Le attenzioni mediatiche dedicate in due anni al Covid in tutto il mondo non hanno precedenti nella storia della comunicazione, in particolare in Italia. È inquietante il passaggio di testimone avvenuto con la guerra in Ucraina. Di certo fin da marzo 2020 il discorso sulla pandemia si è basato sulla metafora bellica. Nei titoli di giornale delle settimane del primo lockdown, le parole ricorrenti sono state «guerra», «combattere», «eroi», ma soprattutto «trincea», mentre molti hanno subito cominciato ad attaccare i sabotatori del lockdown (runner, proprietari di cani, giovani…), considerati traditori della patria.
Francesca Capelli
«Siamo in guerra». Fin da marzo 2020 la comunicazione sulla pandemia si è basata sulla metafora bellica e, di conseguenza, su tutto il suo apparato simbolico. Perché dare tanta importanza al linguaggio? Perché analizzare le parole, le figure retoriche, i lapsus, gli espedienti narrativi della comunicazione dei media e delle istituzioni in questi due anni? Perché le parole non si producono nel vuoto, ma si iscrivono in discorsi il cui valore – secondo il filosofo francese Pierre Bourdieu si definisce in competizione con altre parole, proprio come avviene nel mercato finanziario dei cambi. Nel mercato linguistico si riflette la struttura sociale, dunque nella parola si canalizzano le relazioni del potere simbolico.
Nei titoli di giornale delle settimane del primo lockdown, le parole ricorrenti erano «guerra», «combattere», «eroi», ma soprattutto «trincea». «In trincea contro il virus, ecco gli eroi silenziosi che combattono contro il contagio e la paura» (Secolo XIX, 6 marzo 2020); «Negli ospedali siamo in guerra» (Corsera, 9 marzo); «Coronavirus, rianimatori in trincea: ‘Se va avanti così sarà difficile curare tutti’» (La Stampa, 21 marzo); «Medici disarmati in trincea, così diffondiamo il virus» (La Stampa, 22 marzo); «Lo specializzando: in trincea contro il virus per aiutare la mia città» (La Repubblica, 22 marzo); «Brescia in trincea contro il virus, aperto un nuovo reparto da 180 posti» (Tg la7, 4 aprile); «Coronavirus, farmacisti in trincea: ‘Anche noi esausti ma non possiamo abbassare la guardia’» (La Stampa, 6 aprile); «Gli specializzandi in trincea contro il virus: ‘Non chiamateci eroi, la paura diventa coraggio e amore’» (Cesena Today, 24 aprile); «Due mesi in trincea contro il virus» (Il Giorno, 6 maggio); «Io, medico e mamma nella doppia trincea contro il Covid» (Corsera, 13 maggio); «Miriam, per tre mesi in trincea contro il virus» (Il Centro, 1 giugno).
Vedremo tra poco la portata dell’area semantica di questo termine ricorrente, che esce temporaneamente di scena durante l’estate 2020, quando il virus pare concedere una tregua (tanto per spingere il pedale della metafora bellica fino in fondo), sulla cui durata non ci sono certezze. È allora che la comunicazione si sposta dalla trincea alla Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari, ossia l’attesa della seconda ondata, che è già seconda ondata essa stessa: una specie di apocalisse alla quale sarà impossibile sottrarsi.
«Crisanti: ‘Nostro autunno sarà come nei mattatoi tedeschi’» (AdnKronos, 23 giugno), dove l‘analogia con il mattatoio – basata su un dato di realtà, ossia alcuni focolai in Germania – apre un immaginario di sangue, sofferenza e uccisioni di massa. Non solo: Mattatoio 5 è anche il titolo di un romanzo di Kurt Vonnegut (evocato probabilmente in modo inconscio) ambientato durante il bombardamento di Dresda del 1945 (il mattatoio è il luogo dove il protagonista si rifugia per sfuggire alle bombe).
Mentre gli italiani non ancora rovinati dalla pandemia cercano di riprendere fiato in vacanza, i giornali insistono, a mo’ di mementomori. «Oms: come la spagnola, giù in estate e poi ripresa feroce a settembre e ottobre» (La Repubblica, 26 giugno), dove si ripete un paragone con la spagnola, caro ai media (ma anche ad alcuni scienziati molto mediatici), come se da quell’epidemia non fosse passato un secolo nel quale la medicina e la tecnologia hanno prodotto antibiotici, antiretrovirali, respiratori, terapie intensive. «Luca Ricolfi: ‘Con una seconda ondata a rischio la nostra civiltà’» (Huffington Post del 10 luglio). «Il virologo che ha scoperto Ebola: ‘La pandemia è appena cominciata» (Huffington Post del 2 luglio), dove «aver scoperto Ebola» è garanzia di legittimità a compiere un atto linguistico di tipo performativo – come direbbe Bourdieu – in quanto chi parla appartiene al gruppo dei detentori della «legittima competenza, autorizzati a parlare con autorità» (Bourdieu, 2001: 43, TdA).
Il carattere performativo del discorso è la possibilità di nominare o classificare le cose da una posizione di potere. Per capirci: la lunga diatriba sul fatto che i positivi al Covid non debbano essere conteggiati come ammalati risiede proprio in questa possibilità. Chi lo decide? Il fatto che non potesse affermarlo Paola Gismondo a marzo 2020, ma possa Matteo Bassetti a gennaio 2022, la dice lunga sugli scontri e gli equilibri di poteri interni alla comunità scientifica. Si tratta di una competenza che viene attribuita da un’istituzione, ma deve essere riconosciuta dal pubblico a cui si rivolge. Non basta, nel mercato linguistico, che a parlare sia uno scienziato abilitato da un titolo di studio o dall’affiliazione a una società scientifica, deve anche essere noto e approvato (o disapprovato) dal pubblico. Ed è questa la ragione del fenomeno delle cosiddette «virostar», cioè gli esperti che hanno occupato gli spazi televisivi e le reti sociali (Roberto Burioni e Matteo Bassetti in testa, Massimo Galli e Andrea Crisanti subito dietro). Non è importante ciò che dicono, purché «dicano». È così che il pubblico si abitua alla loro presenza, al fatto che occupino un determinato luogo di enunciazione.
«Il virologo Crisanti: ‘Qualcosa non sta funzionando e in autunno non ci salveremo‘» (Il Giornale, 19 giugno 2020) evoca forze del male invisibili che ci circondano e dalle quali non possiamo difenderci. Poco importa che tutto, in quei mesi, stesse funzionando come da copione, ossia a ondate successive. Quello che conta è lo spostamento del fuoco: non più un nemico da combattere in trincea, per lo meno con strategie, armi e soldati, ma una forza misteriosa e invincibile, contro la quale qualsiasi arma è spuntata. La lotta non è più quella della scienza contro la malattia, ma del Bene contro il Male.
[…]
Altro aspetto ricorrente è la previsione di nuovi target, identificati con i gruppi che nella prima ondata sono stati preservati: «‘Covid tornerà in autunno e si diffonderà tra i giovani’, Ricciardi ne è certo» (BlogSicilia del 24 giugno 2020), un titolo foriero di punizioni per una fascia di età che fino a quel momento sembrava averla scampata, ma viene accusata di mettere a rischio la salute pubblica per dedicarsi ad attività «non essenziali», ossia la movida (peraltro promossa a inizio pandemia da chi giovane non era, con l’ormai tristemente famoso hashtag #milanononsiferma e l’aperitivo sui Navigli, con tanto di contagiato illustre, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti).
[…]
Potere alla parole
Ci si dovrebbe chiedere perché tanta insistenza sull’uso della parola «trincea», con tutto il suo apparato immaginario di cinema e letteratura. I riferimenti alla stanchezza delle truppe rimandano a una guerra di posizione, lenta, estenuante (come fu la prima guerra mondiale) e non alle guerre tecnologiche a cui siamo stati abituati negli ultimi 30 anni, dalla prima guerra del Golfo del 1991. Quella contro il Covid sembra invece la guerra di Uomini contro di Francesco Rosi, film ispirato al romanzo di Emilio Lussu Un anno sull’Altipiano. Combattuta con armamenti inadeguati (immediato il parallelismo con le mascherine che, a marzo e aprile 2020, prima non ci sono e poi arrivano difettose), tra tentativi di ribellione che si susseguono nella totale sordità e impreparazione di un alto comando che sembra identificare il nemico nei propri soldati. La guerra delle fucilazioni per «codardia» di soldati stremati, che solo reclamavano il cambio e il riposo, affetti da sindrome da stress post traumatico, disturbo all’epoca già noto e colpevolmente ignorato dai medici militari, che permettevano agli ufficiali di considerare diserzione le fughe disordinate di uomini terrorizzati. Ci furono 350mila processi, 170mila condanne, di cui 4000 a morte. Ne furono eseguite 750 e solo l‘amnistia del 1920 liberò i soldati in attesa dell’esecuzione, secondo quanto riporta Marco Rossi nel saggio Gli ammutinati delle trincee (Biblioteca Franco Serantini). L’antimilitarismo, il rifiuto della mascolinità muscolare del «coraggio e sprezzo del pericolo davanti alla preponderanza del nemico» sono state finora patrimonio della sinistra (basta pensare a canzoni come Fiume a Sand Creeke La guerra di Piero di Fabrizio De André, Generale di Francesco De Gregori, Samarcanda di Roberto Vecchioni, Il disertore di Boris Vian, nella versione italiana di Ivano Fossati e quella, forse ancora più bella, di Giangilberto Monti). Mentre ora quella stessa retorica militare e patriottica è diventata pervasiva.
Tuttavia, a livello comunicativo, i continui riferimenti all’immaginario epico-militare sono ambivalenti. Funzionano all’inizio, dal momento che lasciano intendere che ci sia una strategia nella sala dei comandi. Si crea solidarietà, si compatta lo spirito di corpo, ci si incoraggia a vicenda, si canta dai balconi. Ma l’entusiasmo passa in fretta. Soprattutto se nel frattempo chi è al comando dimostra di procedere a tentoni, senza una visione o una prospettiva temporale.
[…]
Il nemico interno
La figura del disertore entrerà nella narrazione nel 2021, a proposito dell‘esitazione vaccinale. Ma già a primavera del 2020 si assiste a una prima svolta, rappresentata da una dichiarazione di Stefano Bonaccini, presidente dell‘Emilia Romagna, ospite dalla trasmissione Piazza Pulita (La7, 14 maggio): «Noi, (i positivi) andiamo a scovarli casa per casa», che dà l’idea di un rastrellamento. Dalla prima guerra mondiale, ci troviamo proiettati nella seconda, in piena occupazione. Il salto non è solo cronologico, ma qualitativo. Il nemico da colpire non è più il virus, ma sono i cittadini. Infatti, la dichiarazione, rilanciata su giornali e social media, viene deformata per enfatizzare una sottesa minaccia.
«La minaccia di Bonaccini: “Vi scoviamo casa per casa!”» (La Presse, 17 maggio); «Dal prelievo forzoso al prelievo coatto: hanno trasformato la colpa del debitore in quella dell’untore», dove nel testo dell’articolo si legge, proprio in riferimento alla frase di Bonaccini, «Metodi da rastrellamento in tempi di guerra» (L’Elzeviro, 15 luglio).
In autunno, al momento di ricominciare con la conta dei positivi, dei morti, dei letti in terapia intensiva (sulla cui occupazione vige la guerra dei numeri, proprio come nei conflitti militari), delle classi in quarantena, il morale delle truppe viene tenuto alto dalla promessa del vaccino, visto come Big Game Changer, come premio dopo tanti sacrificio, a voler pensare male, come la carota in cima al bastone, per evitare la rivolta sociale.
Fin dall’inizio si parla di «campagna» vaccinale, esattamente come un’operazione bellica, al cui vertice – dopo alcune settimane di gestione confusa e schizofrenica – viene chiamato un militare, il generale degli Alpini Francesco Paolo Figliuolo, comandante logistico dell’Esercito dal 2018 e, dal 1 marzo 2021, «commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e il contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19». La retorica della guerra continua, ma ormai spostata in modo irreversibile dal nemico esterno – il virus – a quello interno: i disertori. Non più semplici negazionisti della pandemia e sabotatori del lockdown (runner, proprietari di cani, giovani…), ma veri e propri traditori della patria.
Comincia il virologo televisivo Fabrizio Pregliasco, il 29 marzo 2021, a La7, a proposito dei sanitari che non vogliono vaccinarsi: «(…) Non vaccinarsi vuol dire essere imboscati, come in una guerra. A suo tempo i soldati venivano fucilati sul posto se non andavano alla guerra, era un meccanismo trucido e devastante. È davvero l’elemento che fa pensare male la popolazione perché se il mio medico non si vaccina, perché dovrei farlo io?… Ci sono degli eroi, gente che si spende, e ci sono dei vigliacchi. Sono persone che in questo mondo sperano di essere spostate in attività meno a rischio».
Non è un caso isolato. «(… ) Se questa è una guerra, in una guerra c’è chi ha paura, non combatte, viene messo al muro e fucilato» dichiara Roberto Dipiazza, sindaco di Trieste (riportato da Il Tempo del 1 novembre 2021). «Qui non fuciliamo nessuno, ma il peso di eventuali nuove restrizioni deve gravare esclusivamente su questi disertori, che mettono a rischio la salute di tutti. La pazienza è finita».
[…]
Ai bambini vaccinati vengono consegnati «certificati di valore per avere intrapreso una missione straordinaria contro il Coronavirus». I bambini coraggiosi da mandare al fronte, contrapposti agli adulti pusillanimi e approfittatori, secondo la frase fatta dei «bambini migliori degli adulti».
[….]
Dalla trincea alla guerra santa
Se in un primo tempo, tra i disertori, vengono annoverati solo i «no-vax» radicali, nel giro di pochi mesi il campo semantico si allarga sempre di più, includendo esitanti e dubbiosi: persone che hanno avuto effetti collaterali gravi alla prima dose, medici che – dati alla mano – non sono convinti dell’opportunità di una vaccinazione di massa con prodotti ancora sperimentali, genitori che si sono sottoposti obbedienti all’inoculazione ma preferirebbero evitarla (per questo vaccino, non per tutti i vaccini) ai figli bambini o adolescenti.
[…]
Con l’arrivo dei vaccini, l’asse della metafora bellica sembra spostarsi dal virus (un nemico esterno) al disertore-traditore che non si vaccina (nemico interno). E fa scoppiare la guerra civile. E la guerra civile – la storia ce lo dimostra continuamente – apre la strada alle vendette personali e lascia ferite difficili da cicatrizzare. Tutto si polarizza: guelfi e ghibellini, cattolici e ugonotti, hutu e tutsi, berlusconiani e antiberlusconiani, parlamentaristi e presidenzialisti, Milan e Inter, Madrid e Barcellona, cane e gatto, prosciutto e bresaola…
[…]
L’articolo che pubblichiamo è ampio stralcio di un capitolo À la guerre comme à la guerre: il Covid e il mercato linguistico tratto dal libro di Francesca Capelli Wargasms. Orgasmi di guerra – edito da Transeuropa
da Comune-Info