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A cosa servono le scorte? Un caso esemplare a Torino

Le scorte hanno la finalità di assicurare protezione a persone esposte a situazioni di rischio di natura terroristica o correlate al crimine organizzato. Ma non è sempre così: a volte servono solo ad assicurare uno status symbol, altre a sovradimensionare, sul piano dell’ordine pubblico, fenomeni di conflittualità sociale. Torino è, sul punto, all’avanguardia

di Claudio Novaro da Volere la Luna

Il vocabolario della lingua italiana definisce la “scorta” come “l’azione di accompagnare a scopo di guida, di sorveglianza o di protezione”. In Italia, secondo un’inchiesta di qualche anno fa del Corriere della Sera, sono oltre duemila gli operatori delle forze dell’ordine impiegati nell’attività delle scorte, con una spesa complessiva che, a detta dei sindacati di Polizia, supera i 250 milioni di euro all’anno. La legge assegna al ministero dell’Interno la competenza ad adottare i provvedimenti «per la tutela e la protezione delle persone esposte a particolari situazioni di rischio di natura terroristica o correlate al crimine organizzato, al traffico di sostanze stupefacenti, di armi o di parti di esse, anche nucleari, di materiale radioattivo e di aggressivi chimici o biologici o correlate a attività di intelligence di soggetti o organizzazioni estere».

Nel 2002, a seguito dell’omicidio di Marco Biagi (a cui era stata negata la scorta nonostante le sue ripetute richieste) è stato istituito nell’ambito del ministero, con un decreto legge del maggio 2002, poi convertito nella legge 2 luglio 2002, n. 133, l’Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale (UCIS), una struttura centralizzata che ha il compito di occuparsi dell’assegnazione e dalla gestione delle scorte. Esistono diversi livelli di protezione, in base al rischio e alle minacce a cui è esposta la personalità protetta. Accanto alla vigilanza dinamica, con passaggi periodici presso i luoghi oggetto di vigilanza, al presidio fisso presso l’abitazione o il luogo di lavoro, vi sono le attività di vera e propria tutela che vanno dalla presenza di un agente che viaggia sulla stessa auto della persona a rischio, sino alla scorta mobile che prevede, a seconda dei casi, la presenza da una a tre auto blindate al seguito, con a bordo fino a un totale di nove agenti di scorta. Non si contano le polemiche per l’eccessivo uso delle scorte comparse sui giornali negli ultimi anni, molte delle quali hanno stigmatizzato la tendenza a considerarle come un vero e proprio status symbol (secondo l’espressione usata, qualche anno addietro, dal segretario generale di uno dei principali sindacati di Polizia) pagato dal contribuente «a danno dei servizi essenziali al mantenimento della sicurezza collettiva». In altri casi, al centro dell’attenzione è stato l’uso degli agenti a sostegno, più che a tutela, della vita quotidiana dello scortato (siamo un paese solidale, specie verso i potenti), come accompagnare i figli a scuola, fare la spesa, andare al cinema ecc.

Come sempre all’avanguardia, a Torino si è sperimentata negli anni un’ulteriore funzione importante della scorta, quella di volano per il sovradimensionamento, sul piano dell’ordine pubblico, dei fenomeni legati alla conflittualità sociale. Così, oltre una ventina di anni fa, nel processo a carico di Sole, Baleno e Pelissero tutti i magistrati che ricoprivano una qualche funzione giudiziaria nel processo (con il coinvolgimento sia pure per una sola udienza) sono stati protetti da scorta, affinché non dimenticassero quanto fossero pericolosi per la loro personale incolumità gli anarchici travestiti da ecoterroristi (o viceversa). L’intento era ovviamente quello di rasserenare gli animi e di consentire, attraverso una modifica delle normali modalità di vita e di movimento dei magistrati interessati, un uso responsabile dei rispettivi poteri, nell’ottica di una sempre maggiore imparzialità rispetto ai fatti e agli imputati da giudicare… Così, anche nelle vicende legate alla trentennale resistenza No Tav, sia i magistrati, giudicanti e inquirenti, sia diverse personalità politiche e giornalistiche, considerate acerrime nemiche del movimento, hanno beneficiato di una tutela personale con scorta.

La scorta è in tal modo divenuta, con lo sguardo rivolto anche all’opinione pubblica, una spia di qualcosa che la trascende sul piano della rappresentazione sociale, in questo caso la pericolosità del movimento di protesta, che, attraverso l’assegnazione della scorta viene etichettato come potenzialmente capace, attraverso i suoi esponenti più radicali, di compiere attentati contro l’incolumità delle persone. Una scelta, questa, che si è rivelato azzeccata, se, ad esempio, ancora nel 2021 il direttore di un importante quotidiano nazionale come la Repubblica, nel corso di una trasmissione televisiva, ebbe a dire «i No Tav sono un’organizzazione violenta, quanto resta del terrorismo italiano degli anni ‘70. Aggrediscono sistematicamente le istituzioni, la polizia, anche i giornali, minacciano i giornalisti a Torino». Non sempre però le cose vanno però come previsto. Non si può non ricordare la famosa vicenda dell’autista della scorta del pubblico ministero Rinaudo, aggredito, a suo dire, circa una decina di anni fa, da una fantomatica squadraccia di antagonisti che, dopo averlo picchiato e ferito con un coltellino, gli avrebbe gridato, prima di allontanarsi: «Questa è la fine che fanno i servi dei servi». Nel giro di pochi giorni – dopo una campagna mediatica di tutto rispetto sul pericolo delle derive terroristiche delle anime più radicali del movimento e le sobrie dichiarazioni degli stessi magistrati inquirenti («C’è sempre un’ora zero. Un momento in cui accade qualcosa di diverso che cambia il corso della storia») – l’uomo ha confessato di essersi inventato tutto. Come, con avvedutezza e grande senso di responsabilità ha scritto il quotidiano La Stampa, «forse la causa [della sua condotta] potrebbe essere lo stress di questo periodo, il desiderio – da ex carabiniere privato del porto d’armi – di ritornare in un ruolo operativo, a fianco di colleghi fortemente motivati e responsabilizzati. Non si può dimenticare che l’autista era “un padre di famiglia […] impegnato […] in turni massacranti della scorta del pubblico ministero che aveva fiducia in lui”» (sic!).

Ma veniamo ai giorni nostri. È comparsa qualche settimana fa, in occasione del dibattito su quella che i giornali hanno malamente definito la “legalizzazione” del centro sociale Askatasuna, un’intervista al Presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio. Nella stessa, Cirio ha dichiarato: «Vivo da anni sotto scorta a causa delle minacce ricevute quattro anni fa. Ricorderete i volantini con la mia faccia al posto di quella del povero Aldo Moro. Pare arrivassero da ambienti dell’area antagonista», ricevendo anche la doverosa solidarietà del Sindaco di Torino che, nell’esprimere la sua «totale vicinanza al Presidente» ha sottolineato che «è intollerabile che egli giri sotto scorta».

Sono stato il difensore di tre dei quattro giovani indagati per aver affisso quei volantini, che effigiavano Cirio al posto di Moro, appena sequestrato dalle Brigate Rosse, con una scritta in calce che recitava “I cosplayer che vogliamo”. Per chi lo ignorasse, come fino al processo è accaduto a chi scrive, un cosplayer è un soggetto che ama indossare i costumi di personaggi famosi, in genere di film o fumetti. Partiamo subito dalla fine: per due degli imputati, poco più che ventenni, il reato di minacce aggravate, contestato per la redazione e l’affissione dei volantini, è stato dichiarato estinto per esito positivo della messa alla prova, gli altri due, un ragazzo e una ragazza, sono stati assolti per non aver commesso il fatto. Il processo ha consentito di chiarire cosa fosse successo. In breve, i due imputati poi ammessi alla prova, come si evince dalle loro concordi dichiarazioni, avevano trovato su Internet il fotomontaggio raffigurante Alberto Cirio e ci avevano aggiunto di loro una scritta, quella sul cosplayer, a mo’ di didascalia. Poi uno aveva telefonato all’altro, proponendogli di andare a fare «qualche boiata fuori casa». Dopo averne stampato alcune copie si erano recati nel quartiere di Vanchiglia, dove, mischiatisi alla movida notturna e in compagnia degli altri due imputati, avevano appeso con lo scotch, in luoghi non distanti dal centro sociale Askatasuna, tre esemplari del volantino, nell’indifferenza degli altri due soggetti che si erano limitati a guardarli a distanza di qualche metro. Le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza posizionate nel quartiere restituivano con chiarezza le diverse fasi dell’accaduto e, ciò nonostante, la Polizia decideva di denunciare tutti e quattro i ragazzi, anche perché i due più grandi venivano giustamente considerati socialmente pericolosi, anche se incensurati, posto che erano stati visti frequentare talvolta il centro sociale e, addirittura, partecipare ad alcune manifestazioni in Val di Susa. In quel periodo, tra l’altro, molti militanti di Askatasuna erano sotto intercettazione telefonica e ambientale da parte della Polizia, che ascoltava le loro conversazioni nelle quali avevano avuto modo di commentare l’episodio, definendolo una ragazzata a cui il centro sociale era estraneo.

Ciò nonostante, tutti i commenti comparsi sui giornali al momento del ritrovamento valorizzavano la circostanza che i volantini fossero stati ritrovati nei pressi del noto centro sociale e rilanciavano la solita litania contro i movimenti antagonisti (riesce difficile immaginare ispirata da chi…), fondata sui rischi di ritorno agli anni di piombo. Tra i tanti spicca quello di una Giorgia Meloni, non ancora Presidente del consiglio, che osservava: «Lo spregevole volantino intimidatorio trovato, guarda caso, nei pressi del centro sociale Askatasuna dimostra come ancora oggi il clima di odio violenza degli anni di piombo si annidi in alcuni ambienti che arrivano ad usare un omicidio per minacciare le istituzioni. Mi auguro che gli inquirenti facciano tempestivamente luce sul caso e che i responsabili siano individuati e puniti perché questa gente è indegna dell’Italia e del popolo italiano». Nella sentenza irrevocabile che assolve gli altri due imputati si sostiene chiaramente che l’affissione dei volantini era stata concepita dai suoi autori «come uno scherzo goliardico, una ragazzata», senza rappresentarsi le conseguenze che avrebbe potuto avere.

Quando è emersa la notizia del rinvio a giudizio dei quattro imputati per la redazione del volantino, Cirio ha così commentato: «Qualcuno forse pensa di fermare il Piemonte e i piemontesi con le intimidazioni. Ma, ci ha insegnato Aldo Moro, “la vera libertà si vive faticosamente tra continue insidie”». Ora le insidie si possono considerare tramontate. Non resta che darne avviso al presidente Cirio e all’Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, deputata al mantenimento della scorta.

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