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Dal mare al carcere

Presentato il report di Arci porco rosso, Alarmphone, Borderline Sicilia e Borderline Europe contro una diffusa criminalizzazione

di Pinella Leocata

Nella sede dei Cobas, su iniziativa della Rete antirazzista di Catania, è stato presentato il report elaborato da Arci Porco rosso, Alarm Phone, Borderline Sicilia e Borderline Europe contro la criminalizzazione degli scafisti. Dalle indagini svolge – anche attraverso i racconti di molti dei 2500 migranti arrestati come scafisti a partire dal 2013 – gli operatori e i ricercatori di queste associazioni sono giunti alla conclusione che i cosiddetti scafisti sono di fatto vittime della tratta e dello sfruttamento dei migranti, sono passeggeri obbligati con la forza o dalle circostanze a prendere il comando di un barchino lasciato alla deriva. Giovani che hanno messo a repentaglio la propria vita per sfuggire a guerre, violenze e miseria vengono accusati e imprigionati anche per il solo fatto di essersi assunti la responsabilità di evitare il naufragio prendendo la guida della barca su cui sono stati abbandonati e dando indicazioni ai compagni di viaggio su cosa fare e non fare per evitare di affogare.

Una criminalizzazione che, secondo l’avv. Filippo Finocchiaro di ASGI Catania, è parte di quella più ampia rivolta contro chiunque esprime solidarietà ai migranti, dalle Ong all’ex sindaco di Riace. A questo concorre anche il diritto penale che considera reato il fatto stesso di essere al timone di una barca, senza interrogarsi sulle circostanze e sulle motivazioni che hanno spinto un individuo a farlo. Di fatto – denuncia la dott. Maria Giulia Fava di Arci Porco rosso Palermo – si cerca un colpevole e lo si fa cercando “testimoni” allo sbarco, cioè in un momento di grande vulnerabilità, soprattutto nei casi di naufragio, quando i superstiti hanno perso parenti e conoscenti. “Testimoni, allettati dalla promessa di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, che poi si rendono irreperibili e non si presentano al processo cosicché la loro testimonianza allo sbarco viene cristallizzata nell’incidente probatorio”. Inoltre le persone accusate di essere scafisti possono contare solo su un avvocato d’ufficio con i limiti che questo comporta soprattutto quando non c’è la possibilità linguistica di comprendersi per l’assenza di mediatori culturali. Di qui le condanne, spesso pesanti, e il conseguente arresto. Pena cui va aggiunta la difficoltà o l’impossibilità di parlare con i parenti e di potere usufruire degli arresti domiciliari in mancanza di una casa in cui stare.

La criminalizzazione continua anche dopo che questi migranti escono dal carcere perché, proprio perché condannati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sono oggetto di decreto di espulsione e finiscono in un Cpr (Centro permanente per il rimpatrio), una sorta di prigione, in attesa di essere rimpatriati. E questo senza che abbiano ricevuto alcuna informazione sulla possibilità di ottenere protezione internazionale o una protezione speciale. Secondo gli avvocati delle associazioni in questione, infatti, l’ordinamento italiano bilancia il diritto alla sicurezza del Paese con quello della tutela della persona per cui anche chi è stato condannato come scafista ha diritto allo status di rifugiato se rischia la persecuzione in caso di rimpatrio.

“I cosiddetti scafisti – concludono – sono tutti vittime della tratta dei migranti perché si trovano in condizione di schiavitù e di sfruttamento. Focalizzarsi su di loro, facendone dei capi espiatori, è un modo per spostare l’attenzione dalle cause di questo fenomeno, cioè dalla tratta dei migranti e dalle politiche di chiusura delle frontiere europee per cui non ci sono più vie legali per la migrazione”.

Drammatica la testimonianza di Cheikh Sene, di Arci Porco rosso, che ha raccontato di essere stato costretto a mettersi alla guida di un barcone dietro tortura. Arrestato e incarcerato non ha potuto contare su una difesa e non ha potuto dare sue notizie ai genitori per sette mesi. Da lui e Richard Braude, sempre di Arci Porco rosso, alcune proposte, alcune delle quali già avviate: creare una rete tra detenuti per lo scambio di informazioni, mettere in contatto chi è in carcere con avvocati immigrazionisti, avviare contatti epistolari con chi è detenuto per alleviarne la solitudine e il dolore, e accoglierli quando escono di prigione.

Non solo. Da Catania, Claudia Gazzini, di International crisis group, ha lanciato un appello per rintracciare qualcuno degli oltre trecento migranti che sbarcarono al porto di Catania il 17 agosto 2015 trasportati da una nave norvegese, che le aveva accolti da una nave militare italiana che li aveva tratti in salvo durante una tragica traversata su una barca di 13 metri dove, sottocoperta, morirono asfissiate 49 persone delle 362 trasportate. Allora, allo sbarco, alcuni testimoni, poi irreperibili, indicarono 1 persona alla guida e altre 7 – tra cui alcuni calciatori professionisti di serie A – come coloro che davano indicazioni su come stare sulla barca e come coloro che distribuivano le bottiglie d’acqua. Per queste sole testimonianze tre di loro sono stati condannati definitivamente a 20 anni e gli altri 5 a 30 anni di carcere per omicidio plurimo colposo e per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A febbraio partirà il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel frattempo si cercano le persone che erano con loro sulla barca nell’ottica di fare riaprire il processo.

da La Sicilia

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