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Il Coronavirus è arrivato in carcere: ora la diffusione fa paura

Sono dieci i casi di positività riscontrati tra i detenuti. Colpiti anche gli agenti penitenziari. Gli avvocati chiedono la concessione dei domiciliari per ragioni sanitarie.

Ieri sono squillati i telefoni di tantissimi famigliari dei detenuti del carcere di Voghera. Sono stati proprio quest’ultimi a chiamarli per avvisare che almeno uno di loro è risultato affetto di coronavirus, dopo che mostrava da qualche giorno dei sintomi influenzali. Tutti i detenuti della sezione di Alta sorveglianza, circa sessanta, sono stati messi in quarantena. Sono stati gli agenti penitenziari stessi – dopo una breve battitura come protesta – a concedere loro la possibilità di poter chiamare tutti i giorni i propri cari e i rispettivi avvocati. C’è molta preoccupazione, tanto che ora gli avvocati hanno cominciato da subito a fare istanza di scarcerazione per evidenti ragioni sanitarie, perlomeno per chi è in misura cautelare. A pensare che l’associazione Yairaiha Onlus fece, i primi marzo, una prima segnalazione di un sospetto, poi, fortunatamente, risultato negativo. Nell’appello inviato al ministro in data 4 marzo l’associazione ha sollecitato un intervento immediato per la scarcerazione dei detenuti più vulnerabili che rappresentano un numero elevato.

Ma purtroppo non parliamo dell’unico caso. Secondo il Dap sono 10, ad oggi, i casi di positività che sono stati riscontrati fra i detenuti sull’intero territorio nazionale in oltre 20 giorni, ovvero dal 22 febbraio scorso, quando sono stati varati i primi provvedimenti per fronteggiare l’emergenza. In alcuni istituti penitenziari ci sono stati casi di infetti non solo dei detenuti, ma anche del personale. Per ora è un numero marginale di persone. Secondo fonti della polizia penitenziaria due medici del carcere di Brescia sono risultati positivi al coronavirus, così come due detenuti aPavia. Una situazione che va ad aggiungersi ad un’altra notizia di giornata, secondo cui un detenuto di 19 anni, originario del Ghana, che era recluso nel carcere di San Vittore, è risultato positivo al Covid- 19 e si trova attualmente ricoverato all’ospedale Niguarda di Milano. Nei giorni scorsi la notizia di una detenuta “nuova giunta” al carcere di Lecce, risultata infetta, subito trasferita. Fortunatamente era stata messa fin da subito all’isolamento come prevede il nuovo regolamento per fa fronte all’emergenza. Così come non mancano casi di agenti penitenziari risultati positivi al tampone.

Per ora, precisiamo, si trattano di pochi casi, ma c’è il dato preoccupante che le carceri sono strapiene e la misura deflattiva – tra l’altro già esistente – del decretone non basta. Per questo l’associazione Antigone – assieme all’associazione nazionale partigiani, arci, Cgil e gruppo Abele – ha proposto delle misure per ridurre il numero dei detenuti e proteggere i più vulnerabili. Antigone, nell’appello, spiega che i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.931, cui vanno sottratti quelli resi inagibili nei giorni scorsi. I detenuti presenti, alla fine di febbraio, erano 61.230. Alcuni istituti arrivano a un tasso di affollamento del 190%. «Ogni giorno – si legge nell’appello – i detenuti sentono dire alla televisione che bisogna mantenere le distanze, salvo poi ritrovarsi in tre persone in celle da 12 metri quadri. Le condizioni igienico- sanitarie sono spesso precarie». Nel 2019 Antigone ha visitato 100 istituti: in quasi la metà c’erano celle senza acqua calda, in più della metà c’erano celle senza doccia. Spesso mancano prodotti per la pulizia e l’igiene. «Con questi numeri – denuncia sempre Antigone -, se dovesse entrare il virus in carcere, sarebbe una catastrofe per detenuti e operatori».

Antigone quindi propone alcune misure per ridurre il sovraffollamento e proteggere i più vulnerabili: l’affidamento in prova in casi particolari di cui all’art. 47- bis della legge 354/ 75 è esteso anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid- 19 con finalità anche di assistenza terapeutica; la detenzione domiciliare di cui all’articolo 47- ter, primo comma, della legge 354/ 75 è estesa, senza limiti di pena, anche a persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid- 19; a tutti i detenuti che usufruiscono della misura della semilibertà la concessione di trascorrere la notte in detenzione domiciliari; salvo motivati casi eccezionali, i provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone che si trovano a piede libero devono essere trasformati dalla magistratura in provvedimenti di detenzione domiciliare. La detenzione domiciliare prevista dalla legge 199 del 2010 e successivamente dalla legge 146 del 2013 deve essere estesa ai condannati per pene detentive anche residue fino a trentasei mesi, mentre la liberazione anticipata estesa fino a 75 giorni a semestre con norme applicabili retroattivamente fino a tutto il 2018. Ma mentre il virus, potenzialmente, potrebbe diffondersi nelle patrie galere sovraffollate, c’è la Lega che tuona contro la debole misura deflattiva inserita nel decretone che – a differenza di quanto dice il parlamentare leghista Jacopo Morrone – non farebbero uscire 6000 persone, ma solo 3000. Numero tra l’altro incerto visto che c’è un numero consistente di detenuti ( quelli che scontano una pena brevissima) che non hanno una fissa dimora e quindi è impossibile concedere loro i domiciliari. Eppure, c’è perfino il Sinappe, sindacato di polizia non certo “progressista”, a spiegare – tramite un comunicato – che le misure del decretone non servono a nulla per un “cura carceri”. Il sindacato propone un potenziamento delle misure alternative e una politica che si appropri di quella filosofia che vece il carcere l’extrema ratio e non il “contenitore del disagio sociale”.

Damiano Aliprandi

da il dubbio