Dai briganti agli attivisti politici: genealogia storico-giuridica del foglio di via
- maggio 08, 2017
- in emergenza, misure cautelari, misure repressive
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L’evoluzione della logica del sospetto e delle misure di prevenzione personali dalla costituzione dello Stato italiano ai giorni nostri. Passando per il ventennio fascista.
Negli ultimi tempi ha fatto molto discutere l’ampio utilizzo delle misure di prevenzione personali. In particolare il recente, smodato ricorso al foglio di via da parte dell’autorità amministrativa nei confronti di militanti e attivisti politici ha liberato dal vaso di Pandora ombre di un infelice passato che speravamo ormai svanite dalla memoria collettiva. Il riferimento, se non fosse chiaro, è al ventennio fascista e a quel potente strumento di repressione politica che è stato il confino.
Troppe e tali sono le somiglianze tra il confino e le moderne misure di prevenzione personali, nonché tra l’utilizzo di allora e quello odierno, che interesse di questo testo non è spiegare cosa sono e come funzionano queste ultime (se ne è già scritto abbastanza), bensì ripercorrere a ritroso i contesti storico-sociali in cui si sono sviluppate e l’iter legislativo che ha portato alla loro attuale forma. Si vuole fornire una costruzione genealogica evidenziando i contrasti di tali misure con i principi democratici e costituzionali e giungere, infine, ad affermare l’urgenza di una revisione normativa. È questo, del resto, un terreno su cui da decenni si gioca una partita importante rispetto al potere punitivo dello Stato nei confronti del cittadino e ai rapporti di forza tra autorità e individuo.
L’origine delle misure di prevenzione personali come dispostivi punitivi basati sulla condizione di pericolosità sociale e caratterizzati dalla funzione preventiva e dal mancato previo accertamento della commissione di un reato, può essere rinvenuta in una legge del Regno di Italia del 1863, la c.d. Legge Pica (L. n. 1409/1863). Nota per aver introdotto procedure di contrasto al brigantaggio postunitario nel Meridione presentate come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la Legge Pica prevedeva inoltre il domicilio coatto, una sanzione che, per presupposti e modalità applicative, può essere considerarata l’antesignana delle moderne misure di prevenzione personali. Infatti, derogando ai principi di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e di garanzia del giudice naturale previsti agli articoli 24 e 71 dello Statuto Albertino, veniva proposto dalle autorità di polizia e disposto senza necessità di alcun regolare processo o di una condanna per un reato.
Contrariamente a quanto inizialmente previsto dal legislatore, il domicilio coatto entrò stabilmente a far parte dell’ordinamento giuridico con l’emanazione del Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1865 che lo rese applicabile nei confronti degli oziosi, dei vagabondi recidivi e di chiunque fosse sospettato di determinati reati. Nel 1894, un anno prima di essere abrogato, il domicilio coatto, quale strumento di repressione sociale, accompagnò il duro intervento militare voluto da Francesco Crispi per sciogliere i Fasci siciliani dei lavoratori, un movimento di massa composto da braccianti agricoli, minatori e operai, che aveva dato vita in Sicilia ad agitazioni contro l’aristocrazia agraria isolana e i gabellotti mafiosi, rivendicando una più equa distribuzione della terra e migliori condizioni contrattuali. In questo modo, l’ambito di applicazione di tale misura veniva di fatto esteso oltre una generica sfera di emarginazione sociale, colpendo anche i membri delle associazioni che protestavano contro gli ordinamenti sociali.
Dopo l’abolizione del 1895, il domicilio coatto venne reintrodotto nel 1926 con la nuova denominazione di confino. Proprio negli anni del fascismo raggiunse la sua massima espressione come dispositivo di controllo sociale nelle mani delle autorità di polizia, divenendo un agile strumento di marginalizzazione di soggetti sgraditi ai poteri dello Stato ma non punibili attraverso le leggi codificate, come ad esempio gli omosessuali e i transessuali. Gli individui sospettati di ostacolare l’azione del potere esecutivo o di arrecare un danno agli interessi del regime, venivano destinati al confino da uno a cinque anni in località diverse dalla loro residenza, senza passare per alcun accertamento giudiziale. Il confino veniva infatti proposto dal Questore territorialmente competente e disposto discrezionalmente da un’apposita commissione provinciale, privando il destinatario del provvedimento della possibilità di difesa. Già al termine del 1926 erano oltre 900 gli individui al confino.
Nel 1931, con l’entrata in vigore del nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza e del codice Rocco, viene poi esplicitata la funzione di neutralizzazione del dissenso politico, tanto che il partigiano e giurista Paolo Barile parlerà di pena per un reato rimasto nella sfera del pensiero. L’applicazione del confino viene infatti slegata dal requisito della “pericolosità sociale” per essere agganciata a quello della “pericolosità politica“, formalizzando il confino politico in contrapposizione al confino comune. Diviene, quindi, ancor più una misura cardine della gestione poliziesca del regime mussoliniano in quanto in grado di colpire qualunque attività o pensiero avverso all’ordinamento politico fascista. In questa fase le isole minori italiane, quali Ponza e Ventotene, si popolano rapidamente di antifascisti assegnati al confino e diventano bacini della Resistenza, accogliendo personalità che qualche anno più tardi segneranno la storia della prima Repubblica, come Sandro Pertini e Giorgio Amendola.
Nonostante i precedenti storici e la presa di parola di una neo-operativa Corte Costituzionale, che con due sentenze ne aveva ristretto fortemente l’applicabilità alla luce dell’art. 13 Cost., le misure di prevenzione entrano ugualmente a far parte dell’ordinamento giuridico repubblicano nel 1956. Con la Legge n. 1423/1956, infatti, viene velocemente colmato il vuoto normativo derivato dalle sentenze della Corte. In particolare, nel secondo dopoguerra la prevenzione viene posta come un tema strettamente legato all’esigenza di contrasto alle mafie. Un fatto che potrebbe rappresentare un paradosso storico se ricordiamo che poco più di cinquant’anni addietro il domicilio coatto si era abbattuto sui Fasci siciliani dei lavoratori mentre cercavano di combattere i gabellotti mafiosi. La prima guerra di mafia in Sicilia e l’incapacità dello Stato di farvi fronte attraverso l’ordinario processo penale, spingono il legislatore a intervenire con la c.d. Legge antimafia del 1965. Questa prevedeva, tra l’altro, l’applicabilità della misura della sorveglianza speciale agli indiziati di appartenere a organizzazioni criminali.
Da questo momento in avanti sarà un susseguirsi disordinato di interventi normativi, frutto di una politica legislativa emergenziale, che andranno a moltiplicare i meccanismi di limitazione della libertà personale ante-delictum e le relative categorie assoggettabili, lasciando però in ambito amministrativo la loro gestione. È interessante notare come, ancora una volta, la storia sembri ripetersi: anche in questo caso è un “legislatore emergenziale” a introdurre le misure di prevenzione personali, come era capitato nel 1863 con la Legge Pica nella repressione del brigantaggio. Sembra quindi da rinvenirsi nell’ansia securitaria l’origine dell’articolato iter legislativo che ha condotto nel 2011 all’emanazione del “Codice delle leggi antimafia” (d.lgs. 159/2011). Quest’ultimo ha raccolto e riorganizzato la normativa previgente e rappresenta oggi il punto di riferimento per la disciplina delle misure di prevenzione.
A conclusione, si può sostenere che dal Regno d’Italia ai giorni nostri il concetto diemergenza è stato usato come grimaldello per consentire l’entrata nell’ordinamento giuridico di strumenti repressivi ispirati alla “logica del sospetto” e basati unicamente sul requisito della pericolosità sociale, ossia sull’identificazione di un individuo come potenziale autore di reato in forza di meri elementi indiziari e quindi di standard probatori inferiori a quelli che consentono di affermare la responsabilità penale. Alle misure previste dal diritto penale classico sono stati così affiancati congegni che consentono una gestione poliziesca dell’ordine pubblico. Si tratta di una deriva normativa che viola la relazione tra autorità e individuo posta dalla Carta Costituzionale, di un surrogato della giustizia penale che consente di punire chi non sarebbe altrimenti punibile per mancanza delle prove di reità.
Un apparato di repressione ante-delictum che collide violentemente con fondamentali principi costituzionali, tra i quali: il secondo comma dell’art. 13 della Costituzione (in forza del quale non è ammessa alcuna restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge); il principio di tipicità dell’azione penale previsto dall’art. 1 del c.p. e ritenuto corollario del secondo comma dell’art. 25 della Cost. (che prevede la punizione di una condotta esclusivamente qualora integri oggettivamente gli estremi di una fattispecie incriminatrice specificatamente descritta dalle norme penali); il principio dell’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24, co. 2, Cost.); la presunzione di innocenza (art. 27, co. 2, Cost.).
Nonostante gli insanabili contrasti con i principi base dello stato di diritto, ancora oggi si continua a perseverare in una gestione poliziesca dell’ordine pubblico. L’attuale ricorso sproporzionato e arbitrario alle misure di prevenzione personali, soprattutto del foglio di via, e il loro impiego come meccanismo di repressione politica, presenta molteplici punti di contatto con il ventennio fascista. Sembra pertanto urgente intervenire su tale impianto sicur-preventivo per impedire la compressione discrezionale del diritto alla libertà personale e degli altri beni giuridici di respiro costituzionale. È necessario ricomporre la relazione tra individuo e autorità in termini compatibili con un ordinamento democratico, bilanciando gli interessi pubblici con quelli del singolo. Bisogna evitare che il diritto penale diventi uno strumento di controllo sociale e di marginalizzazione.
Tommaso Gianni
da DinamoPress