Il Daspo è solo l’inizio. Gli ultras come cavie per fermare i movimenti
Le misure di prevenzione consentono all’autorità amministrativa di limitare la libertà delle persone a prescindere da una sentenza. La sperimentazione è avvenuta sugli ultras. Poi si è spostata sugli attivisti, dal diritto alla casa ai No Tav con tre dispositivi che stanno prendendo sempre più piede: daspo, avviso orale e sorveglianza speciale.
Tutto è iniziato dentro gli stadi: il daspo, acronimo che sta per “divieto di accesso alle manifestazioni sportive”, è una misura di prevenzione atipica. La sua caratteristica principale è quella di potersi applicare a persone che “versino in situazioni sintomatiche della loro pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica” prescindendo dall’avvenuto accertamento giudiziale della responsabilità. «La sperimentazione effettuata con il Daspo – spiega Cesare Antetomaso di Giuristi democratici – ha trovato terreno fertile per il disinteresse dell’opinione pubblica sui “diritti” degli ultras».
Il Daspo è uscito dagli stadi e oggi, grazie ai decreti Minniti-Orlando prima e Salvini poi, è indifferentemente usato per mendicanti e spacciatori, sex workers e writers, per vietare accessi a quartieri e città o addirittura a ospedali e discoteche. Ma il vero obiettivo sono soprattutto manifestanti e attivisti.
Contro di loro è tornato contestualmente in auge lo strumento dell’avviso orale: fino al 2011 aveva validità fino a 3 anni. Col nuovo codice antimafia è a vita ed «è molto spesso usato – spiega l’avvocato penalista Francesco Romeo – come “precedente” per comminare la sorveglianza speciale, dispositivo che di fatto vieta la partecipazione di un attivista alla vita politica, quella fatta di piazze e proteste».
Può la giustizia agire in maniera preventiva? È accettabile limitare le libertà delle persone prima che queste abbiamo commesso un reato? Soprattutto: la presunzione di innocenza vale ancora? E ancora: cosa si intende, in Italia, per “soggetto pericoloso”? Domande centrali e tutt’altro che retoriche che hanno trovato le resistenze, recentemente, della Consulta che in due pronunciamenti, il numero 24 e il 25 del 2019, ha ritenuto le misure di prevenzione personale costituzionalmente valide, chiudendo così in un cassetto la sentenza del 2017 della Corte di giustizia Ue che le definì non in linea con i princìpi europei.
Daniele Nalbone
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