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Il crimine del silenzio sul genocidio del popolo kurdo (e non solo)

Non solo Gaza. Si consuma in questi mesi il genocidio del popolo kurdo, protagonista della resistenza contro lo Stato Islamico e di una delle più importanti esperienze di democrazia sostanziale. E ciò avviene nel silenzio della comunità internazionale. È il crimine del silenzio con cui si cerca di cancellare la vita e la storia di interi popoli

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Obiettivo di questo contributo è porre all’attenzione l’esacerbarsi del “conflitto” (di fatto un processo di genocidio) tra la Turchia e il popolo kurdo. È difficile – e sarà considerato ingiustificato dalla maggioranza del mondo della informazione-cronaca – proporre una distrazione da quanto sta succedendo nello scenario Gaza-Hamas-Israele. Guerra, possibilmente con definitivo sterminio del nemico, è il nome ufficiale assegnato da parte israeliana alla “nuova” evidenza, di una tragicità assoluta, divenuta centrale da venerdì 6 ottobre (mettendo in sordina nella cronaca perfino la guerra contro l’invasore da parte di un’Ucraina eretta a rappresentante unica della civiltà occidentale). Un popolo sottoposto in modo sistematico e da tempo immemorabile a una negazione di identità, di dignità, di vita, nella piena inerzia della comunità internazionale, anche di fronte ai rapporti delle Nazioni Unite (Oslo 1993 sembra preistoria), ha “sorpreso” l’imbattibile intelligence israeliana e ha preso le armi. Si può solo, anche qui, chiedere (illudersi?) che la comunità internazionale si schieri non per un’inesistente democrazia esemplare (è quanto ha detto la società israeliana per mesi) e contro dei terroristi, cancellando la storia durissima di tutto un popolo, ma per un cessate il fuoco e, soprattutto, per restituire cittadinanza alla logica-pratica di una pace non asimmetrica, da costruire, non da dichiarare, e della cui assenza-impronunciabilità siamo responsabili.

Anche la situazione da cui parte questa riflessione ha una storia lunga. Come quella tra Israele e Palestina, nasce da tempi di post-guerra: con vincitori europei/occidentali che segnano i confini degli Stati ignorandone i popoli, la storia, civiltà, geografia, vita. È di questo 2023 il centenario del Trattato di Losanna che, tra le tante decisioni, assegnava al popolo kurdo un destino di divisione, funzionale a garantirne l’inesistenza politica, con la sua trasformazione in “minoranze” senza diritti di Stati tra loro in competizione e/o nemici: Turchia, Iran, Iraq, Siria. Impossibile, e qui inutile, ricordare nel dettaglio anche solo la storia recente di questi Stati, e, al loro interno, delle “minoranze”. Il destino recente della minoranza kurda interna alla Turchia (una dittatura esemplare: per la coerenza della repressione radicale di tutte le forme di opposizione o anche solo di diversità di opinione, cultura, religione…) è stato oggetto anche di una sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli  secondo le categorie del diritto internazionale, una responsabilità diretta di Erdogan per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Anche il silenzio della comunità e del diritto internazionali sono stati esemplari. Erdogan si è, anzi, trasformato in uno degli interlocutori più accreditati (e finanziati) dell’Unione Europea su tutte le questioni del Mediterraneo, e non solo.

Tutti ricordiamo, in anni recenti, la tragica realtà – incredibile per velocità di diffusione, ferocia praticata ed esibita, risonanza europea e non solo – del cosiddetto Stato Islamico. Tutti si dichiaravano contro, ma senza esitare a favorire in ogni modo uno dei suoi attori: la Turchia, in prima fila nella più perfetta ambiguità politica, militare, religiosa. L’unica cosa certa di quella vicenda surreale (sono ancora migliaia i prigionieri, anche moltissimi occidentali nel nulla di campi di prigionia) è il come e il dove della sconfitta e della fine (almeno in quell’area) dello Stato islamico. Le popolazioni kurde del Nord Est della Siria (NES), pur aiutate dall’aviazione degli alleati, lo sconfissero sul terreno, con perdite durissime ma riuscendo anche a salvare da un genocidio finale un’altra minoranza (i cristiani azeri) e ne costrinsero allo scioglimento-fuga l’esercito. L’ovvia speranza era che questa “evoluzione” militare (resa possibile da una realtà di coesione e di militanza della popolazione kurda, nota come Rojava e celebrata internazionalmente per il ruolo di protagoniste, anche nella difesa militare, delle donne) potesse tradursi nella novità politica di un riconoscimento del diritto all’autodeterminazione nel continuare un progetto universalmente qualificato come di “democrazia sostanziale”, profondamente innovativa e sostenibile.

La storia di quelle instabili regioni, che vede la presenza, nelle più diverse e contraddittorie forme, di tutti i poteri che contano (militari, energetici, geopolitici: dagli USA, alla Russia, all’Arabia Saudita, all’Iran, alla Turchia, alla Francia con o senza la UE…), è espressione perfetta della situazione mondiale: i popoli non esistono, se non come variabili da usare, controllare, scambiare su un mercato di equilibri. Il Rojava, con la sua esemplarità democratica, ha svolto il suo ruolo di contrasto dello Stato Islamico, che a sua volta era stato giudicato troppo poco controllabile e disturbatore. Ora lo si può mettere da parte. Le sue pretese di autonomia e la sua capacità di offrire un modello di sviluppo diventano pericolose, o almeno confondenti, per i paesi dell’area. Non c’è posto per progetti che immaginano almeno un pezzo di mondo liberato da tante paure come luogo di sperimentazione condivisa di diritti umani e dei popoli. Dopo un periodo, ormai di anni, di bombardamenti di intensità variabile e di assassini mirati che hanno avuto come protagonista la Turchia, con il permesso connivente della Siria (dittatura competitiva per anzianità e repressione) e il silenzio della comunità internazionale, con quante vittime è difficile dire (gli assassini sono “mirati”, qualitativi più che quantitativi, e le uccisioni di gruppo e di comunità passano per incidenti), i tempi sembrano essere quelli di una vigilia di cui si può solo sapere che si concluderà con costi enormi, umani e di civiltà.

La migliore sintesi della situazione attuale è proposta nei primi giorni di ottobre. In risposta a un attentato al Ministero degli interni di Ankara (non rivendicato, né attribuibile, negato tassativamente dalla Siria come originato dal suo territorio, sostanzialmente senza conseguenze), inizia un programma di bombardamenti nei territori della Autonomous Administration del Nord Est della Siria (AANES, 5 milioni di abitanti, tra cui centinaia di migliaia di rifugiati dai bombardamenti precedenti più allargati ad altre aree kurde), mentre all’interno della Turchia si rinnova l’ondata di arresti arbitrari di centinaia di rappresentanti politici e culturali della popolazione kurda. La definizione della strategia ufficiale è riassunta dal ministro degli Esteri turco il 4 ottobre: tutte le infrastrutture delle città e comunità nell’area di Rojava e del NES (scuole, ospedali, dighe, impianti elettrici, depositi alimentari…) devono essere considerate “obiettivi legittimi” di operazioni militari. Le dichiarazioni di Erdogan nei giorni precedenti l’attentato di Ankara non potevano essere più chiare ed anticipatrici: la decisione di invadere Rojava e obbligare con massacri le popolazioni kurde a disperdersi e a lasciare i territori è già stata presa, deve semplicemente essere preparata a dovere, e tener conto dei momenti-contesti geopolitici e regionali.

La posizione dei rappresentanti di Rojava (riassunta nei documenti del Kurdish National Congress del 5 ottobre) è quella di non modificare in nulla il loro esperimento di democrazia. Si ricorda l’imprigionamento-isolamento dell’ispiratore della resistenza-progettualità di Rojava, Abdullah Ocalan (nella cui consegna al governo turco la responsabilità italiana non è irrilevante), ma il progetto ha preso e documentato la praticabilità di ulteriori forme originali di espressione che sono ormai oggetto di una documentazione a livello culturale internazionale. Solo la comunità degli Stati ignora di fatto, contro tutte le testimonianze più autorevoli, un’evidenza al di là di qualsiasi dubbio, per evocare il linguaggio della obbligatorietà giuridica.

Il “crimine del silenzio” era stato indicato, da Bertrand Russell e Sartre, in un’altra era di civiltà, come quello, intollerabile, commesso dagli Stati (il bersaglio primo era De Gaulle, che proibì di tenere in Francia il Tribunale sulla guerra degli USA contro il Vietnam) che obbediscono ai loro equilibri e fanno dei popoli le vittime. I Kurdi rappresentano oggi una situazione esemplare dell’attualità di quel crimine trasversale: per quanto hanno subito e per quanto li minaccia. Non sono i soli, purtroppo. I Palestinesi sono stati quelli che per primi li hanno seguiti, dopo la seconda guerra mondiale, nel destino di espulsione dalla storia da parte degli Stati che aveva già negato il genocidio degli Armeni. È la loro storia che si sta esprimendo ancora in questi giorni. Il crimine del silenzio non è mai stato considerato una cosa seria dal diritto internazionale: è troppo comodo mantenerlo come pura categoria morale, emotiva. Nel diritto il silenzio, come categoria di responsabilità ha un peso: omissione di soccorso, o assenza colpevole di prevenzione, o cancellazione-negazione di prove. Ma è dato per acquisito che tutto ciò non riguarda Stati e Popoli: tanto più quando gli Stati (meglio: alcuni di loro) pretendono di dare ai popoli, a tutta la loro storia, nomi che li fanno scomparire: per esempio “terroristi”. È un termine molto caro a Erdogan per dare coerenza trasversale alle sue misure repressive. È il termine più usato dai cronisti di questi giorni per chi ha attaccato di sorpresa Israele. È usato da Modi per i popoli del Kashmir e non solo. È applicato in questi giorni, in Germania, agli Eelam Tamil dello Sri Lanka che cercano di inviare fondi in patria per i sopravvissuti a un genocidio documentato prodotto dalle politiche di USA e UK, con il silenzio della UE.

Il processo che mira a cancellare la sperimentazione di democrazia di Rojava (al di là delle specifiche tragicità per le vite cancellate e per la semina di violenza e odio nella comunità internazionale) è, con la “guerra” di Gaza, parte della domanda di fondo, trasversale a tanti scenari: quale può essere la tenuta di una società-civiltà che legittima le narrazioni e le decisioni del presente attraverso la cancellazione della storia dei popoli reali (e la sua versione più perversa: la manipolazione e trasformazione in espulsione)?

da Volere la Luna

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