Menu

Dallo stato sociale allo stato penale

C’erano circa 26mila detenuti nelle carceri italiane nel 1990, 35mila l’anno successivo, 47.316 nel 1992. La «Jervolino-Vassalli» sulle droghe e la legge «Martelli» sull’immigrazione erano alla base di quella crescita rapidissima del numero dei detenuti. Come sempre, il carcere rispecchia subito i cambiamenti che si verificano nella società e nella politica. Anche allora, le celle e i cortili dell’aria che si riempivano di detenuti non segnalavano un aumento dei tassi di criminalità, parlavano dell’inizio di una più profonda trasformazione della società e della politica italiana.E poi ci fu Tangentopoli. Ebbe una scarsa rilevanza nella storia delle carceri italiane: nella maggior parte dei casi gli imputati di «Mani pulite» scontarono negli istituti penitenziari solo una parte della carcerazione preventiva, per superare poi la fase del giudizio in detenzione domiciliare e beneficiare delle misure alternative a partire dal momento della eventuale condanna. Ma furono gli esiti della transizione politica che con Tangentopoli si aprì a segnare il destino del carcere. Lo sfaldamento dei partiti di massa determinò una diserzione di gran parte del mondo politico istituzionale dai tradizionali ambiti del pensiero legato al movimento operaio, della dottrina sociale cristiana e socialdemocratica. Nel tempo della globalizzazione, i maggiori partiti della «seconda Repubblica» mostrarono una tendenziale convergenza verso politiche neoliberiste sia in campo economico che sul piano dell’accesso ai diritti sociali e civili. Uno dei principali ambiti di quella convergenza fu rappresentato dal concetto di «sicurezza».Dallo stato sociale allo stato penale: così definirono quel passaggio storico criminologi e politologi. Nella «microcriminalità» si scorgeva ora la forma più pericolosa di devianza anziché quella più legata a situazioni di esclusione sociale, di disgregazione familiare o di disagio psicologico; nei gruppi sociali più emarginati si individuavano le nuove «classi pericolose»; nelle case occupate e nelle baraccopoli sorte ai margini delle città si vedevano «covi di criminalità».Dall’intreccio tra rappresentazione mediatica, strumentalizzazione politica e insicurezza sociale emersero ciclicamente norme e istituzioni «speciali» corrispondenti alla logica dell’emergenza. Ai pacchetti sicurezza e alle ordinanze dei sindaci contro lavavetri e mendicanti si aggiunsero la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la ex-Cirielli sulla recidiva. Il flusso in carcere divenne continuo e ad esso corrispondeva una difficoltà crescente nell’accesso alle misure alternative: esclusi per legge gli autori di reati associativi e di fatto la quasi totalità dei migranti, anche gli altri detenuti facevano i conti con le restrizioni imposte dai magistrati di sorveglianza e con il problema di trovare una casa e un lavoro, che dell’accesso alle misure alternative erano la condizione.Scesi a 39.176 all’indomani dell’indulto del luglio 2006, i detenuti erano già 42mila un anno più tardi, 56mila nel settembre 2008, 64mila nel luglio 2009. Mentre l’opinione pubblica immaginava le carceri come hotel a cinque stelle e i guardasigilli ipotizzavano «piani carceri» utili solo agli speculatori, i letti a castello passavano da due a tre piani, settanta bambini stavano dietro le sbarre, i carrelli con gli psicofarmaci avanzavano nelle sezioni e in quarantacinque si suicidavano nei primi sette mesi del 2009. Nei «celloni» di Sollicciano in dieci sopravvivono in spazi concepiti per tre persone, altrove le direzioni furono costrette a inventare «soluzioni» sempre più surreali: a San Vittore e a Le Vallette i detenuti affollarono anche la palestra; in quello di Trieste è stato istituito un «registro per la rotazione dei materassi a terra», un librone in cui si annotava ogni giorno chi rimaneva senza letto per consentire a tutti di coricarsi su una branda almeno per un paio di notti a settimana. E’ inevitabile che i detenuti trovassero la forza di far sentire la propria voce. Come dimostra la storia di questi giorni.
Christian De Vito
Autore di «Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia», Laterza 2009.