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«Da Pinelli a Cucchi, 40 anni di morti dietro le sbarre»

Intervista a Valentina Calderone,coautrice con Luigi Manconi del libro “Quando hanno aperto la cella”
Valentina Calderone, laureata in economia, è una collaboratrice di “A buon diritto”, l’associazione fondata da Luigi Manconi nel 2001 allo scopo di promuovere l’esercizio di diritti riconosciuti dal nostro ordinamento, ma non adeguatamente tutelati o il cui riconoscimento viene contrastato o ritardato nei fatti. Ha scritto recentemente con il sociologo ed ex militante di Lotta Continua Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri (il Saggiatore, pp. 243, euro 19,00) con la prefazione di Gustavo Zagrebelsky. Un promemoria drammatico riguardante le tante persone «spesso giovani – scrive il presidente emerito della Corte Costituzionale – che entrano nelle nostre carceri, nelle nostre questure o nei nostri ospedali psichiatrici giudiziari e ne escono morte». La ricerca prende in esame nella prima parte i casi di Giuseppe Pinelli, Franco Serantini, Nanni De Angelis, Salvatore Marino, Federico Aldrovandi, Carlo Giuliani e Stefano Gugliotta. Nella seconda ci sono altre “Tredici storie come tante”, tra le quali c’è quella dell’unica donna presa in esame, Katuscia Favero, e la “morte straniera” di Eyasu Habteab e di Mija Djordjevic. Seguono alcuni dati terribili che gli autori definiscono “Le cifre crudeli” e un glossario sui luoghi e “modi della privazione della libertà” e della vita aggiungiamo noi. Abbiamo chiesto innanzitutto a Valentina Calderone che cosa si prova umanamente prima ancora che politicamente avere di fronte una lista di persone decedute nei modi che conosciamo e morte in luoghi assolutamente istituzionali. «E’ stato un lavoro molto difficile – dice la giovane studiosa – perché la ricostruzione è avvenuta attraverso vari tipi di documenti. A parte le interviste ai familiari, che come è facile immaginare è stato un aspetto del lavoro molto difficile perché c’è sempre il sospetto che tu le stia facendo per un tuo tornaconto personale, c’è tutto il lavoro svolto attraverso gli atti giudiziari e le autopsie che ha comportato l’esame di documenti e foto con tanto di descrizioni minuziose e, nel caso di Mastrogiovanni, di un filmato di qualche ora che lo ha ripreso legato per ottanta ore al letto di contenzione prima che morisse. Da questo punto di vista è stato un lavoro emotivamente forte. La cosa interessante è che ci siamo resi conto di quanto certi fatti siano seriali e di quanto certi comportamenti si ripetano in continuazione».
Per esempio?
La poca trasparenza quando c’è da effettuare una autopsia. I tentativi di depistaggio, la difficoltà ad avere accesso agli atti. Realizzando il libro abbiamo constatato che sono tutte cose che sistematicamente tornavano.
I parametri per valutare lo stato di salute della democrazia sono tanti. Ma certamente la sicurezza dell’individuo all’interno degli ambiti istituzionali che voi avete osservato è dirimente per capire a che punto ci troviamo. Voi avete preso in esame un periodo molto lungo che inizia appunto dal caso Pinelli. Si può attraverso queste storie capire che evoluzione e involuzione c’è stata negli ambienti giudiziari e carcerari e che cambiamento di mentalità nella testa degli esponenti delle forze dell’ordine e non solo?
Da un certo punto di vista la situazione è migliorata perché sono migliorati gli strumenti utilizzati per portare alla luce certe cose e riuscire in qualche modo a contrastarle. Però è anche vero che ci troviamo di fronte ad una estensione del ventaglio delle possibilità in cui si rischia di non avere i diritti garantiti. E infatti un discorso che nel libro abbiamo affrontato particolarmente è constatare come non sia più solamente il poliziotto o l’agente di custodia ad essere artefici di soprusi od altro ma anche il medico e in qualche caso il magistrato. C’è dunque una sorta di connivenza che si sviluppa a più livelli in cui delle figure che non sono predestinate alla sorveglianza si impersonano in un altro ruolo. E questo non dovrebbe succedere. Per esempio in alcuni casi parliamo di trattamento sanitario obbligatorio e quello è un istituto molto pericoloso, nel senso che secondo la legge è concepito per il benessere del paziente, ma all’interno di questa possibilità l’abuso è molto presente come dimostra l’uso della contenzione.
E’ il caso di Mastrogiovanni….
Certo, lì la nipote ad un certo punto era andata a trovarlo all’ospedale e non l’hanno fatta entrare, quando in realtà era un suo diritto. Lei non lo sapeva e dunque non ha protestato più di tanto.
Possiamo dire che dal caso Pinelli in poi le cose sono peggiorate. Allora abusi, torture e uccisioni coinvolgevano chi era impegnato politicamente. Ora chiunque può finire nei guai.
Allora potevano esserci bersagli più politici. Ora questo parametro si sta spostando. Il nemico non è più l’anarchico, ma lo straniero, il tossicodipendente, il marginale in generale. Senza dubbio il tossicodipendente era molto più garantito quaranta anni fa. E il rom era sicuramente visto in maniera diversa rispetto ad ora. Invece in questo momento la stigmatizzazione si opera verso questi soggetti. O anche nei confronti di persone “normali” come è stato per il giovane Federico Aldrovandi, preso per strada e poi morto per puro caso.
Durante il vostro lavoro siete riusciti a far parlare qualcuno di questi aguzzini?
No, in realtà abbiamo deciso di non cercare nulla in quella direzione, anche perché avremmo dovuto farlo probabilmente con dei magistrati. Abbiamo invece deciso di dare loro voce attraverso i documenti che producevano e dunque le memorie difensive piuttosto che gli atti giudiziari. E abbiamo privilegiato il colloquio con i familiari delle vittime o con i loro avvocati. Questo non per produrre una ricostruzione parziale o soggettiva ma perché ci sembrava importante che l’altra parte venisse raccontata da quello che poi veniva prodotto e le dichiarazioni abbiamo preferito lasciarle al lato emotivo delle storie che poi erano principalmente quelle narrate dai familiari.
Come dice Zagrebelsky nell’introduzione, queste vicende non escono mai fuori perché qualcuno dall’interno delle istituzione dice “abbiamo sbagliato”. Questo è un altro elemento che fa riflettere sullo stato della democrazia in Italia.
E’ la cosa più grave perché sarebbe in realtà primario interesse delle istituzioni che queste storie venissero fuori e chiarite. E per questo che nel momento in cui si trovano quelle contraddizioni rispetto alle procedure che si dovrebbero seguire è ovvio che venga fuori il dubbio. Che cosa bisogna pensare se un certo iter non viene rispettato? La verità è che le istituzioni sono nella maggior parte dei casi molto carenti e si chiudono a riccio. Noi citiamo un po’ di dichiarazioni nel libro, fin dal caso Pinelli. Quando morì si disse che si era reso conto di essere in gabbia e dunque quella reazione fu la prova della sua colpevolezza. Così come nel caso di Stefano Cucchi la prova della sua colpevolezza per Giovanardi stava nel fatto che lui era sieropositivo, tossicodipendete, anoressico ed epilettico.
Come se queste caratteristiche costituissero elementi di colpevolezza.
Esattamente. O come nel caso del ministro La Russa che una settimana dopo la morte di Cucchi disse che l’onore dei carabinieri in questa storia non era in discussione quando poi un mese prima c’era stato il coinvolgimento di elementi dell’Arma nello scandalo Marrazzo. Queste sono cose che non fanno bene all’accertamento della verità, non fanno bene alla giustizia e soprattutto non dovrebbero essere pronunciate in un momento in cui ancora non si sa niente. Questo tirarsi indietro preventivo è una cosa che fa male e che poi costringe le donne, perché principalmente sono loro ad avere la forza e il coraggio, a non chiudersi in un dolore privato per aver perso un figlio, un compagno o un fratello, e portare avanti una battaglia pubblica rispetto a quelli che sono i loro diritti.
Vittorio Bonanni da Liberazione