Premessa: “Chi ben comincia”, scritta prima di prendere il Bus per Hamburg da Berlino che ci avrebbe portato al G20.
Siamo arrivati ad Amburgo in bus da Berlino. Eravamo in emergenza “abitativa” dopo che tutti gli Airbnb della città disponibili ci avevano dato buca; del resto chi crede a un gruppo di italiani che durante il G20 più criminalizzato di sempre viene in visita a dei presunti “amici”?
A 24 ore dalla partenza non sapevamo ancora dove saremmo andati a dormire. Nella spontanea catena di solidarietà messa in campo dagli amburghesi dopo l’osceno comportamento della Polizei di Dudde con i campeggi, abbiamo finalmente trovato su Twitter una famiglia che dava ospitalità gratuita ai terribili “Chaoten” in arrivo in città.
Siamo così arrivati alla stazione di Hamburg e, tra camionette a presidiare ogni via e ogni strada, ci siamo mossi verso la nostra “base”, un sobborgo a sud dell’Elba, Wilhelmsburg, lontani dalla zona rossa, nella zona del porto, coccolati e ospitati da una famiglia di compagne e compagni che ha messo il proprio giardino a disposizione delle nostre tende. Nei giorni successivi, passeremo da una decina a una ventina di persone, pianteremo altre tende, faremo amicizia con tante compagne e compagni italian* venut* ad Amburgo spontaneamente, tutti per protestare contro il G20; singoli, cani sciolti, amici e amiche, compagn* arrivat* senza avere disponibilità e contatti da parte di quelle che un tempo si sarebbero potute chiamare “strutture di movimento”.
Il campo base è stato per noi il luogo della cura, della decisione, del confronto.
Ogni persona che c’è stata, che c’ha dormito, con cui abbiamo passato la notte a chiacchierare, ha potuto ascoltare episodi, punti di vista, percorsi politici, storie di vita che ci parlavano sempre di più di un arcipelago militante, giunto lì quasi per rispondere all’esigenza di dire “io ci sono” nel deserto della normalizzazione imposta dai venti grandi. Un’armata di antieroi, migranti, disoccupati, vagabondi troppo poco assimilabili all’archetipo del militante classico per sentirsi a proprio agio dentro la ritualità del controvertice.
Ed anche noi ci siamo arrivat* con tutti i fantasmi dei vertici e controvertici passati, con gli errori fatti, con la perplessità di riprodurre una “guerra simbolica”. Ci siamo arrivati guardando al blocco del porto e al blocco della logistica del capitale con particolare attenzione, dopo un anno di studi e approfondimenti. La lettura dell’algocrazia, della logistica, dei flussi di capitale ma anche la pratica del consenso partecipato, dello sciopero sociale e dell’inclusività dei percorsi di conflitto erano, dopo averli faticosamente costruiti per un anno, al loro passaggio più stretto, quello che evocava la tragedia di Genova 2001. Alcune compagne e alcuni compagni non se la sono sentita di partecipare per questo, altre e altri hanno testardamente voluto praticare Amburgo in modo il più coerente possibile alla nostra lettura teorica e politica.
Abbiamo avuto ragione tutte e tutti e siamo sicuri che Amburgo segni un punto importante per il movimento – non solo tedesco – e per tutte e tutti noi, per chi c’era e per chi ci sarà.
Di chi è la città? Un rave per incominciare
“Tutto per tutt*”
“Et non dicatis aliquid proprium, sed sint vobis omnia communia“
“E niente venga detto di qualcuno, ma tutte le cose tra voi siano comuni”
(S. Agostino 400 d.C. circa)
Il Gängeviertel è situato in posizione centrale, è un piccolo quartiere che nel corso dei decenni ha reso la scena culturale alternativa di Amburgo così peculiare e importante. L’”Oasis” è lo spazio sociale del quartiere; c’è una mensa, un bar, un alto muro di casse, uno schermo per proiettare, nonché un infoladen che è stato parte di quella fitta rete di infrastrutture che ha reso possibile le manifestazioni contro il G20. Una base dei paramedici per le manifestazioni si trovava qui. Allo stesso tempo, il Gängeviertel è la sede del collettivo di Dj Allen Allen. Questa rete comprende collettivi artistici, musicisti, singoli di Hamburg e Berlino che volevano fare qualcosa contro il vertice del G20. Hanno organizzato sorprendentemente in poco tempo una grande street parade il mercoledì; probabilmente un momento fondamentale per far perdere il controllo della situazione alla polizia. Se infatti l’escalation provocata da Dudde e dai suoi sgherri doveva generare paure e aumentare la tensione, la street parade che rispondeva proprio a quella violenza ha avuto il merito di tranquillizzare i manifestanti e di sottrarre la paura dalle mani del “sovrano”. Un’azione a cui hanno partecipato quasi 20000 persone e che ha sbeffeggiato le zone blu e rosse e dato forza e coraggio a chi era appena arrivato nella città anseatica con il proprio carico di dubbi e di ricordi spiacevoli. Questa demo ha avuto il merito di riprendersi le strade della città, dove la sera prima la polizia aveva usato arbitrariamente violenza per alzare la tensione contro i bar della zona di St. Pauli. Il poter disporre liberamente del silenzio o della musica assordante, come dello spazio, ha tolto al “sovrano” il potere sulla paura, quindi sulla storia dell’intero G20 come l’aveva pensata. Abbiamo ballato nello spezzone dell’”internazionale edonista” fino a notte, abbiamo conosciuto persone e siamo tornat* al campeggio sorridendo felici. Il primo warm up per le vie di Amburgo non poteva essere migliore.
Welcome to hell
“Verranno al contrattacco con elmi ed armi nuove. Verranno al contrattacco ma intanto adesso. Curami curami curami. Curami curami curami. Curami. Curami.”
(CCCP – Curami)
Erano giorni, mesi che la stampa tedesca preannunciava l’arrivo del “più grande blocco nero della storia”, nel pomeriggio del 6 luglio. Volevano tenere la gente lontana dal corteo convocato dai tifosi del St. Pauli e dagli Autonomen che vivono tra i tre quartieri storici della “scena” di Amburgo, St. Pauli, Sternschanze (dove si trove anche la Fiera di Amburgo, sede ufficiale del vertice e centro della zona rossa) e Altona. Chissà cosa avranno pensato governance locale e mondiale quando si sono visti arrivare in piazza un gigantesco cubo gonfiabile nero con la scritta “l’unico blocco buono è il blocco nero” e “il più grande blocco nero di sempre”. Sicuramente a giudicare dal nervosismo con cui gridavano ordini dagli autoparlanti, non l’hanno presa per nulla bene.
Alla manifestazione, che si voleva fosse poco partecipata, c’erano diecimila persone strette tra Hafen Straße, la storica via di St. Pauli, e il molo sull’Elba.
Il corteo era stato autorizzato dalla Polizei e lo striscione evocativo alla testa del corteo rilanciava lo storico slogan riservato agli ospiti che vengono a giocare al Millentor Stadium: Welcome to Hell.
A Erdogan, a Merkel, a Putin e Trump, ai Sauditi e a tutti gli autocrati accorsi per spartirsi il mondo invocando sovranismi o globalismi, il messaggio sarà sembrato lì per lì una trovata retorica, qualcosa su cui ironizzare. Nelle ore successive si sono dovuti ricredere. L’ottusa gestione della polizia di Hamburg è stata la scintilla che ha fatto incendiare l’inferno. Il corteo non poteva partire se i 1000 in testa non avessero accettato di scoprirsi il volto e mostrarlo alle telecamere della Polizei. Come chiedere agli zapatisti di levarsi il cappuccio. Nonostante la volgare provocazione, mossa con la stessa ostinazione con cui si sono manganellati gli attivisti per 12 tende autorizzate in un parco cittadino qualche giorno prima, il blocco di testa aveva iniziato persino a scoprirsi il volto, gruppo per gruppo, a mano a mano che si valutava e decideva. Sotto un sole caldo agli uomini della polizei l’inaspettato “buon senso” dei manifestanti deve essere sembrato davvero un insulto, l’ennesimo e frustrante imprevisto, l’ennesima trappola evitata. A quel punto hanno iniziato con gli idranti a caricare il corteo neanche partito in più punti, disseminando il panico.
Sono stati picchiati giornalisti, reporter, un ragazzo è attualmente ancora in coma perché caduto da una balaustra mentre scappava dalla furia dei “bullen” (“tori” è il soprannome con cui in Germania vengono chiamati i poliziotti a causa del loro incedere inesorabile e furioso quando caricano). La Polizei in forze di tutti i suoi 15000 uomini ha scaricato la sua violenza sulla manifestazione, provando a occupare militarmente i quartieri di St. Pauli, Sternschanze e Altona. Da quel momento è iniziata la guerra. La guerra l’ha portata la Polizei di Dudde ed è durata due giorni, il tentativo era quello di normalizzare l’anomalia di Amburgo. Ma il Rote Flora e tutte e tutti, dai bar, dalle case, dai tetti hanno risposto all’occupazione militare per tutta la notte, per ore. All’alba Amburgo era in fiamme ma la polizia non era riuscita a prendere il controllo di Altona, Sternschanze e St.Pauli. Gli abitanti e i solidali avevano difeso la loro anomalia e la loro autorganizzazione rispondendo al fuoco delle pistole e delle mitragliatrici (la Polizei dichiarerà che i colpi sentiti erano solo una rissa parallela che non c’entrava nulla, un video dimostrerà che sono stati sparati da agenti in borghese riconosciuti e in fuga). Hanno risposto con le pietre, con le molotov, con le barricate. Hanno risposto prima resistendo e poi portandosi sempre più fuori dai quartieri invasi i poliziotti. E a ogni ora di guerriglia che passava i bullen di Dudde erano sempre più stanchi e senza una strategia efficace.
Perso già dai primi giorni il controllo del G20, il senatore Groete dell’SPD e Dudde avevano deciso di giocare al rialzo per legittimare la “linea Hamburg”. Ma più giochi al rialzo più è probabile e rovinosa è la caduta.
Alla mattina del 7 luglio i poliziotti feriti erano quasi 200 di cui alcuni gravi; neanche l’impiego del Spezialeinsatzkommando (le teste di cuoio speciali usate precedentemente a Mogadiscio) era riuscito ad avere la meglio sulla folla di persone in strada: quando si invade un territorio senza valutare la capacità di intelligenza e cooperazione della parte avversa la sconfitta è sempre rovinosa e grottesca. Le immagini dei riot delle notti tra il 6, il 7 e l’8 luglio rimarranno negli annali: una coppia che fa l’amore durante gli scontri (con un pensiero a chi reputa amarsi all’aperto poco decoroso), una signora anziana che esce sorridenteda un supermercato appena assaltato dagli Autonomen per una spesa proletaria, barricate tirate su con i mattoni in un attimo passandosi di mano in mano pietre, legni e qualunque cosa utile, posti in cui motociclisti sanitari distribuivano medicamenti per il pfefferspry e curavano i feriti, punti ristoro per i manifestanti con la roba presa dai supermercati, auto di lusso date alle fiamme e usate come barricate.
La mattina del 7 luglio e del vertice del G20 la Polizei di Hamburg lanciava l’allarme: “sono troppi non ce la possiamo fare, mandate rinforzi”. Rispondono positivamente al loro appello solo due Länder dell’ex Germania est, invece da subito nega il soccorso la Turingia (amministrata dalla Linke), mentre il Land di Berlino si toglie anche lo sfizio di rimandare ad Amburgo esattamente i 300 poliziotti cacciati settimane prima da Dudde perché colpevoli di aver fatto un party e aver mostrato una condotta poco marziale. Addirittura, per la prima volta dal 1945 l’esercito viene chiamato a fornire mezzi logistici di supporto – in aperta violazione della Grundgesetz tedesca.
Benvenuti all’inferno, l’ha scatenato la polizia, se la sono cercata.
La logistica del Capitale e la fine delle zone rosse
“Non si è mai vista una moneta che non fosse sorretta da un ordine politico in grado di garantirla. Il che spiega anche perché le valute dei vari paesi rechino tradizionalmente l’immagine personale degli imperatori, dei grandi statisti, dei padri fondatori oppure le allegorie in carne e ossa della nazione. Ebbene, che cosa figura sui biglietti in euro? Non delle figure umane, né le insegne di una sovranità personale, bensì dei ponti, degli acquedotti, degli archi – delle architetture impersonali il cui cuore è vuoto. Ogni europeo ha nelle sue tasche un esemplare stampato della verità sulla natura odierna del potere. Essa si formula in questo modo: il potere risiede ormai nelle infrastrutture di questo mondo. Il potere contemporaneo è di natura architettonica e impersonale e non rappresentativa e personale.”
(Ai nostri amici – comitato invisibile)
“And all the roads we have to walk are winding
And all the lights that lead us there are blinding
There are many things that I
Would like to say to you but I don’t know how
Because maybe, you’re gonna be the one that saves me
And after all, you’re my wonderwall”
(Oasis – Wonderwall)
La città, avvolta dal fumo e dalle fiamme della battaglia del giorno prima, è in sciopero. Alle 5 di mattina gli ultimi fuochi vengono spenti dai vigili del fuoco, ma già alle 7 di mattina iniziano I blocchi. Le studentesse e gli studenti scioperano lasciando le scuole chiuse e manifestano in direzione della zona rossa. Noi, insieme ad altri 1000 dimostranti ci dirigiamo dal sobborgo di Wilhelmsburg in corteo verso gli snodi ferroviari e autostradali del porto di Amburgo.
Amburgo è chiamata in due modi: “la città porto” e “la porta sul mondo”. Dal primo insediamento tardo medioevale sull’Elba a poco a poco l’allargamento della città è andato di pari passo all’allargamento del suo porto, che oggiè il secondo più grande scalo d’Europa. Ogni isolotto sul fiume, che sfocia qualche km più in là nel Mare del Nord, è diventato un hub: c’è l’isolotto del carbone, quello del cemento, quello dello smistamento container, quello delle sostanze chimiche, quello dei rifiuti e così via. Ogni isolotto è collegato all’altro attraverso la ferrovia e l’autostrada. Sulla terraferma invece ci sono i vari sobborghi dove a partire dalla fine del XIX secolo si sono via via insediati i lavoratori dell’enorme porto, che attualmente occupa una superficie superiore a quella dell’intera città anseatica (la seconda più popolosa città tedesca dopo Berlino). Tracciando una mappa dei flussi di merci che attraversano la città, il disegno che si ottiene è una sorta di ragnatela che tende a collegare i punti di smistamento e che unisce linee di flussi via via più verso l’entroterra; tuttavia questa rete parte al suo centro da un unico enorme nodo ferroviario e da un unico snodo autostradale. Conseguentemente, bloccando questo grande snodo o l’incrocio autostradale, tutto ciò che va o viene dall’intero porto di Hamburg viene bloccato. Allo stesso tempo essendo ponti I collegamenti tra I diversi isolotti, bloccando uno di questi ponti si ferma una linea di flusso da cui passano quotidianamente diversi milioni di euro in merci. Il porto è quasi completamente automatizzato e quindi i lavoratori hanno una presenza abbastanza ridotta e un salario relativamente alto (altro discorso riguarda i lavoratori stranieri sulle navi, spesso fuori dalla legislazione europea). Inoltre attraverso l’autostrada e la linea ferroviaria si incide pesantemente anche sulle linee di collegamento urbano a queste collegate: le tangenziali, i treni nazionali e regionali e le linee della S-bahn. Il blocco dello snodo ferroviario è stato relativamente semplice: per ottimizzare la gestione dei flussi e ridurre la forza lavoro, l’intero raggio di binari è automatizzato; la sicurezza del sistema è affidata a dei rilevatori automatici. Basta toccare un singolo binario perché il sistema rilevi un pericolo e fermi tutti I passaggi su quel binario fino a che un tecnico non si rechi sul posto per riavviare il sistema: passando in corteo lungo tutto il fascio dei binari in pochi minuti si è bloccato tutto il funzionamento su rotaia del porto e della città di Amburgo. Il massimo risultato con il minimo sforzo. Il sistema poliziesco dispiegato da Dudde si aspettava evidentemente guerriglia anche lì e non è intervenuto quando il corteo (regolarmente registrato) ha attraversato la ferrovia (le pettorine rosse non erano felpe nere e I robocop in divisa avranno pensato fosse un’azione tutto sommato pacifica e senza implicazioni). A quel punto il corteo si è diretto all’incrocio autostradale e ha risalito l’autostrada dietro un camion da cui partiva musica techno. Ogni casello da cui passava il corteo veniva chiuso e ogni volta la polizia in antisommossa si predisponeva allo scontro rimanendo tuttavia delusa. Ma a ogni casello veniva bloccato uno snodo su cui già si accalcava il sovraccarico di merci che non poteva più passare sulla ferrovia. L’immagine dell’infinita fila di camion dietro di noi (da cui molti camionisti lanciavano messaggi di solidarietà) ha dato al corteo una sensazione di potenza reale. Ai poliziotti che non stavano comprendendo cosa stesse succedendo, nelle loro tenute stagne sotto un sole caldissimo, rimaneva solo lo sgomento e la frustrazione di aver, di nuovo, sbagliato previsione e strategia. Il corteo ha quindi proseguito bloccando un ponte e ballando e mangiando (sono stati distribuiti acqua e cibo ai manifestanti); per tornare infine al distretto di Wilhelmsburg.
Un corteo di mille persone aveva bloccato il porto di Amburgo con danni fino al martedì successivo: cinque giorni per riprendere l’intera produttività. Un blocco economico di quasi 200 milioni di euro. Un blocco che riguardava a cascata l’intera circolazione della città di Amburgo. Il corteo era un corteo costruito per gruppi di affinità, ad ogni singolo passaggio si discuteva, ci si consultava, si procedeva per assemblee di delegati; una pratica del corteo che esaltava la forza creatrice di ogni singolo e tagliava completamente fuori la forza militare della polizia. Uno sciopero della produzione, un’azione materiale e non simbolica, quello che desideravamo fare ad Amburgo aveva funzionato.
Nel frattempo a Nord dell’Elba I gruppi di affinità (organizzati per “dita” tematiche) iniziavano i blocchi. Per impedire alle auto dei delegati di raggiungere la Zona Rossa, i blocchi continuavano ad assediare gli alberghi dei potenti (a fine giornata saranno resi inagibili l’albergo di Trump, di Putin, di Marcron, di Troudau e di May). La polizia non riusciva a controllare più nulla già nel pomeriggio e la zona rossa veniva attraversata e violata più volte. La folle strategia adottata dal potere di esacerbare la situazione ha solo peggiorato le cose, e tutta l’intelligenza collettiva e la rabbia le si è ritorta contro.
Alle 15 una manifestazione si è riunita in direzione della seconda zona rossa: l’Elbphilarmonie, dove si doveva tenere il concerto conclusivo di un vertice ridotto ormai a pochi bilaterali e alla foto di rito. L’Elbphilarmonie è il cuore della HafenCity, ieri il vecchio porto di Amburgo e oggi il più grande progretto di “riqualificazione urbana” d’Europa, esattamente alla congiunzione tra il centro storico e il porto contemporaneo. I leader dei 20 paesi avevano lasciato in elicottero la zona rossa dove doveva tenersi il vertice, impossibile muoversi in città per loro; i loro collaboratori sono stati costretti a spostarsi, scortati, in metro, costretti alla paura e all’emergenza dallo stato d’emergenza da loro stessi ordinato. Il G20 in miniatura, spostato quindi sul tetto della torre più alta della Elbphilarmonie, sarà compresso a poche ore utili per rassicurare la stampa.
I manifestanti intanto si avvicinavano anche a questa seconda zona rossa e prendevano il controllo delle stazioni della metro, respingendo la Polizei. La sola convocazione di un altro blocco ai cancelli della Elbphilarmonie ha fatto slittare il concerto finale di oltre due ore. Due ore di battaglia in cui anche le navi di Greenpeace hanno bloccato la guardia costiera e l’intera comunicazione sull’Elba. Ogni linea ferroviaria, ogni metro, ogni linea di collegamento urbana, persino il fiume era bloccato: la seconda città della Germania, il secondo porto più grande d’Europa, il 7 luglio, erano fermi e impraticabili. Alle 20 I manifestanti si sono ritirati verso I quartieri a nord del porto, quelli dove la notte prima la polizia aveva provato lo sgombero degli squat e del Rote Flora. I poliziotti, sempre di meno, i mezzi sempre più diradati, gli interventi sempre più casuali. Alle sei di sera la polizia ha provato a creare un diversivo per attirare I manifestanti lontano dalla Elbphilarmonie, facendo un grande raduno davanti St. Pauli al confine con Sternschanze. Ma sono stati fermati alla giunzione di Stresemannstraße e Schanzenstraße da una folla di 5000 persone, disposte a resistere ancora e ancora. Un flusso enorme di persone, come dicevamo, iniziava a trasferirsi a Sternschanze per difendere il quartiere dall’avanzamento della polizia. La folla cresceva ulteriormente. Una dimostrazione spontanea della critical mass si aggirava intorno al centro. Un’altra dimostrazione spontanea si è messa in marcia verso i quartieri degli Autonomen. Contemporaneamente al nord di Sternschanze passava un convoglio di polizia che cercava goffamente di muoversi verso sud per potenziare le forze dell’ordine ormai sempre più stanche. I ciclisti, con la loro critical mass di 4000 persone, rallentavano i poliziotti e subito le squadre di Polizei saltavano fuori dai loro furgoni. Manganellando I ciclisti pacifisti, la polizia dimostrava di aver completamente perso la testa.
Al tramonto del 7 luglio, Sternschanze è una zona di guerra. La polizia è stata costretta a schierarsi lungo le strade principali del quartiere aspettandosi attacchi da tutte le direzioni. Iniziano gli scontri su Max-Brauer Allee / Altonastraße, Stresemannstraße e Schanzenstraße, risulta evidente come la polizei abbia ormai abbandonato qualsiasi pretesa di controllo sul triangolo di piccole strade. Questo perimetro di 2,3 km diventa il fronte tra poliziotti e rivoltosi. A ogni incrocio ci sono barricate in fiamme. I fuochi sono accesi tutti su e giù per la Schulterblatt, il loro fumo mescolato con I gas lacrimogeni rende l’aria irrespirabile. Le coppie siedono davanti ai caffè a cena e guardano attonite. Ogni negozio di grandi catene di supermercati senza messaggi anti-G20 sulla vetrina viene saccheggiato. Si canta tutti insieme “Wonderwall”.
Due elicotteri con i fari dall’alto indicano la barricata chiave. L’obiettivo vero: il centro sociale Rote Flora, nel cuore del distretto, che sta ora operando come ospedale da campo per coloro che sono stati feriti negli scontri. La polizia fa intervenire le teste di cuoio ma è circondata e disperata, si ritira inseguita per tutta la notte fuori dal distretto degli Autonomen. Se l’obiettivo finale era quello di assediare e normalizzare quella porzione di territorio non controllata da decenni dallo stato tedesco, ancora una volta e malgrado il più grande schieramento di polizia di sempre, hanno fallito.
All’alba dell’8 luglio il vertice è fallito, i feriti tra i poliziotti sono nell’ordine delle centinaia, di molto superiore al numero dei feriti e degli arrestati tra i manifestanti. Volevano normalizzare la zona autonoma di Amburgo, non ce l’hanno fatta e quindi non rimane che una cosa da fare per non ammettere la sconfitta totale: cercare la responsabilità negli “stranieri black bloc”, ma questo lo capiremo, a nostre spese, dopo la demo finale.
L’idea di usare il G20 per normalizzare Amburgo si è rivelata una scelta suicida, l’idea di pensare di avere il monopolio della forza (Gewaltmonopole; in tedesco “forza” e “violenza” si dicono nello stesso modo: Gewalt) si è rivelata un mortale peccato di hybris. Il giorno finale un corteo unitario festeggia la vittoria senza divisioni e senza “buoni o cattivi” o dicotomie utili solo al potere, sconfitto nell’inferno di Hamburg.
Fuck G20! Never Forget Never Forgive
«levatevi come leoni dopo il torpore
in numero invincibile,
fate cadere le vostre catene a terra come rugiada
che nel sonno sia scesa su di voi.
Voi siete molti, essi son pochi.”
(P.B. Shelley, La mascherata dell’anarchia)
Un oceano di corpi, una moltitudine festante, forse cento o forse duecentomila persone hanno risposto alla chiamata del movimento per la grande manifestazione finale.
Se il potere voleva terrorizzare, oltre ad aver avuto indietro il suo terrore, ha richiamato tutte e tutti verso Hamburg. Alle 13 dalla Stazione Centrale è partito il corteo più grande a cui non partecipavamo da almeno sette anni a questa parte. Aperto simbolicamente dalla enorme comunità curda di Amburgo e dalle donne dell’YPG, il corteo ha sfilato come un tutto inclusivo, in cui tutte le sensibilità rivendicavano fianco a fianco la loro esistenza, la loro solidarietà reciproca, senza divisioni e senza condanne verso alcuna pratica, se non quella della polizia.
Noi, che nel corso dei giorni precedenti eravamo aumentati di numero nel rifugio del nostro “campo base”, condividendo momenti belli, intensi, chiacchierate gioiose e idee con nuovi amici e nuove amiche, siamo nello spezzone di “movimento”. Ci incordoniamo ma solo per non disperdere nell’enorme corteo quell’insieme di persone che erano diventate il nostro bellissimo patrimonio di esperienze durante il G20. Per noi migranti probabilmente l’unica solidità possibile sono proprio le relazioni e i rapporti nell’oceano del mondo.
La polizia, a fine corteo, ha provato un’ultima e disperata volta ad attaccare la coda, ma il corteo non si è fatto ingannare, si è fermato e ha aspettato per ripartire. Un’ulteriore prova di intelligenza tattica collettiva.
Siamo finalmente al Millentor, lo stadio del Sankt Pauli , il luogo del media center, il tempio di chi ha sconfitto su più livelli i potenti della terra; “il nostro G20 è finito” pensiamo, sbagliandoci, ci sediamo vicino al palco montato per l’occasione, in un parco, ma dopo pochi minuti i poliziotti entrano nel parco, iniziando arbitrariamente a identificare e trascinare via manifestanti seduti a riposarsi. Sorpresi e senza una direzione precisa, ci alziamo e ci allontaniamo dal parco. Veniamo circondati dai poliziotti, in un rapporto di quattro a uno. Ha tutta l’aria di essere una trappola, e successivamente ne avremo conferma.
Veniamo chiusi tra il muro e un doppio cordone di poliziotti in antisommossa, quando ha inizio quella che sarà una successione di procedure e provocazioni tipiche dei regimi di polizia. Da questo momento il concetto di stato di diritto non esiste più e ogni possibile indizio si trasforma in prova di un processo a ipotetiche intenzioni. Si parte con il ritiro dei documenti per le identificazioni. Tra noi c’era persino Eleonora Forenza, Europarlamentare del GUE, ma dopo aver mostrato passaporto diplomatico e tesserino ha ricevuto solamente risa di scherno e insulti. La polizia inizia quindi la perquisizione di tutte e tutti, con l’atteggiamento aggressivo e prevenuto di chi ha già deciso l’esito dei controlli. Nel frattempo ci viene più volte intimato di non usare i telefoni e dopo aver più volte tentato di entrare in contatto con chi era fuori dal cordone – tra cui anche giornalisti – per raccontare cosa stesse succedendo, veniamo allontanati e nascosti all’interno della strada, coperti ai curiosi dall’arrivo di altre camionette: il loro scopo era quello di dividerci da tutto e di tenere nascosto il tutto. Veniamo aggrediti verbalmente e ogni tentativo di intimidazione era rivolto al singolo individuo al fine di creare divisione, esacerbando gli animi e provando a metterci gli uni contro gli altri: non ci sono riusciti. Più dimostravamo coesione e solidarietà reciproca, più questi tentativi si facevano ostili. Finita la perquisizione ci viene comunicato che eravamo in stato di arresto: unica nostra colpa era quella di “essere un gruppo, di italiani, con dei comuni vestiti per cambiarsi negli zaini, in possesso di materiale tipico degli estremisti dello Schwarzer Block” (stickers, mappe della città, occhiali da sole), di “essere in possesso del numero di telefono di un avvocato e di avere protetto documenti e denaro in buste di plastica”: l’autodifesa dalle tattiche violente della repressione come giustificazione per l’arresto.
Arrivano i due cellulari che ci porteranno nella GeSa di Harburg, la prigione provvisoria costata milioni di euro appositamente costruita per il G20, ma ancora vuota, un flop che andava coperto con una performance di arresti di massa; durante il tragitto i furgoni fanno sosta in un piazzale sull’Elba, nella zona di Hammerbrook, mentre noi, rinchiusi sotto al sole e con i motori accesi, respirandone il gas e vedendoli trafficare con le buste contenenti i nostri effetti personali, cantiamo e scherziamo: se non hanno il monopolio della violenza non possono neanche pensare di spaventarci. Ci domandiamo ancora quale sia il motivo di questa lunga sosta durata ore rispetto al tragitto di tre o quattro chilometri. A posteriori, accorgendoci dello scambio degli effetti personali, rimaniamo con il dubbio che forse ci potrebbe essere stata una sosta in un luogo appartato per smistare gli oggetti provando a caricare su qualcuno di noi tutta la roba propria di un “black bloc”; tentativo grottesco e patetico, oltre che inutile, di dividere buoni e cattivi anche tra noi. Dopo qualche ora dal fermo arriviamo alla GeSa, per quella che sarà un’importante esperienza di formazione politica, complementare al blocco della logistica al Porto di Hamburg; ma di questo ne parleremo dopo.
Mentre noi eravamo “intrattenuti” nella prigione speciale di Harburg per le strade è andato in scena un déjà vu delle notti prima, con meno veemenza da parte della polizia che aveva infine rinunciato a sgomberare il Rote Flora e a occupare i quartieri degli Autonomen. In questa rinuncia c’è il segno più evidente del fallimento strategico della linea dell’SPD e di Dudde. La polizia, alla fine del corteo, ha arrestato arbitrariamente qualunque italiano, francese o spagnolo capitasse a tiro. Fallita la strategia dell’escalation e fallita la criminalizzazione degli Autonomen locali, non restava altro che la disperata strategia di dare responsabilità a questi foreign fighters venuti da terre lontane a mettere a ferro e fuoco la libera anseatica città del nord Europa.
Anche in questa ultima e disperata sceneggiata la Polizei ha mostrato la propria inettitudine: ha colpito al Neuer Pfedermarkt con gli idranti pacifici gruppi di persone che facevano pic nic e bevevano ai bar (persino il moderato Hamburger Morgenpost a questo punto ha scaricato la polizei); ha arrestato addirittura un ignaro inglese che doveva prendere parte proprio al vertice come consulente della delegazione del proprio paese; ha assaltato come un animale ferito i ristoranti dove la gente cenava dopo il bel corteo della mattina e ha chiuso con i Räumpanzer le strade di Altona. Anche qui il movimento ha avuto l’intelligenza di contenere la provocazione poliziesca e a colpi di molotov e pietre è riuscito a mettere in sicuro le strade e a disperdere le forze di occupazione portandole sempre più lontano da Sternschanze e da St. Pauli durante tutta la notte. Ma la Polizei aveva nel frattempo deciso di procedere ad assurdi e arbitrari arresti di massa, alle fermate dei bus e alle stazioni (fermati i Flixbus in autostrada) in tutte le città della Germania (alla stazione di Berlino c’erano domenica sera decine di camionette della Polizei di Hamburg in trasferta per arrestare chi scendeva dai treni speciali).
La domenica mattina, ancora il fumo si alzava sullo skyline della città portuale di Hamburg e si tenevano i cortei e le accoglienze (succhi di frutta, musica, assistenza emotiva e psicologica, coccole e calore) per chi era stato arrestato. Ancora adesso gli arrestati sono decine, e Amburgo non sarà terminata veramente fino a quando non saranno tutte e tutti liber* e fuori pericolo di vita il ragazzo caduto dalla balaustra il 6 luglio.
Si parte e si torna insieme da Amburgo, tutte e tutti dobbiamo godere di quella che è una vittoria, il martirio è un sentore di morte che non appartiene a nessuna e nessuno di noi. Un pensiero va in particolare agli italiani ancora in carcere: Emiliano, Alessandro, Orazio, Maria, Fabio e Riccardo che rischiano di subire la rappresaglia dell’inetta Polizei.
La logistica della repressione
8-9 luglio 2017, Prigione Speciale di Harbourg
«Le carceri statunitensi [sono] macchine (di proprietà privata) per la privazione di diritti civili (le statistiche dicono che quasi sei milioni di cittadini hanno perso il diritto al voto per un processo penale); macchine economiche per l’accumulazione di ricchezza mediante la spoliazione delle comunità latine e afroamericane (…) Ma il carcere è anche il luogo dove la violenza intima, quella sessuale, s’incontra con la violenza statale perché è commessa dallo Stato stesso. Allora il modello penitenziario statunitense altro non è che il pezzo centrale di un ingranaggio globale. Una macchina sempre più privatizzata che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali del sistema capitalista, rinchiudendo e castigando i soggetti sociali che queste contraddizioni le soffrono sotto forma di molteplici oppressioni». (Angela Davis su Uomini in cammino 12/2016)
26 ore di detenzione per aver un outfit poco gradito alle forze dell’ordine
“Lager in tedesco significa magazzino”
“Non fate la guerra, fate l’amore, per favore non distruggete la nostra città” (cartello che ci accoglie nella nostra casa temporanea, una prigione speciale prefabbricata costruita per il G20 e costata circa 5 milioni di euro).
Abbiamo fatto visita a un posto strano, distopico; linee gialle, marroni e blu a terra a segnare percorsi e confini e zone di attesa. Un’istituzione totale, una fabbrica in cui le finestre erano state murate e la luce era solo quella dei neon. Un magazzino di Amazon in cui noi eravamo i pacchi. Praticamente eravamo finiti dentro un film di Carpenter, solo perché italiani, stranieri.
Siamo stati spogliati totalmente, provocati e perquisiti. Venivamo presi da due poliziotti a turno, con una presa fatta apposta per spezzarti il braccio nel caso opponessi resistenza; step 1 identificazione; muoversi lungo la linea gialla fino alla linea blu; step 2, altri due poliziotti, ispezione; altri due poliziotti compilano un modulo e ti portano lungo una linea marrone in area di stoccaggio, interrogatorio; step 3, step 4 e così via di passaggio in passaggio, di linea in linea in una catena di montaggio che ci conduceva ognuno nella propria cella. Il posto di ognuno in questo magazzino di esseri umani. Cella buia, insonorizzata, senza finestre e con solo una panca di legno. Unico arredamento: un bottone metallico per chiedere assistenza in caso di necessità.
Abu Grahib, Amazon, Guantanamo, Ponte Galeria…
Qualcuno di noi è stato arbitrariamente messo in isolamento in questi container presi dal porto e resi anonimi con una verniciata di grigio a cui erano appiccicati fogli con numeri e tabelle contenenti i dati del detenuto (nel caso di qualcuno anche la foto, quante volte ha mangiato, quante volte ha chiesto di andare in bagno ecc…). Ogni singolo processo di questo maccartismo carcerario rendeva inutile qualunque domanda ai due che ti portavano da una parte all’altra. La risposta era “non sappiamo nulla, il nostro compito è portarvi da questo punto a quello”. Spesso i processi venivano ripetuti in modo ossessivo (alcuni di noi sono stati perquisiti o identificati più volte). Ogni gesto era arbitrariamente deciso dai due che ci prendevano in consegna. Questo per generare il dubbio che ci fosse una logica, ma il dubbio stesso rendeva il singolo vulnerabile nell’interpretare ciò che non aveva senso. Sentivamo ordini in tedesco a cui rispondevamo sempre nella nostra lingua, provando a sabotare la macchina della repressione, a farli impazzire suonando il campanello mille volte, gridando i nostri nomi per capire dove fossimo stati messi in quel magazzino di corpi; li ossessionavamo facendoci portare mille volte al bagno, cantando e urlando slogan per tenerci compagnia a distanza e sentirci tra i corridoi. Ci siamo fatti portare mille volte in infermeria (essendo illegittimo il fermo, la polizei doveva evitare che stessimo male, il nostro corpo era l’arma del nostro ricatto), qualcuno ha scroccato anche qualche Tavor per dormire meglio e far passare il tempo, infinito senza orologi e riferimenti, in isolamento.
Un altro modo per scioperare la fabbrica del carcere di massa era mangiare molto lentamente, costringendo i secondini a tenere la porta aperta anche durante il cambio turno, cosa che non era prevista dai regolamenti e li mandava in crisi. Alcuni di noi zoppicavano andando in bagno per godersi per qualche secondo in più l’aria fresca del percorso fino ai WC posti fuori dall’hangar del carcere.
A ogni nostra richiesta (“motivo dell’arresto”, “chiamata d’ufficio”, ecc.,) veniva risposto procrastinando in modo vago e rimandando a minuti che diventavano ore. A ogni loro rinvio noi rispondevamo chiedendo acqua, cibo, bagno, dottore ecc… Procrastinavano e prendevano tempo per farci impazzire in quei container vuoti e anonimi. Dicevano “in pochi minuti vi rilasciamo” e non era vero, dicevano “tra poco parlerete con l’avvocato” e passavano ore e ore. Ancora “parlerete con il giudice”, falso. Se dormivamo aprivano la cella e accendevano la luce, svegliandoci (la scusa era ovviamente che verificavano non fossimo morti). Giocavano a fare uscire qualcuno di noi (magari per spostarlo solo di cella e dividerci o farci chiedere “perché lui/lei sì e io no?”).
Mentivano su tutto, guerra psicologica.
Nel cuore della notte hanno svegliato uno di noi, che era in isolamento, e sono entrati nella cella coperti e con i manganelli, intimandogli di allontanarsi dalla porta; sono entrati con un’interprete che insisteva per far firmare un foglio (una sorta di autodenuncia in quanto “persona pericolosa” in cambio della promessa di essere rilasciati alla mattina del lunedì) e al rifiuto di firmare qualunque cosa, sono andati via per riprovarci con qualcun altro. La fabbrica della detenzione deve pur dimostrare una sua produttività nella debacle poliziesca di Hamburg 2017. Abbiamo gioiosamente deciso di scioperare quindi nella logistica della detenzione, sabotarla pezzo per pezzo, dispositivo per dispositivo, buttare la chiave inglese dei nostri corpi, della nostra fantasia, della nostra creatività negli ingranaggi della detenzione legale ma illegittima.
E alla fine abbiamo vinto.
Non ci hanno spaventato, a poco a poco ci hanno rilasciato e il calore, il supporto fuori dal carcere speciale – magazzino, autorganizzato dal basso dal legal team, dalle compagne e dai compagni tedesch* e internazional*, ci ha sollevato dalle ore rinchiusi in quel magazzino. Per quanto possa sembrare paradossale questo epilogo ci ha fatto tornare a casa pieni di gioia, pieni di suggestioni e idee, con tanto amore ricevuto e tanto da dare, con molti amici e amiche nuove, con fiducia nella possibilità di praticare anche dentro lo stato d’eccezione felicità e buonumore rivoluzionario, senza lasciare nessuna e nessuno indietro. I nostri nemici una volta usciti da lì dentro ci sono sembrati ancora più tristi, più mortiferi, macchine, robot, automi della repressione, tristi metaumani votati alla violenza e alla paura. Nell’uscire da lì, da migranti, ci siamo sentite e sentiti ancora più complici con le migranti e i migranti detenuti in Libia, Egitto, nei Cara e nei Cie italiani ed europei, e con tutte e tutti coloro che ancora sono nelle carceri, torturati a impazzire per sempre con il 41bis e l’ergastolo.
Il monopolio della violenza e lo stato d’eccezione
“Quante squallide figure che attraversano il paese, come è misera la vita negli abusi di potere”
(Franco Battiato – Bandiera Bianca)
La cooperazione, il mutualismo, le decisioni prese dal basso, la creatività esplosiva e i processi di resistenza hanno segnato l’emersione del movimento a questo G20. Lo stato d’eccezione invocato da Dudde ha dimostrato quanto il sovrano non sia più tale se non detiene il monopolio della violenza, della forza e quindi della paura. Nelle discussioni che ci hanno portato a partecipare al G20 oltre alla perplessità di riuscire a far emergere il tema dello sciopero sociale e del blocco dei flussi, guardando a un orizzonte diverso da quello del fortino “zona rossa” nella specificità temporale dello stato d’eccezione, molti altri dubbi erano emersi tra noi. Ognuno di noi per vissuto o per non vissuto, viveva a disagio l’idea di prestare il proprio corpo allo scontro in una battaglia tra eserciti nelle strade di Amburgo. Anche perché la battaglia la può fare solo chi è più “veloce, forte, resistente, alto ecc…”. Praticamente la può fare solo chi è fisicamente simmetrico ai Robocop che ci si ponevano davanti. Abbiamo quindi deciso di discutere nell’ultimo mese prima di Amburgo proprio di noi, proprio del nostro rapporto con la violenza, la paura, lo scontro, la piazza. Abbiamo messo al centro le vulnerabilità di ognuno per provare a costruire un’adesione che fosse il più possibile coerente con la composizione soggettiva del nostro collettivo politico. Così abbiamo capito quanto nelle dimensioni larghe delle grandi manifestazioni determinate dall’alto e sovradeterminate quasi sempre, comunque il singolo con la sua vulnerabilità scompariva e si sentiva come un “pesciolino solo nell’oceano”. Le singolarità diventavano così handicap, la prassi diventava sempre più esclusiva ed escludente. A questo progressivamente corrispondeva un potente dispositivo militaresco di riunioni, di tecniche, di eserciti da schierare controvoglia, una prassi decisionale che sicuramente avrà avuto senso in alcune fasi storiche ma che sicuramente oggi ci sembrava poco corretta. Ma partendo da noi abbiamo anche compreso come si viveva l’alienazione dovuta a un sentimento di paura lì dove doveva esserci gioia ed esaltazione; come questa alienazione fosse una forma di straniamento dovuta a una retorica violentista e machista che non riusciva a convincerci fino in fondo. Chiunque subisca quotidianamente la violenza sulla propria pelle infatti, difficilmente vivrà con gioia e leggerezza la paura di subirne ancora anche in un momento che dovrebbe essere di liberazione.
Questa riflessione ci ha fatto partecipare al G20 in un modo consequenziale sia all’analisi teorica che all’organizzazione politica ma anche nella prassi militante. Nel blocco del porto si è così reso evidente per noi come non fosse più nelle mani del sovrano, del potere, il monopolio della violenza e quindi della paura ma nelle mani delle soggettività più vulnerabili, noi. Potevamo decidere cosa bloccare e con quale prassi, e questo è stato comune a tutte e tutti i gruppi di affinità che hanno condiviso il blocco del porto. In questa prassi si dava la possibilità in modo reale dello sciopero sociale, che o è inclusivo o non lo è.
Questo tema del monopolio della violenza è emerso anche nel techno rave che il primo giorno ha invaso le strade vietate di St.Pauli in modo creativo e colorato, come anche nella due giorni di guerriglia del 6 e del 7 luglio. Potevamo decidere di scontrarci come di non farlo. Potevamo vestirci di nero o di un altro colore, ma sarebbero state tutte nostre decisioni come collettivo o gruppo, dentro una situazione non sovradeterminata. E lo si decideva sempre partendo dalle nostre soggettività, dalle nostre vulnerabilità e dalla conoscenza del contesto e della situazione. Il fatto che la Polizei abbia attaccato a freddo un corteo disposto allo scontro ma che non aveva deciso di scontrarsi, pagandone duramente le conseguenze, lo conferma.
Nelle strade di St. Pauli, al Porto, intorno alla Zona Rossa le barricate venivano montate e smontate dai manifestanti, venivano scelti gli obiettivi e praticati, potevano essere vestiti di nero o di arancione o blu. In tutti i casi il sovrano ha perso militarmente perché è risultato evidente come non avesse nelle sue mani la capacità di determinarci, come non avesse la possibilità di spaventare chi era disponibile e pronto allo scontro ma non cedeva a provocazioni e decideva come agire e quando agire. Se c’è una sconfitta per il sovrano dello Stato d’Emergenza è stata questa, secondo noi: aver trovato tanti piccoli pesciolini che hanno formato un’enorme forza, consapevole della propria capacità, cooperante e complice. Solidale fino all’ultima manifestazione sotto le carceri. Nessuno era interessato a mostrare con il proprio corpo quanto fosse violento il sovrano (del resto della crudeltà di Erdogan, Putin, Saud o Trump non crediamo ci siano dubbi). Nessuno si è seduto a terra a favor di telecamere facendosi menare per indignare la “società civile” (che oltre a non esistere è sempre meno civile). Quella prassi ad Amburgo è, secondo noi, definitivamente tramontata. E’ tramontata perché inutile e dolorosa. Perché è una prassi del simbolico che si vive con paura, la paura che è anche la paradossale certezza di subire violenza ma senza sapere esattamente quando e come.
Per alcuni di noi questo passaggio non è stato secondario e chiama in causa scelte e pratiche fatte anni fa, in vite fa. La meraviglia è che si sia dato dentro la cornice di un controvertice lì dove cioè la mediaticità di quella prassi poteva ancora ambire ad avere un senso. Forse Hamburg segna davvero la chiusura di un ciclo (per la verità per alcuni chiuso da tempo), iniziato con Genova 2001 e passato da Heiligendamm. Sicuramente l’aver praticato soggettivamente, collettivamente, anche totalmente altro è stato ciò che ha scardinato il potere e fatto vincere la battaglia, lasciando nelle strade europee un nuovo movimento pronto al cammino.
L’esito del vertice
“I personaggi ammirevoli in cui il sistema si personifica sono ben noti per non essere ciò che sono: sono divenuti grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della minima vita individuale, e tutti lo sanno”
(Guy Debord – La società dello spettacolo)
Il vertice del G-20 è stato un fallimento se qualcuno pensava potesse risolvere qualcosa. A parte i bilaterali tra Putin e Trump e frettolosi accordi di secondaria importanza, ha segnato la fine di ogni possibilità di convergenza sul cambiamento climatico. Un vertice che doveva segnare l’entrata dell’Europa tedesca (o della Germania a vocazione europea) nell’Olimpo della geopolitica, è stato non solo un flop ma una caduta rovinosa. Un vertice che è costato 400 milioni di euro (oltre i 200 milioni di danni e altrettanti di blocco dei flussi del porto) e non è riuscito neanche ad avere luogo se non per qualche foto di rito (saltati diversi incontri per impossibilità di raggiungere le “zone rosse”). Un vertice che assediato dalle fiamme ha solo confermato la fase autoritaria del governo della crisi e della guerra. Eppure deve essere stato davvero frustrante per Erdogan venire assediato dai manifestanti curdi (al punto che in un certo momento sono stati fermati militanti di estrema destra turca dei lupi grigi intorno al suo albergo); o per Trump, Macron e Putin non poter più alloggiare nei loro alberghi dati alle fiamme dai manifestanti. Davvero surreale parlare di sovranità o globalismo, di autoarchie economiche o export tra Russia, Usa, Cina e Germania con il secondo più grande porto d’Europa bloccato e inservibile per i giorni a venire. Il segno di una loro impotenza che diventa la nostra potenza, collettiva. L’immagine dei leader che scappano dalla zona rossa in fiamme, sotto terra, in una metro speciale per loro perché in superficie c’è guerriglia e succede di tutto, rimarrà nelle loro teste per molto tempo, ne siamo certi. Aver portato la sensazione di precarietà, disperazione, spaesamento, insicurezza per la propria incolumità fisica in chi porta la guerra nel mondo rimane il massimo degli obiettivi che il Contro-G20 doveva raggiungere. Ed è stato fatto.
Dall’SPD di Amburgo e la sua ossessione da gentrification e decoro e lo spregiudicato capo della polizia Dudde (forse già in queste ore ex-capo della polizia) viene un monito per tutti coloro che in Italia pensano di poter raccogliere qualche voto dalla paura e dalla militarizzazione delle città.
Il gruppo di affinità e il consenso partecipato, la vulnerabilità individuale che si fa forza comune
“Eye to eye,
So alive
We’re beautiful like diamonds in the sky”
(Rhianna – Diamonds)
Partire dalle pratiche, dalla loro effettività e affettività. Quando l’effettività prende il posto di un’idea astratta di efficacia accade che flussi di vite in movimento riescano a bloccare i flussi unilineari dei capitali. Quando si cancella ogni dover essere prestazionale (e maschile) dalle pratiche di piazza accade che il camminare con lentezza consenta non solo di camminare insieme, di ballare insieme, ma anche di essere immediatamente affettivi ed effettivi nel bloccare lo scorrere delle merci. L’inadeguatezza che non si adegua come pratica di sovversione genera affettività immediatamente effettive contro la logistica del capitale: votata alla velocità, alla produttività, alla forza. Vite che si sottraggono a ogni dover essere. È quello che è accaduto nello strike al porto di Amburgo, a cui hanno dato vita le compagne di Ums Ganze e a cui abbiamo da subito aderito con convinzione come Berlin Migrant Strikers. Lo sciopero del Porto che è diventato poi City Social Strike con l’alleanza degli studenti e delle studentesse la mattina e l’impossibilità dei mezzi di funzionare. Centinaia di persone che ballavano, camminavano insieme e una coda di camion rallentata dalla gioia: il porto di Amburgo in gran parte bloccato, la Polizei spiazzata dallo spostamento. Il conflitto portato in un luogo non simbolico ma effettivo di passaggio di ricchezza; e portato attraverso pratiche che modificano i rapporti di forza rispetto allo scontro militare. Lo Stop G20 è stato anche questo. L’espressione e non solo la repressione. Non autorappresentarsi solo come potenziali vittime di dispositivi securitari e repressivi, ma come soggetti vitali come pratica di autocoscienza di quel che possiamo.
Si è praticato così tutto; decidevamo come vivere e attraversare una situazione a seconda della volontà di esserci. Ci consultavamo volta per volta, prendendoci cura delle nostre vulnerabilità, senza rinunciare a momenti di tensione e radicalità per le strade di Altona o di gioia e danza al Rave del primo giorno. Il nostro campo base diventava media center, luogo di amicizia e calore, di confronto e presa di consapevolezza. Ognuno era dentro ciò che accadeva anche quando non ci poteva essere e quando eravamo tutti si praticava quello che si era deciso tutelando tutte e tutti, sempre partendo dal singolo e dalla sua vulnerabilità che diventando comune, socializzata, rovesciava il piano militaresco e verticale dello “scontro tra opposti eserciti” e ci rendeva imprevedibili, ingovernabili, illeggibili. L’inclusività e il camminare domandando ha permesso di essere sempre di più. Di radicalizzarci e renderci consapevoli di quello che facevamo dove e come lo facevamo. Una pratica affettiva che soggettiva e che è la cifra vera moltiplicata su vasta scala delle giornate di Amburgo. La solidarietà, l’organizzazione, il raccontarsi e l’autogovernarsi senza subire lo spartito del potere, della Polizei, del suo Sovrano Dudde (per lui crediamo la carriera sia definitivamente finita nel modo più grottesco possibile). Un pischello riottoso delle periferie del nord italia, un gruppo di migranti italiani di Berlino, un Gastarbeiter dal Nord Reno-Vestfalia, un europarlamentare o attivisti ecologisti, e altre e altri ancora, a mano a mano intorno al tavolo nel giardinetto ci si riuniva, ci si confrontava; qualcuno andava a farsi una passeggiata, qualcuno chiedeva e dava sensazioni e informazioni. Tutte e tutti ci si riuniva con una “parola in codice”, un nome che è ricordo ma è anche un ferita comune che non guarirà mai: “DAX”.
Il “détournement” interrogava la collettività e anche ogni singolo nel vivere così diversamente dai soliti momenti che dovevano essere di scontro e invece erano momenti di festa che finivano contendendo quartieri a un potere sempre più stanco, frustrato e confuso, alle corde insomma. Questa forza di soggettività vulnerabili è poi esplosa nella bellissima manifestazione finale, dove quasi simbolicamente capeggiava su diversi cartelli l’immagine di Carlo Giuliani e la scritta “never forget, never forgive” ha reso quasi magico questo emergere di un nuovo movimento europeo, così in grado ora di immaginare un futuro migliore da avere persino la pretesa, di nuovo, di desiderarlo.
Questo e molto altro è stata per noi la gita fuoriPorto contro il G20 di Hamburg. Era un passaggio critico, problematico, ci siamo presi per mano, stretti in cordone, lentamente e l’abbiamo superato.
Ora noi guardiamo con occhi e temi nuovi al processo dello sciopero sociale, alle lotte che attraversano l’Europa stritolata tra austerity e neofascismi e anche al TSS Meeting a cui vorremmo invitare tutte e tutti a discutere a Ottobre a Berlino. Partendo dalla logistica del capitale, dal blocco dei flussi, dal welfare del debito e della colpa, dalla logistica della repressione e dalle molteplici lotte che dentro e fuori dal lavoro, dalla gig economy, della distribuzione avvengono, discutendo di pratiche, di genere in modo aperto, gioioso e curioso, come è stato questo NoG20 ad Hamburg.
Ora, prendiamoci il futuro (magari però prima una piccola vacanza).
Berlin Migrant Strikers
pubblicato anche su Effimera
In tedesco forza si dice “Stärke” è in italiano che si dice “monopolio della violenza legittima”