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Dana, i giudici e l’ordine costituito

Dana è stata ritenuta responsabile a titolo di concorso in una violenza privata non materialmente commessa, condannata a una pena esemplare, esclusa da ogni misura alternativa per «avere sfidato l’ordine costituito». Così scrivono i giudici evidenziando una cultura in cui lo scontro sociale è ridotto a questione criminale.

La condanna a due anni di reclusione di Dana e la sua successiva reclusione in carcere sono state oggetto nel corso di queste settimane di numerosi interventi e di denunce provenienti da settori anche molto diversi della società civile. Vorrei provare ad aggiungere, al quadro sin qui ricostruito, alcuni elementi tratti dai provvedimenti emessi nei suoi confronti all’esito dei diversi gradi del processo.

Si è già detto e scritto molto sulle condanne inflitte per la manifestazione tenutasi al casello di Avigliana il 3 marzo 2012, sulle pene sproporzionate irrogate agli imputati, sull’irrisorio danno economico patito dalla Sitaf, la concessionaria che gestisce l’autostrada. Le condivisibili analisi comparse su questo sito (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/09/18/dana-la-vendetta-del-tav/ e https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/09/21/dana-e-gli-altri-il-tentativo-di-spegnere-lopposizione-sociale/) vanno ‒ credo ‒ integrate con alcune osservazioni che spieghino a quale titolo gli imputati siano stati ritenuti responsabili dei reati in contestazione (violenza privata verso casellanti e automobilisti e interruzione di pubblico servizio) e perché una parte di loro sia stata condannata a una pena di due anni di detenzione e altri, invece, a una pena della metà.

1.

La prima questione rimanda all’annosa problematica del concorso di persone nel reato. Su quali basi nell’ambito di una manifestazione di circa 300 persone (secondo le prudenti stime della Polizia) vengono individuati 12 imputati a cui addebitare le condotte di rilievo penale?

L’ho già segnalato in più occasioni (https://volerelaluna.it/societa/2019/07/02/repressione-giudiziaria-e-movimenti-il-caso-torino/ e, da ultimo, https://volerelaluna.it/territori/2020/10/23/giustizia-a-torino-scene-di-ordinaria-repressione/), l’operazione è concretamente e interamente demandata alla Digos, che è in grado di effettuare i riconoscimenti fisionomici dei manifestanti e che, in questo come nella quasi totalità dei casi, è la vera e assoluta “padrona” delle indagini. Il criterio selettivo di fondo è il ruolo giocato nell’ambito del conflitto sociale. La strada per bloccare, disattivare le proteste passa per la scelta di inibire l’attività dei militanti più attivi, quelli che appartengono ai circuiti politici più radicali.

Emblematiche da questo punto di vista sono alcune delle argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado. «Tutti gli imputati – si legge a pagina 15 del provvedimento – devono rispondere, in concorso tra loro e con altri soggetti allo stato non identificati, degli atti di violenza o minaccia posti in essere […] poiché hanno scientemente partecipato alla manifestazione, unendosi ad altre centinaia di persone, ben consci del fatto che il fine della manifestazione era quello di bloccare l’autostrada e di non fare pagare il pedaggio agli automobilisti». «Inoltre – prosegue la sentenza – deve evidenziarsi come l’intimidazione sia stata data, nel caso di specie, anche dall’elevato numero di persone che ha partecipato alla manifestazione: in particolare nei confronti degli automobilisti che transitavano in quel momento al casello di Avigliana». A prendere sul serio queste affermazioni si sarebbe dovuto indagare ad ampio raggio, nel tentativo di identificare il più alto numero possibile di manifestanti, a loro volta consci, per usare le parole del tribunale, del fine della manifestazione e compartecipi, con la sola loro numerosa presenza, dell’intimidazione collettiva verso gli automobilisti. Niente di tutto ciò è avvenuto. Bastano e avanzano dodici imputati, non a caso individuati con i criteri di cui ho detto sopra. Dodici capri espiatori, allora? Forse (René Girard sosteneva il rilievo, nell’ambito delle pratiche sacrificali, dello stereotipo relativo all’appartenenza delle vittime della persecuzione a certe categorie particolarmente esposte, quali le minoranze etniche o religiose: nel nostro caso, verrebbe da dire, i gruppi antagonisti). In ogni caso, dodici imputati scelti per le loro appartenenze politiche, con il duplice intento, intrinseco in ogni forma di repressione giudiziaria, di stigmatizzare l’accaduto e di neutralizzare i loro comportamenti successivi.

A differenza della sentenza di primo grado, che condannava tutti in concorso a due anni di reclusione, quella d’appello scorpora in due tronconi di uguali dimensioni l’insieme degli imputati.

Merita riportare, in sintesi, il percorso argomentativo che ha consentito alla Corte di introdurre tale differenziazione, che si fonda sulla ritenuta responsabilità di quelli appartenenti al primo gruppo per la violenza privata commessa nei confronti dei casellanti, mentre quella verso gli automobilisti viene estesa a tutta la platea degli imputati. Perché sei su dodici rispondono anche della prima violenza privata? Secondo la Corte tale decisione si fonda su due distinti presupposti storici. Anzitutto, la partecipazione «alla fase iniziale dell’occupazione del casello, creando quel clima di concitata confusione che ha contribuito a coartare la volontà dei casellanti», chi forzando le sbarre e bloccandole con nastro adesivo, chi offuscando le telecamere di controllo, chi proferendo l’unica frase ipoteticamente minacciosa rivolta a un casellante («Alza quella sbarra»). Nessuno dei sei imputati condannati, però, viene visto tenere tali condotte o sentito pronunciare minacce: qualcuno si trovava a stazionare vicino all’area del casello, altri tenevano in mano uno striscione, Dana parlava al megafono. In secondo luogo, la partecipazione «alla riunione di Bussoleno, nel corso della quale è stata certamente stabilita la ripartizione dei compiti, e che hanno ricevuto degli incarichi ausiliari, anche non direttamente collegati ai danneggiamenti e alla violenza privata ai casellanti». La Corte non si cura di approfondire cosa sia avvenuto nel corso della discussione a Bussoleno (e dimostra di conoscere assai poco le caratteristiche plurali e reticolari del movimento No TAV e le sue assemblee) né quante persone vi abbiano partecipato. Anzi, in contrasto con le dichiarazioni fatte da due tra le imputate, Dana e F., che hanno sostenuto che si trattò di un’assemblea non di tipo organizzativo, ma politico, in cui si decise la protesta ma non le sue concrete modalità di attuazione, congettura di improbabili «ripartizione dei compiti».

Il paradosso è che poi, nella pessima sentenza della Corte di cassazione, l’aver preso la parola nel processo, per smentire il teorema d’accusa sull’organizzazione dell’evento, trasforma Dana e la sua coimputata in «organizzatori (sic!) della manifestazione» anzi, addirittura, in «portavoce dei manifestanti». E ciò, in forza del «contegno tenuto nel corso della stessa»: cioè, aver portato uno striscione (che viene indicato, con grande sciatteria ricostruttiva, con una scritta sbagliata, posto che vi si leggeva «La valle che resiste» e non «Oggi paga Monti») per F., aver pronunciato qualche frase al megafono per Dana.

Poco conta che entrambe siano arrivate sul luogo degli avvenimenti in ritardo rispetto al gruppo che materialmente eseguì la nastratura delle sbarre del casello e che non sia possibile ipotizzare un concorso postumo nel reato. Poco conta che le loro condotte, di per sé considerate, non siano in alcun modo riconducibili alla violenza privata tenuta nei confronti dei casellanti. Poco conta anche che l’eventuale, e nel nostro caso indimostrata, consapevolezza delle condotte tenute da altri per avere rilievo sul piano giudiziario deve essere accompagnata, come scrivono i giuristi, da un «contributo eziologicamente rilevante nel determinismo dell’evento», cioè da un contributo causale personale, sul piano materiale, morale o agevolatorio, che abbia avuto un qualche significato nello sviluppo della vicenda. Insomma, nell’assoluto silenzio probatorio, l’argomentazione secondo cui chi partecipò all’assemblea era, non solo consapevole dei successivi passaggi cronologici, ma li condivideva e voleva fornire un contributo rilevante agli stessi, appare nulla più che una mera congettura, non fondata su alcuna verifica empirica e perciò inidonea ai fini del sillogismo giudiziario.

2.

Quanto alle pene irrogate, assolutamente sproporzionate se confrontate con quelle normalmente irrogate per lo stesso reato, il ragionamento si fa complesso.

Nonostante il legislatore abbia tentato di orientare le valutazione sul punto dei giudici sulla base di una serie di parametri, riconducibili alla «gravità del reato» e alla «capacità a delinquere del colpevole», il giudizio e la motivazione sulla cosiddetta “dosimetria sanzionatoria”, vale a dire sulla concreta determinazione della pena da infliggere al condannato, restano eminentemente e fortemente soggettivi. La dottrina penalistica li ha, volta a volta, definiti il «regno di intuizioni e impressioni» (Bricola), una sorta di «zona franca» di sovranità intangibile, che si risolve spesso «in una copertura di comodo per qualsiasi arbitraria scelta del giudice» (Dolcini). Per comprendere queste esorbitanti condanne occorre, allora, spostare il fuoco del ragionamento su un altro fronte, che è quello del rapporto, o meglio della cultura, giuridica e non, che la stragrande maggioranza della magistratura, quantomeno torinese, esprime nei confronti del conflitto sociale.

Ho già argomentato in passato su quella che mi sembra una ricorrente tentazione, che si evince da molti provvedimenti giudiziari, di trasformare la complessità dello scontro sociale in mera questione criminale (https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/).

Si potrebbe fondatamente obiettare che il compito di un giudice sia quello di sottoporre a stringente verifica l’ipotesi contenuta in un capo di imputazione, per quanto concerne la sussistenza di un reato, la sua qualificazione giuridica e la sua addebitabilità a un imputato e non di cimentarsi sul terreno dell’analisi politica o sociologica. Ciò non toglie che quando i reati sono collettivi e strettamente connessi alla protesta sociale sia onere del giudice ragionare sul reato, tenendo ben presente il contesto nel quale lo stesso si inserisce e le motivazioni che hanno indotto l’imputato a commetterlo.

L’idea di fondo che ha fatto breccia un po’ ovunque, e che costituisce il portato di decenni di egemonia neoliberista, considera lo stato dei rapporti sociali e produttivi come il portato di un ineluttabile processo naturale, nell’ambito del quale la sola idea di conflitto rappresenta una insopportabile ingerenza. L’idea che trasuda da tanti procedimenti giudiziari avviati in questi anni è quella di una società ordinata, in cui ogni violazione della sicurezza pubblica, intesa prosaicamente come mero ordre dans la rue, deve essere repressa con rigore. Per richiamare l’ordinanza con cui a Dana sono state negate le misure alternative, la partecipazione alla protesta collettiva costituisce «una sfida all’ordine costituito» (c’è scritto proprio così).

E allora, se questa è la sensibilità sul tema, non stupiscono molto le sanzioni sproporzionate applicate agli imputati, la dilatazione concettuale dell’istituto di concorso di persone nel reato, l’interpretazione obsoleta e costituzionalmente opinabile delle fattispecie astratte, che di tale sensibilità sono la logica conseguenza. E, per altro verso, si comprende anche il carattere fortemente ideologico e dogmatico della successiva pronuncia del tribunale di sorveglianza, incardinata sui due pilastri della mancata presa di distanza, da parte di Dana, dagli «ideali politici per i quali non ha mai esitato di porre in essere azioni contrarie alle norme penali» e sul luogo della sua abitazione, che «coincide con il territorio scelto come teatro di azione dal movimento No TAV» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/09/18/dana-la-vendetta-del-tav/).

Da qualche decennio a questa parte l’ermeneutica giuridica si è incaricata di mettere in discussione il modello secondo cui l’attività giudiziaria e, in particolare, l’interpretazione della legge sia astrattamente riconducibile a un ragionamento deduttivo di tipo sillogistico. Sul terreno dell’interpretazione giuridica assume invece rilievo il momento valutativo, vale a dire i giudizi di valore che stanno dietro le decisioni del giudice. La concreta applicazione del testo normativo non si fonda sulla mera riproduzione del significato della norma fissato una volta per tutte dal legislatore, ma vive di interpretazioni evolutive, condizionate appunto dalle rispettive pre-comprensioni del presente e del momento storico in cui si vive. E quali siano la tavola dei valori e la visione del mondo espresse dai provvedimenti giudiziari che hanno giudicato Dana dovrebbe essere a questo punto abbastanza chiaro.

Claudio Novaro

da Volerelaluna