Il confine sottile tra giornalismo e revisionismo storico. Francesco “Baro” Barilli stavola smonta un’inchiesta del Giornale
Tempo fa, tramite internet, avevo letto questo articolo di Gian Marco Chiocci, apparso su Il Giornale l’11 novembre 2012. In sostanza nell’articolo si insinua che per le stragi di Brescia e Bologna possano esistere “piste rosse”, in luogo di quelle “nere” ormai acclarate anche in via giudiziaria. Rimando all’articolo completo per i dettagli.
Sulla testata il pezzo viene definito pomposamente “inchiesta”: su questo termine (interessante spia linguistica, involontariamente ironica una volta che si è depurato l’articolo dalle molte inesattezze in esso contenute) tornerò più avanti.
Per un po’ ho pensato di scrivere una risposta – almeno per quanto concerne Piazza della Loggia, caso che ho seguito a fondo – a quello che veniva presentato come un “grande scoop”. Ad evitarmi la fatica ci ha pensato qualcun altro: a chi avesse la pazienza di leggersi tutto l’articolo del Giornale, consiglio di leggere la risposta di Ugo Maria Tassinari, che a sua volta sintetizza considerazioni di Giacomo Pacini.
A quest’ultimo pezzo aggiungo solo un particolare. Nella sua “inchiesta” Chiocci dice che “i magistrati di Brescia . all’inizio indagavano sull’eversione rossa forse perché il comizio dei sindacati bresciani era ‘contro il fascismo delle Br’.”
Non è la prima volta che organi di stampa, cercando “una sponda” per mettere in dubbio la matrice nera della strage, mettono in discussione che la manifestazione sindacale bresciana del 28 maggio 1974 fosse “antifascista”, parlandone invece come di un’iniziativa trasversale, se non addirittura contro le Brigate rosse. Sono voci che possono essere dettate solo da grossolana ignoranza o malafede. Basterebbe ripercorrere la cronologia dei fatti precedenti il 28 maggio 74 nel territorio bresciano per smentirle, o leggere i volantini scritti per pubblicizzare la manifestazione di quella mattina.
Riporto quanto detto dall’ex sindaco di Brescia, Paolo Corsini, in Commissione stragi, seduta del 4.6.97: “posso dare lettura dei volantini diffusi nell’occasione . Il CUPA (ndr: Comitato Unitario Permanente Antifascista), d’accordo con Cgil, Cisl, Uil, indice una manifestazione antifascista: «Ancora una volta il fascismo si manifesta nella nostra città e nella nostra provincia con i caratteri ripugnanti del terrorismo omicida, della provocazione e della violenza. Tutto ciò deve cessare! Le indagini vanno portate sino in fondo, episodi di provocazione come quello di piazza Mercato (ndr: si tratta della morte del neofascista Silvio Ferrari, avvenuta durante un fallito attentato nella notte fra il 18 e il 19 maggio precedente) vanno stroncati sul nascere. La delinquenza nera deve essere isolata e schiacciata senza esitazione»”.
Dunque la manifestazione fu conseguenza dello stillicidio di attentati fascisti che avevano interessato la città fino al maggio 1974, e presentava un carattere prettamente antifascista. Poi, è vero, nei testi si leggeva anche “della sfida della banda di delinquenti comuni definitasi Brigate rosse contro lo Stato”. E’ ormai assodato, e non sarò certo io a negarlo, che specie in quei primi tempi un errore storico della sinistra fu vedere le BR come una banda di provocatori di dubbia estrazione ideologica, probabilmente (in quella miope lettura) “neri travestiti da rossi” (sempre per semplificare: l’argomento andrebbe ampliato, ma in questa sede risulterebbe dispersivo). Un errore grave fin che si vuole, ma in quel momento e in quella circostanza comprensibile. L’accenno alla “banda di delinquenti comuni definitasi Brigate rosse” rispondeva a un convincimento della sinistra dell’epoca: sicuramente sbagliato, ma in buona fede, almeno in quei momenti (le azioni delle Br erano agli inizi).
Dunque sulla “inchiesta” di Chiocci non c’è molto altro da scrivere. E tutto sommato non era necessaria neppure la mia postilla alla risposta che ho già linkato sopra.
Forse vale la pena fare solo una riflessione su questo tipo di giornalismo. Che sugli anni ’70 non ha intenzione di chiarire un bel nulla (non ne ha l’interesse) ma bensì di intorbidire le acque, rendendo il quadro d’insieme ancora più confuso di quanto già non sia. Non ricordo chi ha detto che ad una certa ora della sera (e, aggiungo io, ad una certa distanza) tutti i gatti sono grigi. Ecco, mi sembra che lo scrivere di Piazza della Loggia o della strage di Bologna insinuando sospetti verso la sinistra (spesso ripercorrendo depistaggi già ampiamente demoliti e smentiti, tipo la presunta foto di Curcio in Piazza Loggia, tanto per dire) abbia come sola aspirazione proprio quella di dipingere quel periodo come anni in cui tutti i gatti erano grigi. La funzionalità politica di questo tipo di narrazione è fin troppo chiara; tanto che, al di là di lunghi discorsi, per rispondere basterebbe dire che, guardati da vicino, i gatti alla stazione di Bologna e – prima – in piazza a Brescia erano decisamente neri.
Ma il nome di Gian Marco Chiocci continuava a tormentarmi con la domanda “dove l’ho già sentito??”. Ho dunque cercato fra le carte del mio archivio, trovando questo (leggetelo tutto, specie le ultime righe, prima di tornare qui).
Ecco, dunque, dove avevo “incontrato” precedentemente Chiocci.
Non m’interessa rispondere alle falsità contenute in quell’articolo su Carlo. Un po’ perché si tratta di un articolo del 2007; ma soprattutto perché a mio modo l’ho già fatto raccontando, assieme a Manuel De Carli, “Carlo Giuliani, il ribelle di Genova“.
Su Elena Angeloni invece qualcosa va detto.
Innanzitutto ricorderò (brevemente e con molte lacune, per motivi di spazio) quale era il contesto della Grecia di quegli anni, prima e dopo l’attentato dimostrativo all’ambasciata USA di Atene in cui Elena trovò la morte.
21 aprile 1967
In Grecia un colpo di stato militare insedia il cosiddetto “regime dei colonnelli”. I militari golpisti giustificano la loro azione come un atto rivoluzionario compiuto per salvare la nazione dal pericolo comunista. Tra il regime dei colonnelli e le formazioni neofasciste italiane si instaurano, negli anni successivi, stretti rapporti di collaborazione.
25 novembre 1973
La dura repressione di una rivolta studentesca al Politecnico di Atene, con conseguente uccisione da parte dell’esercito di numerosi civili, apre le prime crepe nel regime dei colonnelli. Il generale Papadopoulos viene rimosso dal generale Ioannidis, che riuscirà comunque a mantenere il potere nelle mani dei militari, nonostante l’aumento dell’opposizione interna e le proteste internazionali.
17 novembre 1974
In Grecia si tengono libere elezioni. Dopo gli avvenimenti del novembre precedente, con l’avvicendamento fra i generali Papadopoulos e Ioannidis, e dopo un anno di tensioni fortissime, che avevano già portato prima ad altri passaggi di potere interni alla giunta militare e poi al ritorno in patria di Kostantinos Karamanlis (già primo ministro negli anni ’50 e dal 1963 stabilitosi a Parigi) le elezioni sanciscono il definitivo crollo del regime. Karamanlis viene nominato primo ministro, dopo la vittoria elettorale del partito “Nuova Democrazia”.
La storia di Elena Angeloni (quella corretta, stavolta.) è stata recentemente raccontata grazie a Paola Staccioli e Haidi Gaggio Giuliani, nel loro “Non per odio ma per amore”(Derive Approdi, 2012), di cui consiglio la lettura e di cui riporto solo un passaggio: “nel 1983 l’allora primo ministro greco Andreas Papandreu invita ufficialmente ad Atene il figlio di Elena Angeloni a una cerimonia in onore delle vittime della Resistenza greca. Sono presenti, fra le altre personalità, Melina Mercuri, Giancarlo Pajetta, Rosario Bentivegna”.
(Tutto questo per dire chi era Elena Angeloni e quale sia il suo ricordo in Grecia.)
Ci sarebbe molto altro da scrivere, ma viene un momento in cui puntualizzare, rispondere, documentarsi per replicare sembra una fatica inutile.
Chi dovrebbe rettificare ha interesse o intenzione di farlo?
Io, in fondo, lo spero davvero?
I lettori delle mie puntualizzazioni non sanno già come stanno le cose?
Quindi la chiudo qui. A chi è interessato ad approfondire le varie vicende che ho descritto ho già dato abbastanza spunti per cercare altri materiali. A me resta solo l’amara riflessione su un certo modo di fare giornalismo, che ho scoperto riflettersi nella stessa penna in due casi che – per diversi motivi – sento vicini. Del resto Pasolini, in un passaggio meno noto del famoso “Io so”, diceva che “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”. Forse lo stesso può dirsi della prassi giornalistica.
Francesco “baro” Barilli da popoff
Share this: