi di protezione internazionale, i cui presupposti (rispettivamente, in sintesi, timore fondato di subire una persecuzione e rischio di un danno grave) sono molto più rigidi dell’impedimento all’«effettivo esercizio delle libertà democratiche» della norma costituzionale, dava una prima, se pur impropria e insufficiente, attuazione all’asilo costituzionale, privo di una legge di attuazione da ormai settant’anni.

Resta l’applicazione diretta del diritto di asilo, dell’art. 10, c. 3, Cost., da parte del giudice ordinario, però, con tutte le mancanze, che incidono sull’effettività del diritto, legate all’assenza di procedimenti, forme, disciplina dello status.

3. (Sempre più) detenzione per chi migra

La recrudescenza nel trattamento dello straniero si esprime, quindi, nell’ampliamento delle ipotesi di trattenimento.

In primo luogo, è previsto un prolungamento dei tempi attualmente stabiliti di detenzione nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR): da un periodo massimo di permanenza di 90 giorni si giunge a 180 giorni. Negli anni il termine massimo di detenzione è mutato, con un moto progressivamente ascendente sino al 2014, senza che all’aumento dei mesi di trattenimento sia mai corrisposto un incremento nella percentuale dei rimpatri, che si attesta intorno al 50%, indipendentemente dalla durata del trattenimento. Il prolungamento dei tempi rende ancora più stridente la collisione con la garanzia della libertà personale (art. 13 Cost.): il rispetto delle norme in materia di ingresso e soggiorno sul territorio può legittimare una restrizione della libertà personale? Non vi è una sproporzione nel sacrificio della libertà personale a fronte dell’interesse al controllo delle frontiere?

In secondo luogo, il decreto legge introduce il trattenimento del richiedente asilo «per la determinazione o la verifica dell’identità e della cittadinanza». Tale trattenimento può essere effettuato negli hotspot o nei Centri governativi di prima accoglienza, «per il tempo strettamente necessario, e comunque non superiore a trenta giorni»; inoltre, sempre a fini identificativi, il trattenimento può quindi essere effettuato sino a 180 giorni nei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR). Ora, colpisce particolarmente che una persona che cerca asilo, che necessita di protezione, che magari fugge da prigionie o dal rischio di subirne, giunta nel Paese che dovrebbe tutelarla, incontri come primo “benvenuto” un periodo di detenzione. Non è questo l’asilo cui pensavano i costituenti, se pur in un contesto differente dall’attuale, quando ragionavano di «diritto sacro dell’ospitalità», di «animo fraterno» e di riconoscimento al rifugiato di «tutte le cure che si possono prodigare».

L’ansia di distinguere il migrante economico, oggetto di rimpatrio immediato, e il richiedente asilo, da ammettere, almeno temporaneamente, sul territorio, ha prodotto la creazione di luoghi, gli hotspot, dove i diritti sono in balia di circolari e atti di soft law comunitario; con il decreto legge n. 113 del 2018, in quei luoghi, la stessa ansia legittima la detenzione, nel nome di una cultura del sospetto, che vede in ogni richiedente asilo un potenziale “truffatore”.

Per inciso, ma non semplicemente incidenter: è ragionevole la differenziazione fra chi teme per la sua vita perché perseguitato e chi fugge perché non ha di che vivere? La garanzia della salute, il diritto all’istruzione, il «libero sviluppo della persona», non sono forse, in quanto tali, e in quanto pre-condizione per l’esercizio dei classici diritti civili, motivi per migrare e voler/dover costruire la propria vita altrove?

Ragionando di richiedenti asilo è, inoltre, particolarmente evidente come sia irragionevole fondare il trattenimento sull’assenza di documenti di identità, la quale è “normale”, per non dire logica, per persone in cerca di rifugio. Quale deduzione ulteriore, si può quindi osservare, con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute nel parere sul decreto in questione, che, «dal momento che la mancanza di documenti è una condizione tipica e generalizzata di coloro che chiedono protezione internazionale», la norma lascia all’Autorità di pubblica sicurezza un’ampia discrezionalità, con il rischio di «un uso generalizzato del trattenimento contrastante con i principi di necessità, proporzionalità e ricorso a esso solo come misura di ultima istanza».

In terzo luogo, il Governo prevede la possibilità, per eseguire l’espulsione, di detenere temporaneamente lo straniero, quando non vi sia disponibilità nei CPR, «in strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza» (sino alla definizione del procedimento di convalida) nonché «in locali idonei presso l’ufficio di frontiera» (in attesa dell’esecuzione dell’effettivo allontanamento). L’indeterminatezza dei luoghi di detenzione, l’insufficiente valutazione in ordine all’adeguatezza degli stessi, i tempi (sino a 6 giorni, 4 presso le sedi dell’Autorità di pubblica sicurezza e 2 negli Uffici di frontiera), rendono le condizioni di trattenimento – come osserva sempre il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute – non sufficientemente determinate e, al contempo, rendono difficile esercitare un’attività di controllo, con una violazione dell’art. 13 Cost. Di nuovo, si può registrare una prevalenza delle istanze di controllo dell’immigrazione, intrise di marketing politico, su un diritto fondamentale, quale la libertà personale. Un preteso diritto alla sicurezza, che si fonda sul presupposto strumentale e discriminatorio della configurazione del migrante come problema di sicurezza pubblica, annulla la sicurezza dei diritti.

4. C’era una volta Riace

Diritti dimidiati per i migranti irregolari e per i migranti all’approdo, ma non solo: il provvedimento del Governo restringe i diritti di chi ha un titolo, costituzionalmente garantito, all’ingresso e al soggiorno sul territorio.

In primo luogo, è previsto che lo SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) tuteli unicamente i titolari di protezione internazionale e i minori non accompagnati, mentre i richiedenti asilo possono trovare accoglienza solo negli attuali centri governativi di prima accoglienza e nei centri di accoglienza straordinaria (CAS).

Già allo stato attuale il sistema di accoglienza conosce limiti notevoli e una cronica sproporzione fra possibilità di tutela e numero delle persone aventi diritto alla tutela, ma narra di buone pratiche che hanno il loro punto di forza nella diffusione sul territorio, il cosiddetto modello Riace del sindaco Domenico Lucano.

Il confinamento dei richiedenti asilo in grandi strutture, spesso prive di servizi sociali, linguistici, giuridici, non tutela la dignità della persona e il suo inserimento nella società, non assicura una accoglienza conforme agli standard internazionali e comunitari, produce una ghettizzazione.

In secondo luogo, viene ampliato il catalogo di reati che provocano, in caso di condanna definitiva, il diniego e la revoca dello status di rifugiato o della protezione internazionale sussidiaria; nell’elenco figurano reati come violenza sessuale, produzione e traffico di stupefacenti, rapina ed estorsione, nonché violenza o minaccia a pubblico ufficiale, lesioni personali gravi e gravissime, mutilazione degli organi genitali femminili, furto e furto in abitazione aggravati dal porto di armi o narcotici. Alcuni di questi reati paiono particolarmente odiosi o suscitano allarme sociale, potendo rientrare fra i motivi per i quali la Convenzione di Ginevra ammette la possibilità di espulsione del rifugiato; altri, invero, non altrettanto (ad esempio il furto, in quanto reato contro il patrimonio, o la minaccia a pubblico ufficiale, che si presta ad un utilizzo ampio). Al di là della ragionevolezza dei reati contemplati e del rispetto delle norme internazionali, si affaccia poi un’altra questione. Il rifugiato ha un diritto costituzionalmente tutelato al soggiorno sul territorio (ex art, 10, c. 3, Cost.), in quanto soggetto al quale è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche nel proprio Paese: dovrebbe conseguirne una restrizione delle ipotesi di revoca del titolo di soggiorno a casi particolarmente gravi, assimilabili a quelli previsti per la revoca della cittadinanza. L’approccio del provvedimento governativo sottintende l’idea che l’asilato sia tale per una graziosa concessione dello Stato, della quale deve essere grato a vita, non una persona alla quale è riconosciuto un diritto.

In terzo luogo, è previsto un procedimento immediato per il richiedente asilo sottoposto a procedimento penale o condannato anche con sentenza non definitiva per alcuni gravi reati, con l’obbligo, in caso di diniego, salvo gravi motivi di carattere umanitario, di lasciare il territorio anche in pendenza di ricorso. Per lo straniero non valgono allo stesso modo la presunzione di non colpevolezza (art. 27, c. 2, Cost.) e il diritto di difesa (art. 24 Cost.).

In quarto luogo, viene introdotta, con il maxiemendamento approvato in sede di conversione del decreto, la categoria dei Paesi di origine sicuri: se è cittadino di un Paese sicuro o un apolide abitualmente residente in un Paese sicuro, il richiedente asilo deve possedere «gravi motivi» che giustificano la sua richiesta, che viene esaminata con una procedura accelerata, con la possibilità che la domanda sia rigettata per manifesta infondatezza. Non solo, si precisa che «la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone»: è possibile che siano individuate all’interno di un Paese aree sicure, con la conseguente negazione in tali ipotesi del riconoscimento dell’asilo, introducendo così una ulteriore e notevole limitazione al diritto.

Il rigetto della domanda per manifesta infondatezza è quindi esteso a una serie di ipotesi, fra le quali l’ingresso illegale nel territorio dello Stato e la mancata presentazione tempestiva della domanda. Ora, è piuttosto facile che il richiedente asilo entri illegalmente, data la sua situazione, tanto più se, ad esempio, illegali dovessero ritenersi gli ingressi attraverso gli sbarchi via mare: la violazione della norma relativa all’ingresso nel territorio legittima la restrizione nella tutela del diritto di asilo, oggetto di una procedura accelerata, che potrebbe svolgersi all’interno dell’hotspot, con immediato respingimento del richiedente?

5. L’ossimoro della cittadinanza diseguale

Non è l’unico, peraltro, l’asilato, a dover sempre ricordare di non essere “italiano”: analoga sorte colpisce il cittadino, se prima di esser tale era uno straniero. Il “decreto sicurezza e immigrazione” prevede la revoca della cittadinanza in presenza di condanna definitiva per alcuni gravi reati, nei casi in cui la cittadinanza italiana sia stata acquisita da persona in precedenza straniera (in quanto nata in Italia e ivi residente legalmente e senza interruzioni sino alla maggiore età, o per matrimonio con cittadino italiano, o per “naturalizzazione”).

La violazione dell’eguaglianza formale è palese ed è tale da inficiare lo stesso concetto di cittadinanza. La cittadinanza liquida, con la Rivoluzione francese, i privilegi cetuali dell’Ancien Régime e introduce una condizione universale, connotata dal riconoscimento di un identico status per tutti; la cittadinanza presuppone e riconosce l’eguaglianza fra tutti i cittadini. Il provvedimento del Governo discrimina fra i cittadini, in palese violazione dell’art. 3 Cost., e mina le basi di un concetto cardine dello Stato moderno, democratico, di diritto.

In subordine, si può poi rilevare come la norma in questione sia platealmente priva dei requisiti di necessità e urgenza, non sia pertinente con la disciplina dell’immigrazione (se non muovendo dal presupposto che lo straniero versi in una condizione di peccato originale, che nemmeno la cittadinanza può sanare), sia suscettibile di violare norme e obblighi internazionali, in primis quelli relativi alle convenzioni in materia di apolidia, possa integrare una violazione altresì degli articoli 2 e 22 della Costituzione.

6. La repressione del dissenso e l’espulsione del disagio sociale

Come ogni provvedimento in materia di sicurezza pubblica degli ultimi anni, nel decreto legge n. 113 del 2018 non manca una parte dedicata alla repressione del dissenso, ovvero alla punizione dei comportamenti attraverso i quali si esprime il dissenso politico, il disagio sociale o che costituiscono manifestazioni di una supposta “alterità” rispetto alla società. Senza pretesa di completezza, si segnalano qui quale punta dell’iceberg dell’intento repressivo del provvedimento, la ri-penalizzazione del blocco stradale, l’inasprimento delle pene relative alle occupazioni di edifici, l’incremento delle ipotesi di “DASPO urbano”.

Innanzitutto, come appena detto, è re-introdotto il reato di blocco ferroviario e stradale. La fattispecie di impedimento e ostacolo alla libera circolazione in una strada ordinaria o ferrata era stata introdotta nel 1948, su iniziativa del Ministro dell’Interno Scelba, e punita con la reclusione da uno a sei anni, con pena raddoppiata nel caso il fatto fosse commesso da più persone, anche non riunite. Nel 1999, il blocco stradale o ferroviario era stato depenalizzato, punito con una sanzione amministrativa pecuniaria.

La ratio sottesa al reato era – ed è – evidente: in sintesi, come detto, reprimere il dissenso. Il blocco stradale (o ferroviario) costituisce uno strumento utilizzato in occasione di scioperi o manifestazioni di protesta, è un mezzo attraverso il quale sono espressi il dissenso, il disagio sociale, il conflitto nel mondo del lavoro. Il presidio che si trasforma in corteo per le vie di una città, gli operai, o i riders, in agitazione che bloccano la circolazione: sono forme di protesta strettamente correlate all’esercizio di diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti, come lo sciopero (art. 40), la riunione (art. 17) e la manifestazione del pensiero (art. 21). Il dissenso è coessenziale alla democrazia: di ciò non può non tener conto il legislatore quando bilancia sue manifestazioni, anche radicali, con altri interessi.

La democrazia è conflitto e deve riconoscere spazi di espressione al conflitto; il ricorso allo strumento penale in tali contesti indica una involuzione autoritaria dello Stato.

Forse la replica tout court del provvedimento Scelba è, peraltro, parsa eccessiva anche al legislatore: in sede di conversione del decreto viene operata una eccezione, prevedendo che nell’ipotesi di blocco stradale (ma non ferroviario) compiuta mediante l’ostruzione con il proprio corpo, sia comminata solo una sanzione amministrativa pecuniaria (da 1.000 euro a 4.000 euro), sanzione prevista altresì per i promotori e gli organizzatori.

In secondo luogo, diretta a colpire i movimenti sociali e il tentativo di far emergere una storia di diritti non garantiti e una situazione di profondo disagio sociale, è la norma che inasprisce la punizione, nell’ambito del reato di cui all’art. 633 c.p. (Invasione di terreni o di edifici), di «chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici» (la pena della reclusione, in precedenza fino a due anni, ora è da uno a tre anni), con un aggravamento se il fatto è compiuto da più di cinque persone, o da persona palesemente armata, e con un ulteriore aumento di pena per promotori e organizzatori delle occupazioni, se il fatto è commesso da due o più persone.

Nel caso delle occupazioni a scopo abitativo, invece di leggere l’occupazione come un segnale di carenza da parte delle istituzioni nella garanzia di un diritto fondamentale, quello all’abitazione, e dell’emersione di una situazione di tensione sociale, si sceglie l’accanimento contro coloro che rendono visibile il problema e forniscono una prima, se pur parziale e inadeguata, risposta.

In presenza, poi, di occupazione di uno spazio dove svolgere attività politica, culturale, sociale, entrano in gioco direttamente valori come la tutela del dissenso, il pluralismo, la partecipazione attiva. Se ciò non esclude, in caso di commissione di illeciti, la perseguibilità degli stessi, resta che occorre in sede normativa, così come giudiziaria, una ponderazione complessiva del contesto.

È una questione che chiama in causa quantomeno la questione della proporzionalità delle pene, incidendo sulla ragionevolezza in ordine alla restrizione della libertà personale, con una violazione altresì dell’art. 27, c. 3, Cost., laddove prevede che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato».

In terzo luogo, il decreto legge amplia i margini di utilizzo del c.d. “DASPO urbano”, ponendosi una volta di più in linea di continuità con il precedente “decreto Minniti”: ora il sindaco può comminare la sanzione amministrativa pecuniaria (da 100 euro a 300 euro) e l’ordine di allontanamento, oltre che dai luoghi precedentemente contemplati (quali porti, aereoporti, stazioni ferroviarie, scuole, università, musei, aree archeologiche o comunque interessate da consistenti flussi turistici o destinate al verde pubblico), anche dai presidi sanitari e dalle aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli, ai quali, in sede di conversione, sono aggiunti locali pubblici e pubblici esercizi.

Prosegue il processo che tende a trasformare il sindaco in sceriffo, dotandolo sia del potere di adottare proclami generali (il potere di ordinanza) sia bandi ad hoc: nel primo caso, in linea con il processo di attribuzione di poteri normativi sempre più vasti agli esecutivi, nel contesto di una più ampia presidenzializzazione della politica, nonché di un processo di de-legificazione e frammentazione normativa; nel secondo caso, in coerenza con l’incremento di misure preventive (e repressive), con un pericoloso ritorno in auge di categorie come la pericolosità sociale di “oziosi e vagabondi” e una amministrativizzazione della sicurezza (che si accompagna ad un sempre più largo utilizzo in sede giudiziaria delle misure di prevenzione).

Ciò che rileva non è incidere su eventuali cause del disagio sociale, in coerenza con il progetto di emancipazione sociale sancito nella carta costituzionale, ma rendere ancor più invisibili ed espellere dai luoghi della vita sociale coloro che già vivono in situazioni precarie e di difficoltà.

L’obiettivo è il decoro urbano: l’art. 9 del decreto Minniti, sul quale si basa il provvedimento in esame, recita «misure a tutela del decoro di particolari luoghi». Al decoro urbano è sacrificata la tutela della dignità e dei diritti (artt. 2 e 3 Cost.), nonché nello specifico la libertà di circolazione e movimento (art. 16 Cost.), e, con il divieto di accesso ai presidi sanitari, la tutela della salute (art. 32 Cost.); per tacere delle mancanze di garanzie che circondano l’adozione del provvedimento.

7. Contro il diverso e contro il dissenso: il fil rouge (il fil noir) della storia che non deve tornare

Il “decreto sicurezza e immigrazione”, come anticipato, si situa in un percorso, senza soluzioni di continuità rispetto ai provvedimenti adottati negli ultimi anni: in questo senso esso è un altro passo nella limitazione dei diritti, un passo che, nel caso dell’asilo, è uno scatto verso la sua estinzione.

È un provvedimento percorso da un fil rouge (o, meglio, noir): un intento repressivo, di limitazione, se non negazione, dei diritti percorre tutto il decreto. Da un lato, vi è la decisione di respingere le persone, restringendo lo spazio del diritto di asilo e rendendolo sempre più ostile e vuoto di diritti; dall’altro, la volontà di reprimere il dissenso e rendere invisibile il disagio sociale.

L’immagine che si forma davanti agli occhi è quella di una società del (non-)pensiero unico, che espelle il diverso: chi pensa e agisce diversamente, chi proviene da un luogo diverso, chi vive in modo diverso. Il sistema sociale ed economico è sempre più diseguale e per questo in realtà fragile, necessita di convogliare l’attenzione contro un nemico che crei una fittizia comunanza di intenti fra chi sta al vertice e chi alla base della piramide (le masse atomizzate) per evitare che la diseguaglianza esploda verso l’alto; nello stesso tempo ha bisogno di confinare le “anomalie”: chi è al di fuori del sistema e chi è contro il sistema.

Con un amaro gioco di parole: da un lato confini, territoriali e razziali, escludenti, e dall’altro confino (sotto forma di espulsione sociale, ma anche detenzione).

Il decreto si accanisce contro le vittime dell’ingiustizia economica e sociale, le persone costrette a migrare da una realtà globale segnata da una crescente diseguaglianza, da violenza e povertà (delle quali, per inciso, sono spesso quantomeno corresponsabili i Paesi che chiudono le loro frontiere), e le persone che quello stesso sistema spinge ai margini e non tutela; così come punisce chi quel sistema contesta (l’astrattezza delle fattispecie penali sia nell’immaginario di chi le prevede sia nella concretezza del loro utilizzo giudiziario si traduce nella punizione “privilegiata” di un certo tipo di dissenso).

I diritti, universalmente sanciti, si rivelano sempre più privilegi riservati, e da riservare, ai cittadini; a ciascuno, peraltro la sua diseguaglianza: i cittadini vedono riavvolgersi il film della storia dei diritti, con un rewind che corre veloce verso un passato sordo alle istanze della democrazia sociale e dalla libertà condizionata, quando non negata.

L’universalità dei diritti, l’eguaglianza, il dissenso: sono intaccati i pilastri della democrazia costituzionale in favore di un nazionalismo iure sanguinis autoritario, del quale il decreto legge “sicurezza e immigrazione” è degno manifesto nel procedimento di adozione, nel merito e nella ratio che sottende.

La Costituzione antifascista possiede gli anticorpi necessari. I diritti inviolabili, il diritto di asilo, l’eguaglianza sostanziale, la dignità, la libertà di manifestare il proprio dissenso, sono valori (ancora) tutelati dalla Costituzione: occorre farli vivere.

Alessandra Algostino

Professoressa associata in Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino.

da Comune-Info