Contro i curdi, ieri le bombe di Saddam Hussein oggi quelle di Erdoğan
Mentre i raid aerei turchi continuano a mietere vittime nel Kurdistan iracheno, la sindaca di Halabja racconta il massacro con armi chimiche del 1988 in cui morirono oltre 5mila curdi. E adesso? «Gli unici amici che abbiamo sono le nostre montagne che ci proteggono»
di Hazal Koyuncuer – sindacalista Cub e rappresentante della comunità curda milanese
Nonostante siano passati 34 anni da quel massacro, il ricordo è ancora molto vivo nel popolo curdo. Per noi il Nord dell’Iraq si chiama Basur, ed è Kurdistan in tutto e per tutto, curda è la sua popolazione, come la lingua parlata. Durante la dittatura sanguinaria e tirannica di Saddam Hussein, era già capitato di subire attacchi ma il 16 marzo 1988, durante la guerra Iraq-Iran, intorno a mezzogiorno, la cittadina di Halabja, 70mila abitanti, nella provincia di Sulaymaniyya, a circa 15 km dal confine con l’Iran, venne improvvisamente avvolta in un velo verde. I bombardieri iracheni di fabbricazione francese invasero il cielo con un attacco mediante armi chimiche illegali.
Il giorno prima i partigiani dell’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani avevano liberato la città. Abituata alle alterne offensive e controffensive nel conflitto Iraq-Iran che devastavano la regione dal settembre del 1980, la popolazione credette sulle prime che si trattasse di una classica operazione di rappresaglia. Un odore nauseante di mele imputridite riempì Halabja. Al calar della notte le incursioni aeree cessarono e cominciò a piovere. Poiché le truppe irachene avevano distrutto la centrale elettrica, gli abitanti partirono alla ricerca dei loro morti nel fango, alla luce delle torce. L’indomani si trovarono di fronte a uno spettacolo spaventoso: strade lastricate di cadaveri, persone sorprese dalla morte chimica nei loro gesti quotidiani: bambini tenuti per mano dal padre, neonati ancora attaccati al seno materno, gli anziani che pensavano di passare una giornata serena e i malati che speravano di guarire. In poche ore si contarono 5mila morti di cui 3.200 vennero tumulati in una fossa comune perché nessuno poté reclamarli.
La città di Halabja vive ancora oggi con i terribili ricordi di quella tragedia, nel suo territorio e in quello circostante non cresce più un filo di erba, le donne che erano state colpite dai gas non riescono avere più i figli e se possono averne, nascono deformi. Ora la speranza di migliaia dei parenti delle vittime di quella tragedia in particolare e del popolo curdo tutto è che, quanto accaduto non debba più ripetersi. Incontriamo l’attuale sindaca di Halabja, Kwestan Akram, durante un tour di incontri e visite in Italia. Femminista, esponente del Partito dell’Unione patriottica, è figlia di quella città martire.
Nel 1988 lei aveva 21 anni e conserva un ricordo di quei giorni molto lucido: «Il giorno prima dell’attacco avevo sentito che i partigiani curdi erano entrati in città, ma gli aerei del regime continuavano a circolare sopra di noi. Avevamo in casa un rifugio sotterraneo. Appena si avvertirono i primi bombardamenti, mia madre lasciò il cibo che cucinava, gridò per chiamare noi figli e ci rifugiammo nel sotterraneo. Il giorno dopo ci fu una calma incredibile, l’unico rumore che sentimmo fu quello del trattore del nostro vicino di casa. Mio padre usci, ci caricò sul rimorchio del trattore e ci avviammo verso l’Iran. Durante il viaggio mio padre ci diceva di tenere gli occhi chiusi ma io non ci riuscivo. In quel momento ho visto i morti per le strade e i feriti. Raggiungemmo poi il confine dell’Iran. Dopo l’amnistia dichiarata dal regime, tornammo in Iraq verso le montagne di Qandil. Provammo ad andare a Sulaymaniyya. Al controllo di un checkpoint i soldati iracheni ci trattarono bene, noi pensavamo che tutto fosse finito. Invece ci fecero salire su una macchina e ci portarono nel grande carcere di Sulaymaniyya dove gli uomini e le donne furono separati. Poco tempo dopo fummo trasferiti nel carcere di Kirkuk dove fummo di nuovo divisi e lì ho conosciuto la fame, i bambini morivano per malnutrizione. Dopo mesi venne dichiarata una nuova amnistia e fummo liberati. Uscì anche quello che sarebbe divenuto mio marito e che era stato condannato all’ergastolo».
Qui il racconto di Kwestan Akram si fa doloroso e intenso: «L’anno successivo ci sposammo. Abbiamo avuto una figlia e un figlio, ma purtroppo mio marito morì per una malattia aggravata dalle torture subite. Oggi sono la sindaca di questa città, e sebbene l’uguaglianza possa essere una realtà lontana per molte donne in Iraq, ad Halabja le donne hanno raggiunto i vertici del governo locale. Un cambio radicale che ha segnato quasi una ripartenza nel Kurdistan iracheno, dove gli affari pubblici sono stati a lungo dominati dal potere di una manciata di uomini. Quando si è donna i sacrifici sono molti di più. Quanto alla città, Halabja sta cercando di riprendersi anche dopo la pandemia mondiale che oggi è sotto controllo, ma le difficoltà sono tante, dalla guerra permanente alla mancanza di budget».
La sindaca è estremamente preoccupata di quanto sta accadendo in questi mesi, a partire dall’attacco turco del 18 aprile: «In questi mesi il governo della repubblica turca attacca il Kurdistan dell’Iraq dove la guerriglia curda sta rappresentando una forte resistenza. Abbiamo avuto un incontro e siamo in dialogo con il sindaco di Qandil, città sotto bombardamenti turchi, abbiamo ricevuto notizie relative a nuovi attacchi con armi chimiche. Nessuno vuole che ci sia un Kurdistan, la Turchia, con la scusante del terrorismo, sta occupando e attaccando il Kurdistan iracheno (è di pochi giorni fa l’attacco aereo turco nell’area turistica di Barakh ndr). Ormai sono sempre più convinta che gli unici amici su cui i curdi possono contare sono le nostre montagne che ci proteggono, e che i curdi devono riuscire ad unire le loro forze». Il suo è un appello accorato all’unità mentre si preparano momenti bui, anche se, pensandoci bene, sono stati ben pochi nella storia curda gli sprazzi di luce: «Sappiamo che le grandi potenze del Medio Oriente sono spietate nei confronti delle altre etnie, che saranno massacrate oppure arabizzate o turchizzate, come accaduto per gli antenati dei loro nemici. Dico e scrivo queste parole mentre una brezza fredda mi avvolge le dita e un destino ignoto mi attende. Vivo attraverso i sogni di una terra libera».
da Left