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I corpi alieni delle persone migranti

La spregevole escalation delle tanatopolitiche europee ci sta abituando ad associare ai corpi delle persone migranti ormai soprattutto l’aggettivo “recuperati”. L’ultima tragedia dell’Egeo, mentre ancora si piange la strage di Cutro, segnerà certamente una nuova impennata non certo soltanto numerica – e i numeri sembrano terrificanti – in quella escalation.

di Annamaria Rivera

Come ci ha insegnato l’antropologa Mary Douglas (1979: 109), il corpo è un «microcosmo sociale in relazione diretta col centro del potere». I corpi non sono mai neutri, sono sempre corpi sociali, cioè culturalmente plasmati per mezzo di pratiche educative, trasmissione di stilemi, dispositivi rituali: ogni cultura ha il proprio modello etico-estetico di corpo e proprie specifiche procedure di modellazione dei corpi.

I corpi degli altri e soprattutto delle altre sono sottoposti/e a un duplice vincolo: oltre a essere modellati dalla cultura di provenienza, dalle sue consuetudini, schemi culturali e pratiche sociali, sono percepiti, immaginati, rappresentati da agenti «endogeni», cioè dalle categorie sociali, dall’immaginario, dall’ideologia, dai poteri della società.

In particolare, il corpo del/della migrante è il «luogo geometrico di tutte le stigmate» (Sayad 2002: 345), imposte dalla società come «prodotto sociale che è tormentato, controllato, educato, allevato […]», che porta con sé un’identità sociale oggettivata dallo sguardo degli altri e per questo dominata.

Volendo azzardare una tipologia dei modi molteplici e difformi in cui sono percepiti, immaginati, trattati simbolicamente e rappresentati i corpi delle persone migranti o appartenenti a minoranze disprezzate, propongo uno schema che – pur prestandosi al rischio della generalizzazione e dell’astrazione – può permettere di cogliere alcune costanti.

Gli atteggiamenti e i dispositivi più consueti oscillano costantemente, mi sembra, fra l’invisibilizzazione e l’iper-visibilizzazione dei loro corpi. Nella realtà quotidiana, per strada, nei negozi, negli uffici, nei servizi pubblici, le persone immigrate, per lo più rese invisibili come forza-lavoro, d’un tratto divengono troppe, ingombranti, vistose, poiché percepite come invadenti, minacciose, anomale.

Come scrive Abdelmalek Sayad, è allora che la persona immigrata «fa esperienza del sospetto che lo segue ovunque», così che «ha la sensazione di essere costantemente sorvegliata, come si sorveglia un corpo estraneo» (Sayad, 2002, p. 273). Un esempio estremo di questa tendenza è stata l’abitudine delle forze dell’ordine italiane di costringere donne o ragazze romanì, sospettate di nascondere refurtiva o droga, a denudarsi per strada. In quanto de-umanizzate, non vengono considerate donne, quindi per loro non valgono le regole formali delle relazioni di genere, il senso del pudore, l’interdetto della nudità totale in luoghi pubblici.

All’opposto, nei cantieri, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle case degli/delle «autoctoni/e», le persone immigrate in genere sono occultate dal velo del disconoscimento e dell’insignificanza: i media e le istituzioni, con qualche eccezione, raramente raccontano di questi corpi e della loro condizione di sfruttamento e di dipendenza, spesso estremi, a meno che non intervenga un evento eccezionale – di solito una rivolta – a squarciare il velo.

Quanto alle persone straniere, in maggioranza donne, che svolgono lavori di cura nel chiuso delle mura domestiche altrui, assai di rado si mette in luce che il loro lavoro, dequalificato, per lo più mal remunerato, è uno dei pilastri che hanno retto il Welfare State all’italiana.

Per fare un esempio, le retoriche intorno a «padroni a casa nostra» così come l’esaltazione dei prodotti tipici italiani e l’invito a valorizzarli occultano un dato della realtà incontestabile:  buona parte di ciò che costituisce il «tipicamente nazionale» (dalle pizzerie al parmigiano doc, dai pomodori pelati agli agrumi) è il risultato del lavoro delle persone migranti, per lo più assai duro, al nero, malpagato. Soprattutto i braccianti e le braccianti sono spesso costretti/e a rapporti di lavoro e a condizioni di esistenza servili o semi-schiavili; in ogni caso sono sottoposti/e a una subordinazione multipla, poiché dipendono dai loro sfruttatori e dai caporali al loro servizio, non solo per il lavoro e il salario, ma anche per l’alloggio, il trasporto, lo status giuridico, a volte perfino per l’alimentazione e la sicurezza personale. Questa condizione di subordinazione espone le braccianti anche a ricatti, molestie e violenze sessuali.

All’opposto, quando si tratta di stranieri/e, la cronaca – come ho già detto – è sempre attenta a etichettare i presunti autori o autrici di reati o di semplici trasgressioni con l’indicazione della nazionalità, dell’“etnia”, eventualmente anche della religione, spesso perfino della loro posizione rispetto al titolo di soggiorno; mentre la cronaca è solita evitare accuratamente queste «informazioni» allorché una straniera o uno straniero hanno il ruolo di vittime e le esalta allorché sono vittime di altri stranieri/e.

Nei casi, poi, di stupri e femminicidi, il sistema d’informazione di solito tende ad enfatizzare quelli commessi da stranieri/e, spesso facendone oggetto di campagne allarmistiche.

Una seconda retorica è quella della stereotipizzazione: i corpi reali scompaiono in favore di corpi immaginati e immaginari, costruiti sulla base di stereotipi. Anche allorché il genere plurale o il nome collettivo cedono il posto al genere singolare, il più delle volte non si tratta di altro che di tipi, se non maschere, irrigiditi da cliché e stereotipi che riguardano anche e soprattutto la rappresentazione dei corpi.

Il teatro razzista mette in scena incessantemente queste maschere, talvolta arcaiche, talaltra modernissime: l’Immigrato rapinatore o stupratore, il Clandestino invasore e/o delinquente, la Zingara rapitrice d’infanti, l’Albanese, lo Slavo, il Marocchino omicidi o spacciatori, l’Extracomunitario pirata della strada, la Trans brasiliana divoratrice e vittima, il Lavavetri aggressivo e legato al racket, la Musulmana[3] velata, perciò integralista e/o sottomessa, l’Africana sottoposta a mutilazioni sessuali e ad altri orrori arcaici, l’infida Badante dell’Est seduttrice o manipolatrice di anziani, il Cinese chiuso e sfuggente, misterioso e omertoso, trafficante di false griffe e di gatti…

Molte di queste immagini stereotipiche, proposte e riproposte dalla dialettica competitiva fra media, politica e senso comune, sono il precipitato di pregiudizi razzisti e sessisti: alle donne aliene, più che alle altre, sembra non sia data alternativa tra la figura patetica della docilità e della sottomissione e la figura inquietante dell’intraprendenza volta al raggiro, al meretricio o al crimine.        

Un terzo procedimento retorico frequente è quello che potremmo definire dell’indistinzione-magmatizzazione: la cronaca e gli schermi televisivi, allorché si occupano degli altri e delle altre, spesso ci propongono immagini che rimandano a un corpo collettivo, per meglio dire a un indistinto magma corporeo, dal quale sono cancellati i confini individuali: imbarcazioni di fortuna gremite di feccia umana (secondo il lessico di chi oggi si vede costretto a moderare un po’ il linguaggio dagli scranni di governo), centri di detenzione che implodono per la presenza di masse incontenibili e «pericolose», moschee straripanti di un indistinto corpo genuflesso, società e città minacciate da folle d’invasori…

Neppure da morti/e, quando non possono più costituire una minaccia, i corpi altrui sono riconosciuti come individuali e singolari; anche dopo che sono stati uccisi dal proibizionismo continuano a essere detti dalle cronache clandestini/e, e tali restano perfino se sono bambini o bambine. Il fatto che perfino da cadaveri siano considerati indegni di un nome – se non di quello singolare di ognuno/a, almeno di un nome collettivo rispettoso – non costituisce altro che il sigillo della de-umanizzazione di cui migranti e asilanti sono abitualmente oggetto.

Un altro dispositivo, non solo retorico, è quello, in apparenza opposto, della distinzione-marchiatura. Alludo a tutte quelle procedure simboliche e amministrative di tipo biopolitico, che incidono o «estraggono» lo stigma sui/dai corpi altrui, nella forma della marchiatura vera e propria – per esempio, i numeri segnati sulle braccia dei «clandestini» che approdano a Lampedusa – o del trattamento distintivo: per esempio, il confinamento nei centri di detenzione per migranti.

Si pensi alla vicenda italiana dei rilievi dattiloscopici riservati a rom, asilanti, rifugiati/e e migranti. Grazie alla sostanziale convergenza – culturale prima che politica – di gran parte della politica mainstream, di ogni orientamento, nel corso degli anni questa misura, da essere eccezionale, si è banalizzata e generalizzata; a tal punto che con la legge Bossi-Fini è stata estesa a tutti i cittadini stranieri richiedenti il permesso di soggiorno o il suo rinnovo.

Ancora a proposito di dispositivi biopolitici: in Italia, negli anni più recenti, vengono lanciate periodicamente campagne di «censimento dei campi-nomadi», volte a realizzare schedature di massa dei rom e dei sinti, accompagnate dal «rilevamento» delle impronte digitali. Le persone da schedare, adulti/e e minori, di nazionalità le più diverse, compresa l’italiana, sono individuate sulla base di una discriminante detta «etnica» (in realtà, razzista).

Perciò associazioni e organismi nazionali e internazionali di difesa dei diritti umani non fanno che criticare e denunciare questa consuetudine come discriminatoria, contraria al diritto italiano e internazionale, offensiva della dignità umana: invece di proteggere le persone più discriminate, le si addita, implicitamente o esplicitamente, come pericolose o potenzialmente eversive.

Infine, è il confinamento nei lager di Stato a rappresentare nel modo più esemplare il procedimento della distinzione-marchiatura. La lunga teoria di morti violente e oscure fu inaugurata dalla morte di Amin Saber, nel Cpt di Agrigento. Accadde nell’estate del 1998, poco dopo l’approvazione della legge 40, detta Turco-Napolitano, che istituiva per la prima volta in Italia la detenzione extra-penale, riservata agli «extracomunitari», trovati in condizione di irregolarità sul territorio italiano. Quella legge inaugurava lo stato d’eccezione permanente, la sospensione, durevole, della legalità.

Essa istituiva, insomma, un nuovo regime d’internamento, una forma inedita di sequestro e coercizione abusivi dei corpi alieni, che l’ipocrisia di Stato non ha saputo neppure designare con un neologismo accettabile: in Italia si è passati dall’ossimoro eufemistico di Centri di permanenza temporanea e assistenza, che illustrava bene la filosofia del «razzismo democratico», all’esplicito Centri di identificazione ed espulsione, che altrettanto bene rappresenta il razzismo aperto e brutale della destra, fino a Centri di permanenza per i rimpatri, una designazione che pretendeva anch’essa d’essere eufemistica, inventata dalla Legge Minniti-Orlando del 2017.

In definitiva, l’architettura discorsiva dominante, allorché sottrae i corpi «alieni» all’invisibilità, lo fa per rappresentarli e trattarli come onnipresenti, proliferanti, minacciosi (Tevanian, 2008). Essa riproduce costantemente la figura del migrante e della migrante come minaccia sociale, come alterità irriducibile alla norma, pertanto da controllare, disciplinare, correggere, anche nel corpo, infine liberarsene.

I corpi alieni, così raffigurati, sono, fra l’altro, figure proiettive alle quali si affida la rappresentazione di angosce individuali e collettive, legate ai problemi irrisolti della nostra identità e del rapporto con il nostro passato. Fra questi, la recente e incerta identità democratica nazionale, oltre tutto niente affatto fondata saldamente su valori e principi civili, e oggi più che mai fragile e contestata dall’attuale governo Meloni: decisamente razzista nonchè influenzato dall’ideologia fascista storica, ma anche dall’etno-nazionalismo razzialista della Lega Nord, com’essa stessa, la Lega, lo definisce.

Come ha osservato una volta Ilvo Diamanti, commentando i risultati di un sondaggio, allorché la maggioranza esprime senso di orgoglio nazionale, questo «appare incardinato su elementi extra-civili e pre-politici»: la bellezza del paesaggio, il patrimonio artistico e culturale, la moda, la cucina… L’immagine restituita dal sondaggio è quella di italiani rassegnati al proprio – patologico e storico – deficit di senso civico, rimpiazzato e compensato da un senso ‘cinico’ dilatato e dilagante».

Ancora a proposito del nesso fra il razzismo e il «cattivo» passato, questo riguarda non solo l’incapacità, tipicamente italiana, di fare i conti con la storia specifica del proprio razzismo, anche coloniale; ma altresì la persistenza di un rapporto assai problematico col passato di emigranti, spesso allontanato come una vergogna da dimenticare.

Insomma, alla nostra società manca una delle condizioni per riconoscere e ammettere come normale, permanente, strutturale la realtà dell’immigrazione e della pluralità culturale: un lessico emozionale e politico che permetta di elaborare il passato e di rispondere ai cambiamenti del presente e alle prospettive del futuro.

da Comune-Info

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