Ultimamente i media nazionali hanno dato spazio a vicende che, al di là di contesti ed epiloghi diversi, ruotano attorno a violenze delle forze dell’ordine, da Cucchi a Gugliotta. Questi fatti sono persino riusciti a fare da traino ad altri del passato (tornati ad apparire o apparsi per la prima volta sui giornali) e in una certa misura ad aprire un dibattito su un tema che in Italia sembrava essere un tabù: gli abusi delle forze di polizia. Tutto questo è positivo, ma vorrei sottolineare almeno una stonatura e una dimenticanza.
La stonatura è data dalla tendenza a evidenziare le “vite normali” dei ragazzi recentemente uccisi o malmenati. L’opinione pubblica, piegata dall’ossessione della sicurezza, è più incline a commuoversi di fronte a un “bravo ragazzo” picchiato o ucciso. Quando la stessa sorte capita a un criminale, o anche solo a uno di quei soggetti considerati diversi o marginali, la partecipazione si ferma; a volte scatta addirittura il meccanismo del “se l’è cercata” o “in fondo gli sta bene”. La circostanza può portare a diverse riflessioni, ma almeno una mi sembra fondamentale: lo smarrimento del concetto di “diritti inalienabili dell’individuo”. Inalienabili, ossia inscindibilmente legati all’essere umano, indipendentemente dalla sua moralità o da suoi comportamenti anche odiosi. Proprio il fatto che le vittime degli ultimi abusi siano stati sovente ragazzi “normali” dovrebbe farci capire quanto ogni cedimento su questo piano sia pericoloso. I diritti non hanno nove vite come i gatti; ne hanno una, molto fragile. Ci vogliono secoli per conquistarli e poco per smarrirli, con conseguenze drammatiche per tutti.
La dimenticanza la segnalo grazie a un articolo firmato da Francesco Merlo su Repubblica “Quei ragazzi picchiati per la loro innocenza”. Un articolo condivisibile e persino lodevole, per la chiarezza con cui sottolinea, all’interno delle forze di polizia, colpe e obblighi NON delle sole mele marce, ma di quelle sane («Sarebbe dunque necessario che ora la polizia indagasse sulla polizia, che riflettesse sul reclutamento, che denunziasse se stessa»). Sui maggiori quotidiani Merlo è anche uno dei pochi, forse l’unico, a citare i fatti di Genova nell’elenco di abusi che hanno preceduto il caso Gugliotta. Ma lo fa con una grossa imprecisione: «la polizia italiana … a Genova si permise abusi e violenze che rimasero comunque isolati e che stavano dentro gli scontri di piazza … Invece qui ci sono agenti che si abbandonano all’odio contro i fermati, contro gli indifesi, contro quelli che dovrebbero tutelare anche quando devono reprimerli».
Se parliamo di odio contro i fermati e di violenze verso soggetti ormai indifesi, mi sembra che il paragone fra i casi recenti e i fatti di strada del luglio genovese ci stia tutto.
Ma il paragone, sotto questo profilo, si fa ancora più calzante se parliamo della Diaz e soprattutto di Bolzaneto.
Dove, è bene ricordarlo, le violenze furono riservate a persone già fermate e in attesa di essere tradotte in carcere: il parallelo con le vicende Cucchi o Gugliotta si fa ancora più calzante.
Genova quindi, da vicenda-simbolo delle violenze delle forze di polizia (nonché dell’impunità e della scarsa capacità, giustamente stigmatizzata da Merlo, degli apparati dello Stato nell’indagare su se stessi) è diventata una gigantesca rimozione. E così si perde un nesso causale fondamentale: gli abusi di oggi sono figli di un’involuzione delle forze dell’ordine, a sua volta figlia di un percorso culturale che ha sancito il declassamento dei diritti nelle priorità dei cittadini e della politica. Una rimozione ancora più amara se pensiamo che il 18 maggio sarà emessa la sentenza di appello per i fatti della scuola Diaz. Per quelle 93 persone picchiate e arrestate con accuse false la sentenza di primo grado ha portato a 13 condanne e 16 assoluzioni, ma senza che ci sia mai stata una presa di distanza o un’autocritica da parte dei vertici, della polizia o delle Istituzioni in generale, verso le violenze commesse.
Sarebbe opportuno che, indipendentemente da quello che sarà il verdetto, la politica e i media nazionali dimostrassero in occasione della nuova sentenza-Diaz almeno la sensibilità dimostrata verso i casi Cucchi e Gugliotta: oltre a costituire un parziale e tardivo risarcimento per i fatti genovesi, sarebbe la migliore dimostrazione di una sincera volontà a far sì che queste vicende non si ripetano.
La stonatura è data dalla tendenza a evidenziare le “vite normali” dei ragazzi recentemente uccisi o malmenati. L’opinione pubblica, piegata dall’ossessione della sicurezza, è più incline a commuoversi di fronte a un “bravo ragazzo” picchiato o ucciso. Quando la stessa sorte capita a un criminale, o anche solo a uno di quei soggetti considerati diversi o marginali, la partecipazione si ferma; a volte scatta addirittura il meccanismo del “se l’è cercata” o “in fondo gli sta bene”. La circostanza può portare a diverse riflessioni, ma almeno una mi sembra fondamentale: lo smarrimento del concetto di “diritti inalienabili dell’individuo”. Inalienabili, ossia inscindibilmente legati all’essere umano, indipendentemente dalla sua moralità o da suoi comportamenti anche odiosi. Proprio il fatto che le vittime degli ultimi abusi siano stati sovente ragazzi “normali” dovrebbe farci capire quanto ogni cedimento su questo piano sia pericoloso. I diritti non hanno nove vite come i gatti; ne hanno una, molto fragile. Ci vogliono secoli per conquistarli e poco per smarrirli, con conseguenze drammatiche per tutti.
La dimenticanza la segnalo grazie a un articolo firmato da Francesco Merlo su Repubblica “Quei ragazzi picchiati per la loro innocenza”. Un articolo condivisibile e persino lodevole, per la chiarezza con cui sottolinea, all’interno delle forze di polizia, colpe e obblighi NON delle sole mele marce, ma di quelle sane («Sarebbe dunque necessario che ora la polizia indagasse sulla polizia, che riflettesse sul reclutamento, che denunziasse se stessa»). Sui maggiori quotidiani Merlo è anche uno dei pochi, forse l’unico, a citare i fatti di Genova nell’elenco di abusi che hanno preceduto il caso Gugliotta. Ma lo fa con una grossa imprecisione: «la polizia italiana … a Genova si permise abusi e violenze che rimasero comunque isolati e che stavano dentro gli scontri di piazza … Invece qui ci sono agenti che si abbandonano all’odio contro i fermati, contro gli indifesi, contro quelli che dovrebbero tutelare anche quando devono reprimerli».
Se parliamo di odio contro i fermati e di violenze verso soggetti ormai indifesi, mi sembra che il paragone fra i casi recenti e i fatti di strada del luglio genovese ci stia tutto.
Ma il paragone, sotto questo profilo, si fa ancora più calzante se parliamo della Diaz e soprattutto di Bolzaneto.
Dove, è bene ricordarlo, le violenze furono riservate a persone già fermate e in attesa di essere tradotte in carcere: il parallelo con le vicende Cucchi o Gugliotta si fa ancora più calzante.
Genova quindi, da vicenda-simbolo delle violenze delle forze di polizia (nonché dell’impunità e della scarsa capacità, giustamente stigmatizzata da Merlo, degli apparati dello Stato nell’indagare su se stessi) è diventata una gigantesca rimozione. E così si perde un nesso causale fondamentale: gli abusi di oggi sono figli di un’involuzione delle forze dell’ordine, a sua volta figlia di un percorso culturale che ha sancito il declassamento dei diritti nelle priorità dei cittadini e della politica. Una rimozione ancora più amara se pensiamo che il 18 maggio sarà emessa la sentenza di appello per i fatti della scuola Diaz. Per quelle 93 persone picchiate e arrestate con accuse false la sentenza di primo grado ha portato a 13 condanne e 16 assoluzioni, ma senza che ci sia mai stata una presa di distanza o un’autocritica da parte dei vertici, della polizia o delle Istituzioni in generale, verso le violenze commesse.
Sarebbe opportuno che, indipendentemente da quello che sarà il verdetto, la politica e i media nazionali dimostrassero in occasione della nuova sentenza-Diaz almeno la sensibilità dimostrata verso i casi Cucchi e Gugliotta: oltre a costituire un parziale e tardivo risarcimento per i fatti genovesi, sarebbe la migliore dimostrazione di una sincera volontà a far sì che queste vicende non si ripetano.
Francesco “baro” Barilli
Share this: