Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU): Tolleranza zero contro gli abusi delle forze di polizia
- novembre 23, 2015
- in malapolizia
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Il 28 settembre 2015 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il Belgio, a maggioranza di 14 voti contro 3, per la violazione dell’art. 3 Cedu. La Corte, ribaltando la sentenza precedentemente resa all’unanimità dalla Camera, ha infatti ritenuto che gli schiaffi inferti dalla polizia a due soggetti in stato di fermo avessero integrato un trattamento degradante ai sensi della Convenzione e ha, pertanto, condannato il Belgio a corrispondere 5000 euro a ciascun ricorrente per il danno morale patito.
La sentenza della Grande Camera rappresenta una tappa significativa nella giurisprudenza della Corte europea in punto d’interpretazione dell’articolo 3 Cedu nei casi di police brutality
I fatti da cui ha tratto origine il caso in esame riguardavano due fratelli, uno dei quali minorenne,che erano stati interrogati dalla polizia, in occasioni diverse tra loro non connesse. Nel ricorso a Strasburgo, entrambi i giovani hanno lamentato di essere stati vittime di una duplice violazione dell’art. 3 Cedu: sul piano sostanziale, perché schiaffeggiati sul volto dalle forze dell’ordine durante la loro permanenza in un commissariato; sul piano procedurale, perché l’indagine relativa a tali episodi si era rivelata ineffettiva, incompleta e di eccessiva lunghezza.
Nel merito, come anticipato in premessa, la Grande Camera ha anzitutto riconosciuto la violazione materiale dell’art. 3 Cedu, qualificando il trattamento ricevuto dai due ricorrenti come degradante.
In linea generale, la Corte ha richiamato la propria giurisprudenza secondo cui ogni ricorso all’uso della forza da parte delle autorità di polizia nei confronti di un individuo, che non si renda strettamente necessario dalla sua stessa condotta, svilisce la dignità umana e rappresenta “in via di principio” una violazione dell’art. 3 Cedu (cfr. ex multis Ribitsch c. Austria, 4 dicembre 1995,§ 38; 4 ottobre 2011, Mete e altri c. Turkey§ 106;e Grande Camera, 13 dicembre 2012, El-Masri c. Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia§ 207).
Il caso in esame ha dunque costituito per la Grande Camera l’occasione per ribadire il ruolo centrale svolto dalla nozione di dignità umana al fine di determinare il contenuto dell’espressione “trattamento degradante” ai sensi dell’art. 3 Cedu, osservando che “la proibizione della tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti è un valore di civiltà strettamente collegato con il rispetto della dignità umana” e sottolineando, inoltre, che “il rispetto della dignità umana fa parte dell’essenza stessa della Convenzione” (§ 101). Per questo motivo – hanno statuito i giudici di Strasburgo – qualsiasi comportamento tenuto da parte delle forze dell’ordine che svilisce la dignità umana costituisce una violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
Nel dettaglio, i principali snodi argomentativi che hanno condotto la Corte alla condanna del Belgio possono essere schematicamente riassunti come segue.
a) In primo luogo, la Corte ha ritenuto che lo schiaffo inferto al volto da parte di un rappresentante delle forze dell’ordine nei confronti di un individuo che si trovi completamente soggetto al suo controllo costituisce un grave attacco alla dignità personale, poiché il viso rappresenta la parte del corpo che esprime l’individualità della persona, che manifesta la sua identità sociale e che costituisce il centro dei suoi sensi – la vista, la parola e l’udito – utilizzati per la comunicazione con gli altri (§ 104).
b) In secondo luogo, considerando che può essere sufficiente che la vittima si senta umiliata agli stessi propri occhi perché sia integrato un trattamento degradante ai sensi dell’articolo 3 Cedu, la Corte ha ritenuto che anche uno schiaffo – per quanto isolato, non premeditato e privo di effetti gravi o duraturi sul corpo – può essere percepito come un’umiliazione dalla persona che lo riceve (§§ 87 e 105). Quando inflitto dagli agenti delle forze dell’ordine nei confronti delle persone sottoposte al loro controllo ha aggiunto la Corte, lo schiaffo sottolinea quella relazione di superiorità-inferiorità che per definizione caratterizza il rapporto tra l’autorità e l’individuo in custodia. Il fatto che le vittime sappiano che tale atto integra un illecito di tipo deontologico e professionale da parte degli ufficiali può inoltre suscitare un senso di arbitrarietà, di ingiustizia e d’impotenza (§ 106)
c) In terzo luogo, i Giudici hanno sostenuto che coloro che sono sottoposti a custodia o che comunque- come i ricorrenti – si trovano presso una stazione di polizia per un controllo di identità o un interrogatorio versano in una situazione di vulnerabilità e pertanto le autorità hanno il dovere di proteggerli. Gli agenti di polizia non rispettano tale dovere nel momento in cui infliggono ai soggetti sotto il proprio controllo l’umiliazione di essere schiaffeggiati, a nulla rilevando – sotto questo profilo la Grande Camera ha rovesciato la sentenza di primo grado – il comportamento irrispettoso o provocatorio da parte della vittima.
Il collegio ha infatti ribadito che la Convenzione pone in termini assoluti il divieto di tortura e di pene o i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento della persona che ne è vittima. Pertanto – hanno argomentato conclusivamente i giudici – in una società democratica, il maltrattamento inferto deliberatamente non rappresenta mai una risposta adeguata ai problemi che devono affrontare le autorità generalmente intese e soprattutto la polizia: quest’ultima – ha infatti ricordato la Corte citando testualmente il § 36 del Codice europeo di etica per le forze dell’ordine – “non deve infliggere, incoraggiare o tollerare alcun atto di tortura, alcun trattamento o pena inumana o degradante in nessuna circostanza” (§ 108). Inoltre, la Corte ha evidenziato come l’articolo 3 Cedu imponga agli Stati un obbligo positivo di addestrare gli ufficiali di polizia al fine di garantire un alto livello di professionalità, affinché nessuno sia sottoposto a tortura o ad altro trattamento in contrasto con tale disposizione (principio già espresso nel caso Davydov e altri c. Ucraina, 1.7.2010, § 268).
d) Infine, è stata messa in luce la circostanza che il primo ricorrente era minorenne al momento dei fatti. La Corte, infatti, ha colto l’occasione per ricordare che, quando gli agenti di polizia, nell’esercizio delle loro funzioni, entrano in contatto con soggetti minorenni, devono tenere debitamente conto della vulnerabilità intrinseca alla giovane età di quest’ultimi .
Coerentemente, la Grande Camera ha rilevato come la stessa condotta possa risultare, al contempo, compatibile con la Cedu se rivolta a soggetti adulti e incompatibile con la stessa Convenzione per il fatto che abbia avuto come destinatari soggetti non ancora maggiorenni. La Corte ha sottolineato infatti che, quando vengono in contatto con minori, i funzionari di polizia devono esercitare un auto-controllo rafforzato, giacché – hanno concluso i giudici di Strasburgo richiamando ancora il Codice europeo di etica della polizia (§ 44) – il trattamento rischia di avere un impatto più forte – soprattutto in termini psicologici – sul minore (§ 109-110).
Dal punto di vista procedurale , la Corte ha riscontrato una ulteriore violazione dell’art. 3 Cedu nel fatto che l’indagine condotta dalle autorità belghe, da un lato, non fosse stata sufficientemente scrupolosa, e dall’altro si fosse protratta troppo a lungo. A tal proposito, i giudici hanno evidenziato che quando le accuse di ill-treatment coinvolgono le forze dell’ordine è essenziale una pronta risposta da parte delle autorità investigative, al fine di mantenere la fiducia del pubblico nello stato di diritto e evitare che si diffonda un’immagine di collusione o, comunque, di indebita tolleranza rispetto a questo tipo di comportamenti illeciti (§ 133). Nel caso di specie, al contrario, le indagini erano state effettuate in maniera superficiale, ed inoltre tra la denuncia di maltrattamenti presentata dai due ricorrenti e le sentenze della Corte di Cassazione (che avevano segnato la conclusione dei rispettivi procedimenti) erano trascorsi rispettivamente quasi cinque anni e oltre quattro anni e otto mesi.
Pare opportuno soffermare brevemente l’attenzione sull’opinione dissenziente espressa dalla minoranza dei giudici, dalla quale emergono interrogativi molto significativi relativamente ai limiti che la Convenzione impone all’utilizzo della forza da parte della polizia.
I giudici dissenzienti si sono infatti chiesti se davvero, d’ora in poi, qualsiasi interferenza con la dignità umana, derivante dall’uso della forza da parte della polizia, costituirà un trattamento degradante e quindi una violazione dell’articolo 3 Cedu. Il timore espresso nell’opinione dissenziente è che la sentenza della Grande Camera possa imporre uno standard irrealistico nella tutela dei diritti, di fatto svuotando il requisito in virtù del quale – affinché si configuri una violazione dell’art. 3 Cedu – è necessario che la violenza inferta dalle forze dell’ordine superi un livello minimo di gravità, cioè oltrepassi quel grado di sofferenza che risulta coessenziale con la natura coercitiva dell’intervento.
In altre parole, pur ritendo di per sé lodevole l’approccio a “tolleranza zero” espresso dalla maggioranza del collegio, la dissenting opinion ha tuttavia messo in guardia rispetto all’adozione di un orientamento poco realistico in merito al canone della soglia minima di gravità che deve raggiungere la violazione.
Pare in conclusione potersi affermare che la Grande Camera abbia inteso assumere una posizione particolarmente intransigente nei confronti delle condotte degli agenti di polizia suscettibili di ledere la dignità delle persone sotto il loro controllo, quandanche si tratti di forme di violenza di per sé lievi. Posizione riassumibile nel senso che integrano trattamenti degradanti ai sensi dell’art. 3 Cedu le condotte delle forze dell’ordine che umiliano o sviliscono l’individuo e la sua dignità – anche in assenza d’intensa sofferenza fisica o mentale – suscitando sentimenti di paura, di angoscia o di inferiorità. A nulla rilevando, inoltre, se e quanto il comportamento delle vittime possa essere stato irrispettoso o provocatorio.
La Grande Camera ha in definitiva arricchito la capacità di tutela dell’art. 3 Cedu rispetto all’esercizio abusivo di poteri pubblici, allargando l’ambito di applicazione del divieto di trattamenti degradanti anche a quelle forme minori di sopruso che, proprio in ragione della loro apparente lievità, spesso non trovano adeguata risposta negli ordinamenti nazionali
Francesca Cancellaro