Dialogo con Zehra Dogan la giornalista e artista che ha descritto in un epistolario la sua terribile reclusione in Turchia, nel carcere di Diyarbakir
di Marica Fantauzzi da il manifesto
Cinque anni fa Zehra Dogan è uscita di prigione. Grazie all’epistolario tra lei e la sua amica Naz Oke, pubblicato in Italia da Fandango, il mondo ha potuto conoscere chi era ristretta nel carcere di Diyarbakir nella Turchia sud-orientale: vi si trovavano attiviste curde, strenue oppositrici del governo turco e decine di altre donne costrette a scontare la pena senza mai averne compreso la ragione, con figli stretti al ventre e un orizzonte che aveva preso le sembianze di una lurida finestra incastonata nel cemento. Da allora, la vicenda di Dogan, artista e giornalista curda di 35 anni, condannata dallo Stato turco per un dipinto è diventata racconto, documentario, persino murales di Bansky tra Houston Street e Bowery a Manhattan.
MA LA CONDIVISIONE pubblica della prigionia è cosa delicata e se la memoria delle persone vacilla, la ferita causata dall’oppressore è ostinata e la sua capacità performativa va ben oltre il fine pena. Le pagine che rivelano l’orrore della detenzione sono valorose e rivoluzionarie, ma anche intime, crudeli e a tratti rivoltanti. Per questo Dogan, dopo cinque anni dalla liberazione, ora lontana dal suo paese, si dice stanca. Perché ogni qualvolta qualcuno le chiede conto di quel che è stato, è come se non ne fosse mai veramente uscita. «Capita che cerchi di dimenticarne gli effetti – afferma – ma basta una domanda in più sulla mia detenzione che vengo irrimediabilmente catapultata giù, nelle celle turche. E ci vogliono settimane per uscirne.
Per questo motivo tendo a evitare le interviste. Posso trovarmi in una situazione così difficile una volta all’anno, forse due, ma oltre finirei per crollare. So che dovrei testimoniare per il mio popolo ovunque, ma mi sono resa conto che sono anni che non esco di prigione. Penso di averlo fatto, ma ogni volta che ripeto quello che è successo come un pappagallo, ritorno nell’abisso». Eppure, fin troppo consapevole che il suo è un fardello collettivo oltre che privato, Dogan oggi decide di parlare al manifesto in solidarietà con un’altra giovane donna, Maysoon Majidi, detenuta in Italia dallo scorso dicembre con l’accusa di essere una trafficante di esseri umani.
ENTRAMBE sono state accusate dai loro rispettivi paesi (Turchia e Iran) di propaganda terroristica per ragioni simili: sono curde, militanti politiche e artiste. Dogan legge la storia di Majidi all’interno della parabola di un popolo torturato dalla Storia, quello curdo, dove le donne continuano a pagare un prezzo sempre più alto e l’Europa, in questo caso l’Italia, finisce per criminalizzare invece di proteggere. «Temendo per la sua vita – racconta Dogan – Majidi è fuggita dal regime iraniano e si è recata nella regione autonoma curda. Purtroppo, neanche lì è stata risparmiata da persecuzioni e minacce. Sebbene, infatti, la regione sia stata dichiarata autonoma nella parte meridionale, è purtroppo una neocolonia degli Stati egemoni perché è un punto molto importante in termini di posizione geopolitica e di risorse del sottosuolo. In nome dei cosiddetti interessi della regione autonoma, coloro che la governano sono diventati pedine delle multinazionali americane, dello Stato turco e dello Stato iraniano».
DECINE DI ATTIVISTE, denuncia Dogan, perdono la vita ogni anno in quella regione. È il caso di Nagihan Akarsel, giornalista e accademica femminista, che nell’ottobre 2022 è stata uccisa per strada da un sicario: dopo essere stato arrestato, l’assassino ha confessato di lavorare per conto dello Stato turco. E lo stesso vale per i militanti curdi che hanno dovuto lasciare l’Iran per motivi politici: arrivano nel Kurdistan meridionale ma vengono uccisi da agenti che lavorano per lo Stato iraniano. «In quei luoghi la vita cammina su una linea sottile, per questo non sorprende che Majidi abbia dubitato della propria sicurezza e sperato di chiedere asilo in Europa». Ma è proprio tramite la sua vicenda – prosegue – che possiamo comprendere la crudeltà di un sistema in cui i paesi occidentali giocano un ruolo di primo piano».
«FINIAMO PER RIMANERE incastrate nell’atmosfera di pace bianca creata nel nostro paese dagli Stati che perseguono i propri interessi, perpetrando guerre e terrore. Per poi essere costrette a dire: ‘Possiamo rifugiarci nel vostro Stato, sicuro e democratico, a causa dell’insopportabile siccità ecologica causata dalle risorse che state succhiando dal nostro paese e dalla guerra in cui ci fate diventare solo pedine da combattere con le armi che vendete?’».
Nonostante le numerose richieste da parte dei legali, il giudice italiano non ha mai concesso gli arresti domiciliari a Majidi. Il prossimo 18 settembre ci sarà una nuova udienza: la sua detenzione, diversamente da quella di Dogan, è immersa in una lingua straniera. Anche solo da questo elemento, che può sembrare una minuzia, si può comprendere la solitudine in cui versa Majidi. Per questa ragione Dogan insiste sulla portata simbolica della sua prigionia: all’apparenza anonima e senza voce, destinata all’oblio a cui tante persone migranti sono costrette in Europa, è l’immagine eloquente di una contemporaneità che poggia sulla tutela dei diritti umani per poi, come nella storia di Majidi, cederne porzioni in cambio di una flebile percezione di sicurezza.
L’ELENCO DI GIORNALISTI e attivisti curdi uccisi continua ad aumentare. Alcuni giorni fa due cronisti curdi dell’emittente Sterk Tv sono stati presi di mira da un drone turco. La loro macchina è saltata in aria nella città di Suleymaniya, nel Kurdistan iracheno. Entrambi erano amici e colleghi di Dogan.
TORNANO ALLA MENTE le parole che scrisse a Naz Oke il 16 luglio del 2017, quando ancora era reclusa nel carcere turco di Diyarbakir. Lei e le compagne ragionavano sul futuro del popolo curdo, su come interrompere la spirale di orrore: «Non ci hanno lasciato nulla da vivere – scriveva – ma se ce lo domandassero, forse sapremmo descrivere la felicità meglio di ogni altra cosa, perché ne abbiamo fame». Una vecchia immagine sul profilo Instagram di Maysoon Majidi la ritrae dietro a una telecamera. Sotto si legge: regista teatrale. In fondo, conclude Zehra Dogan pensando alla compagna curda ristretta in Italia, esiste un unico linguaggio che ci rende sopportabile tutto questo: «Quello dell’arte, in ogni dimensione».
Gulala Salih: «È il nostro destino quello di subire l’ingiustizia in patria e ovunque»
In questi drammatici nove mesi, diverse persone si sono strette intorno all’attivista e regista teatrale curda Maysoon Majidi, reclusa in Calabria e sotto processo a Crotone con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, andando a trovarla in carcere, scrivendo e inviandole lettere, mantenendo contatti con il suo legale ed i suoi familiari. Tra costoro c’è la scrittrice Gulala Salih, rappresentante del Kurdistan di Save the Childreen Italia e presidente dell’Unione Donne italiane e curde.
Gulala, come sta Maysoon?
Dopo un’attesa abbastanza lunga, pochi giorni fa finalmente ho incontrato la mia connazionale, la compagna impegnata nella lotta per i diritti del Kurdistan e delle donne. Come curda, attivista e semplicemente come donna, sento profondamente la tragica assurdità del suo caso. Maysoon, dallo schermo del collegamento video dal carcere, è riuscita a trasmettermi, a farmi capire e toccare il suo stato di malessere, il suo dolore e l’ingiustizia che sta subendo.
Cosa le ha detto?
Riporto le sue parole disperate, quelle che posso riferire: «Incontro e sento diverse persone ma nessuno ha fatto niente per me, ricevo delle lettere ma non ho risposto a nessuno, sono confusa e non capisco più niente».
Cosa le ha risposto?
Ho assicurato Maysoon che lei è in carcere ma non è sola: oltre a chi può incontrare, fuori dal cancello ci sono tante persone comuni, attiviste e tante associazioni per la difesa dei diritti impegnate per la sua liberazione.
Cosa si prova quando si parla al telefono con una persona prigioniera?
Con la telefonata il tempo correva più veloce del solito; anche se avevo preparato un elenco di cose da chiedere e da comunicare, i 41 minuti non sono bastati per dirci tutto, per fare le tante domande, per avere tutte le risposte, e per consegnare le raccomandazioni del padre in Iran e dei due zii in diaspora in Germania.
Tra Maysoon e lei c’è la condivisione di una lotta.
Sì, sono addolorata e ora ancor di più dopo la nostra conversazione; sono triste per quello che ha subito nella patria colonizzata, sulla barca della speranza e nel carcere di un paese libero e democratico.
È un amaro destino, non solo per Maysoon.
È il destino delle donne curde, quello di subire l’ingiustizia in patria e ovunque. Che colpa ha Maysoon per essere in carcere? È perseguitata dal regime iraniano per essere curda, per aver difeso dei diritti; l’hanno perseguitata anche nel piccolo territorio libero del Kurdistan iracheno.
Mimmo Lucano, recatosi qualche giorno fa a incontrarla nel carcere di Reggio Calabria, ha affermato: «Hanno bisogno di qualcuno su cui costruire questo teorema accusatorio per giustificare azioni non degne della giustizia».
È vero: Maysoon è reclusa, accusata di essere collaboratrice degli scafisti, hanno trovato il capro espiatorio per «dimostrare» che stanno combattendo l’immigrazione clandestina. Non servono le sue raccomandazioni per sentirmi sua sorella. Maysoon è per me davvero una persona cara; sono certa più che mai della sua innocenza. È una compagna, un’attivista che ha i suoi valori e principi. Non è assolutamente una scafista. Nel mio piccolo e con i miei limiti farò quello che posso e manterrò la promessa, arrivata da anni in questa terra libera, l’Italia, di essere la voce dei perseguitati. Sarò voce anche per Maysoon. (Intervista a cura di Silvio Messinetti, Claudio Dionesalvi per il manifesto)
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