Dagli Stati Uniti alla Germania, si intensifica la repressione contro gli attivisti per il clima
Ad Atlanta il giovane Tortuguita è stato ucciso dalla polizia durante le proteste per difendere una foresta e altri sette sono stati incriminati con l’accusa di terrorismo. Mentre la polizia tedesca ha compiuto un raid contro gli attivisti di Ultima Generazione. A loro difesa sono intervenute anche le Nazioni Unite
di Nicola Villa
Manuel Esteban Paez Terán, un attivista ambientalista venezuelano noto come Tortuguita, è stato ucciso dalla polizia il 18 gennaio scorso ad Atlanta, nello Stato della Georgia, durante le proteste per difendere una foresta che l’amministrazione locale e l’Atlanta police foundation vogliono abbattere per fare posto a un gigantesco centro d’addestramento per le forze dell’ordine. La struttura, ribattezzata “Cop city” ha un costo stimato in 90 milioni di dollari. “Questa tragedia rappresenta un’oscena escalation nella guerra che gli Stati Uniti conducono da decenni contro gli attivisti per il clima”, ha denunciato l’avvocato per il clima Steven Donziger, in un editoriale pubblicato sul Guardian.
Dopo l’omicidio di Tortoguita altri sette manifestanti sono stati arrestati con l’accusa di terrorismo interno (domestic terrorism è la formula prevista dall’ordinamento statunitense). La polizia della Georgia ha dichiarato di essere arrivata nella foresta per “sgomberare” i manifestanti e di aver “risposto al fuoco per autodifesa” quando qualcuno “senza preavviso ha sparato a un agente della Georgia State Patrol“. Una ricostruzione dei fatti ancora tutta da accertare dal momento che le bodycam indossate dagli agenti non hanno registrato nulla e che gli organizzatori della protesta hanno messo in dubbio fin dal primo momento, rifiutando l’idea che ci fossero persone armate tra i manifestanti. Hanno inoltre affermato di aver sentito tutti gli spari provenire contemporaneamente dalla stessa direzione. La tragica morte di Tortuguita poteva, quindi, essere evitata. Decine di poliziotti sono entrati nella foresta, con veicoli blindati, alla ricerca di persone che erano state bollate come “terroristi”, in realtà gli attivisti erano accampati su amache sospese tra gli alberi e in tende come atto di disobbedienza civile.
Quello che è successo ad Atlanta fa parte di una pericolosa tendenza all’escalation di violenza da parte delle forze dell’ordine degli Stati Uniti, dei tribunali e dell’industria dei combustibili fossili nei confronti dei leader del movimento per il clima. Le accuse che vengono rivolte agli attivisti e ai manifestanti pacifici si fanno sempre più gravi fino a raggiungere quella di terrorismo interno, come è successo a Jessica Reznicek, attivista cattolica che sta scontando una condanna a otto anni di carcere e al pagamento di una multa da 3,2 milioni di dollari per aver sabotato la Dakota access pipeline: “Insieme all’attivista Ruby Montoya, Reznicek si è attribuita diversi atti di sabotaggio, che non hanno danneggiato persone o animali, ma hanno bruciato un bulldozer e danneggiato le valvole dell’oleodotto”, scrive The Intercept.
Anche la task force antiterrorismo dell’Fbi ha rivolto la sua attenzione verso i manifestanti che dal 2017 protestano contro l’entrata in funzione della Dakota access pipeline, un oleodotto lungo 1.866 chilometri che collega il Nord Dakota all’Illinois e che può trasportare l’equivalente di 570mila barili di greggio al giorno. Una lotta che vede in prima fila le comunità dei nativi americani, in particolare le tribù Sioux che vivono all’interno della riserva di Standing Rock.
“Nel frattempo, l’industria dei combustibili fossili riempie le casse dei dipartimenti di polizia, come nel caso del pagamento di milioni alle agenzie di polizia del Minnesota da parte della compagnia petrolifera Enbridge, che ha contribuito a finanziare l’arresto dei manifestanti contro la terza linea dell’oleodotto della compagnia”, ha scritto Steven Donziger sul Guardian.
Ad Atlanta -ricorda ancora il legale- ci sono sette persone sul cui capo pende la pensante accusa di terrorismo per essersi impegnate pacificamente con il metodo della disobbedienza civile contro la distruzione dell’ambiente e per la tutela del clima. Il tentativo messo in atto dalle autorità nei loro confronti è quello di collegare il gruppo Defend the Atlanta forest a piccoli atti di violenza (come il possesso di una pistola a pallini) o affermando che uno degli indagati avrebbe commesso un atto di terrorismo perché stava “occupando una casa sull’albero” nella foresta mentre pubblicava un video sui social media.
Il 19 aprile scorso, il medico legale della contea di DeKalb -dove si sta svolgendo il processo- ha reso noti i risultati dell’autopsia sul corpo di Tortuguita, da cui è emerso che, contrariamente alle dichiarazioni della polizia, non c’erano residui di polvere da sparo sulle sue mani. Il giovane, quindi, è stato assassinato per le sue azioni e il suo impegno a tutela della foresta di Atlanta. Il suo nome si va così ad aggiungere al tristemente lungo elenco degli attivisti per il clima e la tutela dell’ambiente -circa 1.700 negli ultimi dieci anni secondo le stime dell’Ong Global Witness– che sono stati uccisi a causa del loro impegno.
Ma non sono solo gli attivisti statunitensi a dover fare i conti con la repressione da parte delle autorità. Mercoledì 24 maggio la polizia tedesca ha fatto irruzione in sette sedi del movimento Letzte Generation (Ultima Generazione) e nelle case di alcuni attivisti, bloccando due conti corrente e ha chiuso il sito internet. La notizia è stata diffusa da diverse testate tedesche e condivisa dalla testata giornalistica indipendente Clean energy wire: “I raid sono stati condotti per conto delle autorità bavaresi con l’accusa di ‘formare o sostenere un’organizzazione criminale’ che stava pianificando ‘ulteriori crimini’ -si legge sul sito-. Due degli imputati sono sospettati di aver sabotato l’oleodotto Trieste-Ingolstadt, considerato un’infrastruttura critica e quindi soggetto a una protezione speciale, nell’aprile dello scorso anno. Non sono stati effettuati arresti”.
Secondo quanto riferisce Clean energy wire, molti commentatori e altri ambientalisti hanno condannato la repressione come una risposta sproporzionata dello Stato a una protesta pacifica. E sulla vicenda si è anche espresso Stephane Dujarric, portavoce del Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres: “Gli attivisti per il clima, guidati dalla voce morale dei giovani, hanno continuato a perseguire i loro obiettivi anche nei giorni più bui. Devono essere protetti e abbiamo bisogno di loro ora più che mai”, ha scritto in un articolo pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ha aggiunto poi che i manifestanti sono stati determinanti in “momenti cruciali per spingere i governi e i leader delle imprese a fare molto di più” e che gli obiettivi climatici globali sarebbero già fuori portata senza di loro.
da altreconomia
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