Una riflessione sulle misure cautelari che sempre di più stanno investendo i movimenti sociali
Crisi, anno ottavo: l’effetto del neoliberismo dominante sta intaccando il diritto e la giurisprudenza, ma non solo, infatti l’apparente inarrestabile processo di trasformazione della società, delle istituzioni e delle regole ora assume il volto dell’asse questura-procura, cui i media mainstream fanno da cassa di risonanza. Ad ogni forma di manifestazione e pratica del dissenso segue implacabilmente l’avvio di procedimenti giudiziari, con grande uso di misure cautelari; i processi contro gli attivisti vengono celebrati a tempo di record, quasi come se ci fosse un canale preferenziale per arrivare a sentenza in tempi strettissimi. La procura di Torino sta facendo scuola con i procedimenti NoTav, le altre si affrettano sulla stessa strada: e così a Padova il processo a seguito dello Sciopero Europeo del 14N 2012 è giunto a sentenza in due anni netti, mentre presso lo stesso tribunale le udienze per il reintegro di alcuni lavoratori licenziati da APS nel 2011 vengono aggiornate a luglio 2015. Citiamo solo questi come esempi paradigmatici; infatti dai movimenti di lotta per la casa alla figura stessa del migrante dipinta come intrinsecamente criminosa è davvero troppo lungo l’elenco delle lotte e degli emarginati posti sotto attacco a mezzo denunce, fogli di via, decreti penali di condanna.
In tutto questo si perde di vista troppo spesso il quadro complessivo ed i fatti. Ci si dimentica completamente che a lottare per una vita degna contro diseguaglianze e discriminazioni imposte dall’arroganza del più forte sono i più sensibili ed attenti assieme ai più deboli, vittime designate del dominio finanziario globale. Sembra che tutto debba restare nascosto, sottotono, invisibile: altrimenti è “degrado”, fonte di corruzione morale, pericolo per la società. Prendere parola, emergere dal nulla, prestare il proprio corpo, volto, la propria voce per rendere esplicite le contraddizioni del tempo presente fa scatenare una tempesta perfetta composta di fogli di via, arresti domiciliari, obblighi di firma e articoli a nove colonne che assumono per gli attivisti la colpevolezza preventiva. I movimenti sociali sono i mostri da sbattere in prima pagina, e possibilmente in galera, discarica sociale per antonomasia. Ma soprattutto vanno condannati senza processo: non c’è spazio per porre questioni circa il “valore morale” del movente, per chiarire le circostanze in cui chi è in piazza deve proteggersi da cariche violente, improvvise, ordinate nei modi più impropri, e allora il cartello rinforzato diviene riparo, scudo contro i manganelli troppe volte impugnati alla rovescia.
Il dissenso espresso nelle forme più visibili, praticate da tante e tanti, viene sempre più affrontato e narrato come una minaccia, anche nei casi in cui il livello di radicalità espresso è minimo. Dopo il corteo scattano i procedimenti penali e si da fondo al repertorio delle misure cautelari, impiegate con lo scopo più che evidente di ridurre la libertà personale di un soggetto ed al contempo porre la censura sulla sua condotta: biasimo formale per le trasgressioni commesse, e pace se nessun giudice ha emesso sentenza. Ci pensa il questore. La libertà di espressione e manifestazione, nel momento in cui c’è un entroterra mediatico e politico che strumentalizza i momenti di piazza come violazione della democrazia, è ridefinita per non dire sospesa, cancellata.
Gli strumenti tecnico-giuridici sono forniti dal codice penale, sostanzialmente ancora di cultura fascista; e proprio nel tempo in cui profonde riforme stanno ridefinendo la figura del magistrato vale la pena di ricordare che dall’istituzione della Repubblica non vi è stata alcuna riforma, e anzi al trascorrere del tempo – e delle forme di protesta sociale – è stato rafforzato l’utilizzo di determinate accuse e pene: la cosiddetta emergenza terrorismo degli anni 70 diede il là ad una involuzione poliziesca dello Stato, con una diminuzione delle libertà costituzionali cui fa da contralto l’allargamento della discrezionalità degli interventi di polizia. Rileviamo oggi come gli echi di quei tempi, benché lontani, siano ancora ben presenti e vivano tanto nelle scelte lessicali delle redazioni dei media quanto nell’impostazione dei castelli accusatori da parte di pubblici ministeri forse in vena di esperimenti giuridici. Sconfitto il modello del “teorema”, la scuola di Pietro Calogero ora ricorre al concorso in reato, dando carne a quell’ossatura normativa dell’emergenza avviata negli anni ’70 e mai terminata, saldatasi con l’involuzione securitaria post 11 settembre 2001 e sfociata nei decreti omnibus di questi anni. Ecco come si spiega che nel decreto contro il femminicidio compaia un codicillo che permette ai prefetti di ottenere contingenti dell’esercito da dispiegare per il controllo del territorio.
Sui giornali e nei talk-show domina la narrazione della “guerra” (guerra al terrorismo, guerra all’evasione fiscale, alla mafia), l’ideologia della guerra si fonda sulla contrapposizione amico/nemico: e così qualunque manifestazione dell’altro da sé è immediatamente narrata nei termini del nemico, da eliminare piuttosto che da battere. Anche nel diritto accade questo: la teoria circa l’istituzione di un diritto penale del nemico ci appare messa in pratica quando militanti ed attivisti sociali sono sotto accusa, e nelle accuse si mette in primo piano l’esaltazione delle identità ed appartenenze politiche.
Chiudiamo con uno sguardo alle forme delle pene comminate: sempre più spesso, accanto alle spese processuali, compare l’ingiunzione al pagamento di provvisionali a parti civili o la pena viene tramutata in ammenda a quattro cifre. Rimandando alle riflessioni di Marco Rigamo su quanto siano imbarazzante e spiazzante risarcire certi soggetti (LTF, la società che sta costruendo la ferrovia Torino-Lione, o qualche sindacato di Polizia), ci soffermiamo qui sul punto più semplice ed al contempo dolente: i soldi che non ci sono. Condannare attraverso il pagamento di decine di migliaia di euro coloro i quali denunziano i frutti avvelenati dell’austerity, svelano le nuove forme della povertà, lottano per garantire un tetto e condizioni di vita degne e per il reddito garantito ci sembra semplicemente vigliacco ed assurdo. Ci sembra che il diritto, perduta ormai ogni parvenza di essere applicazione di un qualche contratto sociale, stia divenendo strumento di dominio, dispositivo di comando applicato in modo tale da ricondurre lo svolgersi quotidiano di ogni forma di vita in puro rapporto di capitale.
Anna Irma Battino, Marco Sirotti da Global Project