Decreti sicurezza, diritto penale del nemico, criminalizzazione del dissenso
- novembre 16, 2020
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Dopo mesi di tergiversazioni il governo giallorosa ha approvato le modifiche ai decreti sicurezza a firma di Salvini. Le modifiche prevedono il ripristino del permesso umanitario chiamato “permesso speciale” e del sistema di accoglienza diffuso “Sprar” per tutti i richiedenti asilo e non solo per rifugiati e minori. Sono stati ridotti i tempi di trattenimento nei centri per il rimpatrio da 180 a 90 giorni, mentre rimangono in piedi le multe per le navi ong, anche se il decreto di modifica prevede una diminuzione della sanzione pecuniaria, e la trasformazione della violazione del divieto di ingresso da reato amministrativo a penale. I tempi per la cittadinanza passano dai quattro anni a tre anni. Ulteriori norme inserite nell’articolato su “immigrazione, sicurezza e accoglienza” prevedono l’arresto immediato e direttissima per chi arrechi danni a un centro di permanenza e rimpatrio e il potenziamento dell’istituto del Daspo, rendendo possibile per il Questore l’applicazione del divieto di accesso nei locali pubblici anche nei confronti dei soggetti che abbiano riportato una o più denunce o una condanna non definitiva, nel corso degli ultimi tre anni, relativamente alla vendita o cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Inoltre, si interviene sul trattamento sanzionatorio conseguente alla violazione del divieto, prevedendo, in particolare, la pena della reclusione da sei mesi a due anni e la multa da 8.000 a 20.000 euro.
Rimangono, invece, tutte invariate le nome a riguardo la repressione e criminalizzazione delle lotte sociali. Voglio segnalare solo i più importanti articolo contenuti dei decreti sicurezza a firma di Salvini che non hanno subito nessuna modifica e rappresentano un incremento della repressione di condotte connesse con il conflitto sociale:
– il ripristino in toto del reato di blocco ferroviario e stradale (già previsto dal decreto legislativo 22 gennaio 1948 n. 66 e parzialmente depenalizzato nel 1999), con pena da uno a sei anni di reclusione, raddoppiata se il fatto è commesso da più persone, cioè sempre in caso di manifestazioni, con l’esclusione, introdotta in sede di conversione, della sola ipotesi di «ostruzione stradale realizzata con il solo corpo», punita peraltro, anche per promotori e organizzatori, con la sanzione amministrativa da 1.000 a 4.000 euro;
– l’aumento generalizzato e abnorme delle pene (in toto o nei minimi) per i reati di interruzione di pubblico servizio, oltraggio a pubblico ufficiale, danneggiamento, devastazione e saccheggio, uso di caschi o di altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento, lancio di razzi, fuochi di artificio, bastoni o oggetti contundenti se commessi nel corso di manifestazioni (a titolo di esempio, per il danneggiamento, anche minimo, è prevista la pena da uno a cinque anni di reclusione e per l’oltraggio a pubblico ufficiale quella da sei mesi a tre anni);
– l’esclusione della possibilità del proscioglimento per particolare tenuità del fatto nei casi di resistenza, violenza e oltraggio (reati ricorrenti nelle manifestazioni di piazza) se commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni;
– l’aumento abnorme delle pene stabilite per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici commesso da più di cinque persone (cioè sempre nelle occupazioni “politiche”), con previsione della reclusione da due a quattro anni e con un ulteriore aumento per «promotori e organizzatori» (nonché con la possibilità di procedere finanche a intercettazione di conversazioni o comunicazioni).
Il fatto di non aver abrogato nulla delle norme repressive contenute nei decreti sicurezza dimostra che per il governo è necessario mantenere e rafforzare l’apparato repressivo in grado di colpire tutti coloro che possono dissentire con le politiche governative, soprattutto in questa fase che in cui la crisi diventa sempre più insopportabile per milioni di uomini e donne. Inquietante, a riguardo, è la flebile opposizione da parte dei sindacati confederali con il segretario generale della Cgil Maurizio Landini che dichiara , persino, che la modifica del decreto sicurezza “va nella direzione giusta”[1]
Tutto questo avviene mentre la crisi del sistema economico capitalista, accentuata dalla pandemia, avanza sempre più, peggiorando e restringendo gli spazi di agibilità politica e sindacale. Da anni nel nostro paese i vari governi che si sono succeduti non hanno fatto altro che dare più potere e libertà di manovra ai padroni e alle società finanziarie e bancarie. Leggi come il Jobs Act, lo Sblocca Italia, la Buona Scuola, la criminale legge Fornero che ha allungato l’età pensionabile, i continui tagli alla sanità, alla scuola, all’assistenza sociale, alla salvaguardia dell’ambiente insieme ai processi di privatizzazioni dei settori dell’industria e dei servizi hanno profondamente peggiorato la vita di milioni di persone. In questo quadro di attacco complessivo ai lavoratori e alle classi sociali più deboli, continua a prendere forma uno stato di assedio diretto dal governo e dalle sue misure sicuritarie costruite nell’ottica di governare qualunque processo di opposizione a questo stato, e tradotto in pratica da Questure e Prefetture di tutta Italia. Una repressione a tutto campo che colpisce diritti civili e sociali. Un’offensiva repressiva condotta contro ogni forma di socialità che provi ad uscire dall’ottica di mercato o che comporti anche solo una minima forma di opposizione.
Quindi, oggi, dentro la crisi sociale ed economica e l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19, stiamo tornado ai periodi in cui le classi subalterne non avevano alcun diritto, anche se formalmente si continua a recitare la commedia della democrazia. All’emergenza sanitaria e all’insicurezza sociale si risponde con un ipersviluppo delle politiche sicuritarie e di controllo sociale. Di fatto diveniamo l’oggetto e i il soggetto di tali politiche. La paura giustifica l’arruolamento volontario e l’attenzione nei confronti di un dispositivo sicuritario. Si è “reclusi” e “guardiani” contemporaneamente e il “sicuritario” è una creatura che vive e cresce nello stato di eccezione che si presenta come il miglior paradigma di interpretazioni delle forze più avanzate della governance contemporanea. Ed in questa, fase attraversata da rigurgiti nazionalisti e dai populismi, i sistemi democratici sono sempre meno titolati di consenso popolare e in contesti simili la storia ci insegna che il potere si tutela restringendo gli spazi di agibilità politica e sociale.
Il rapporto “Civicus”[2]del dicembre 2019 afferma che in Italia vi è una forte restrizione dello spazio di agilità politica e le lotte sociali sono sempre più viste come una minaccia e vengono affrontate con un misto di criminalizzazione mediatica e pugno di ferro nelle piazze e nei tribunali. Migliaia di persone che si trovano a lottare per difendere il proprio posto di lavoro e contro la precarietà, per il diritto all’abitare, allo studio, per adeguate strutture sanitarie pubbliche, in difesa dell’ambiente e dei territori sono sottoposti a procedimenti penali o colpiti da misure restrittive.
In vista di un futuro sempre più grigio, difficile e conflittuale, per smorzare le lotte o per colpirle duramente, il potere repressivo ridefinisce le categorie del “nemico pubblico” contro il quale mobilitare tutte le forze disponibili. In questo senso la repressione non è più uno strumento squisitamente giudiziario e poliziesco, ma prende forma e peso da una deliberata e articolata scelta politica che coinvolge politici, governanti, magistratura, forze dell’ordine, media e cittadini. Sui giornali, in Tv e sui social domina la narrazione della guerra (guerra al Covid-19, al terrorismo, alla criminalità, al clandestino…). L’ideologia della guerra si fonda sulla contrapposizione amico/nemico e cosi qualsiasi dissenso, manifestazione sono narrate nei termini del nemico da eliminare. Alla costruzione del nemico consegue sul piano giuridico un vero e proprio “diritto penale del nemico” dove non si punisce per un eventuale reato compiuto ma bensì a una ipotetica pericolosità in base all’appartenenza politica e sociale.
Anche in materia di agibilità sindacale nei luoghi di lavoro le legislazioni vigenti in Italia non sono certo tra le più garantiste e democratiche. Nei luoghi di lavoro, i codici etici e di comportamento hanno annullato il diritto di critica dei subordinati verso il datore di lavoro, pubblico o privato non fa differenza, la costante minaccia del provvedimento disciplinare, o del licenziamento, ha creato un clima di paura e di rassegnazione, le riforme giuslavoriste hanno favorito il potere padronale sui subordinati, una volta licenziati al massimo si può ottenere un risarcimento economico di poche mensilità ma senza tornare più nel luogo di lavoro.
Anno dopo anno e giorno dopo giorno, abbiamo assistito, quasi inermi e lobotomizzati, alla frantumazione della nostra Costituzione e, di conseguenza, al rapido declino di quel poco che resta della nostra sempre più malata democrazia. Gli spazi democratici di dissenso e di pensiero critico stanno rapidamente evaporando, dalla scuola dell’alternanza ai luoghi del lavoro precario e sfruttato, lasciando via libera e campo aperto al trionfo della violenza, della stupidità e dell’obbedienza. Stiamo assistendo ad una costante e dolorosa svolta regressiva della nostra vita associata. Il ventennio di politiche liberiste e di austerità, portate avanti dai governi di centrosinistra e centrodestra e dai governi tecnici, ha creato uno spaventoso vuoto che ha inghiottito ogni possibilità e credibilità di una democrazia progressista; in tale buco nero, si è inserito il populismo sciacallo e xenofobo della Lega nazionalista e il populismo ondivago e qualunquista del M5S. La gestione repressiva dell’insicurezza e della marginalità sociale appare, quindi, come l’altra faccia della medaglia delle politiche neoliberiste: privatizzazioni, liberalizzazioni, precariato. L’agonia dello Stato sociale va di pari passo con l’ipertrofia dello stato emergenziale.
Un processo che negli anni ha chiuso gli spazi di mediazione decretando di fatto il passaggio dallo stato sociale allo stato penale. La mediazione sociale si nutre, infatti, di spesa pubblica, è incarnata da investimenti pubblici e istituti di welfare (pensioni, sanità, istruzione, edilizia popolare, strumenti di supporto al reddito, ecc), che danno concretezza all’esigibilità di diritti. Tagliare la spesa pubblica vuol dire esplicitamente tagliare i margini di mediazione sociale, aumentare le disuguaglianze, impoverire chi ha un lavoro, bloccare l’ascensore sociale, condannare larghe fasce di popolazione a restar per sempre fuori dal cerchio del (relativo) benessere.
Mediazione sociale e repressione “regolamentata” sono andate di pari passo in tutta la storia del dopoguerra. La conquista di diritti esigibili è stata pagata con centinaia di morti nelle piazze e non. La repressione del conflitto si è a sua volta evoluta da “generalizzata” (verso tutte le manifestazioni di dissenso) a “selettiva” (prendendo di mira soprattutto le avanguardie politiche, a cominciare ovviamente da quelle più radicali). La democrazia reale non è stata per niente un paradiso, come sappiamo. Ma si era riusciti a costruire – sulla base di rapporti di forza politici e sociali ora perduti – un ambito, spesso ristretto ai minimi termini, in cui l’esercizio del conflitto veniva riconosciuto e possedeva una legittimità anche per la controparte; ed in cui la repressione – anche quella più estrema – doveva essere contenuta, se non altro per salvare la faccia con le forme esteriori della democrazia. Ora non più. Quell’epoca è definitivamente finita.
Dal 2007 ad oggi l’apparato punitivo statale si è affinato esasperando il controllo, decretando nuove restrizioni liberticide. Sono ormai più di 30.000[3] i procedimenti penali aperti negli ultimi anni contro attivisti e militanti dei movimenti di lotta (arresti, misure restrittive, denunce, processi, multe, provvedimenti speciali, divieti di dimora, fogli di via, sorveglianze speciali), frutto di nuove norme e leggi speciali che hanno trasformato la repressione in ordinaria amministrazione. Numeri che ci mettono difronte alla più profonda cecità della politica verso le rivendicazioni sociali.
Il “meno Stato” sociale, il minor interventismo economico sembra richiedere “più Stato” poliziesco e penale, le politiche repressive appaiono come il pendant, in materia di “giustizia”, di quelle liberiste in campo economico. L’abbandono del diritto alla sicurezza sociale, per non parlare del diritto al lavoro (a tempo pieno ed indeterminato, con le garanzie previdenziali e sociali, e con un salario dignitoso), ha come corrispettivo l’ossessiva riaffermazione del “diritto alla sicurezza”. Il nuovo “diritto penale” deve produrre soggettività, e l’esecuzione di questa produzione consiste nella misera esistenza dell’escluso, del povero, del represso.
Oggi uno Stato democratico non è più libero di essere anche uno stato sociale. La costituzionalizzazione in Italia del pareggio di bilancio è la visualizzazione plastica della fine del novecento. Se questo è lo Stato oggi, la penalità resta l’ultima frontiera di sovranità. Il potere di punire è quel che resta della sovranità. Lo Stato sovrano, dissanguato e devitalizzato dal Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Banca Centrale Europea, ha trovato nel potere punitivo l’ultima sua ancora di salvezza. Questa gestione della società non ha alcun obiettivo di risanamento e neanche di tamponamento dei malesseri e problemi sociali; al contrario si occupa appunto di fare di tutto perché non si parli dei veri problemi provocati dallo stesso sviluppo liberista: non si parla mai delle vere cause della riproduzione del sommerso, della precarietà, dell’incertezza, del degrado anche materiale dei luoghi di lavoro e di abitazione del popolo delle “nonpersone”; non si parla delle violenze che quotidianamente subiscono le ragazze a nero e precarie da parte di padroncini, capetti e caporali, del lavoro minorile e di tutte le altre tremende vicissitudini che affliggono buona parte dell’umanità anche nei Paesi ricchi. E cosi difronte al dissenso cerca di salvare se stesso criminalizzando il conflitto sociale e incarcerando sovversivi e marginali.
Allora se vogliamo dare di nuovo legittimità alle lotte e al conflitto sociale bisogna innanzitutto scardinare l’impalcatura giustizialista e emergenziale costruita negli ultimi decenni. Non c’è critica all’attuale società capitalista che possa aver successo senza una contemporanea messa in discussione dell’apparato penale che lo sostiene. Se vogliamo cominciare a capovolgere questa situazione è arrivato il momento che al fianco delle lotte sociali e vertenze territoriali nasca un movimento antipenale, perché senza un reale cambio di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà mai a dare legittimità alle lotte sociali e tutte le vertenze avrebbero sempre le ali piombate.
La lotta alla repressione risulta efficace quando non è esclusivamente “difensiva” ma riesce a produrre una dimensione “affermativa”, contribuendo a costruire legittimità alla pratiche di conflitto, oltre a favorire la loro diffusione e riproduzione. Chi piange sulla repressione dipinge una controparte invincibile e infallibile. Ma chi lotta sa bene che l’avversario non è né invincibile né infallibile, al contrario è spesso meno potente e compatto di quello che noi pensiamo. Allora se non vogliamo essere stritolati, dobbiamo trasformare le politiche repressive in un campo di battaglia. Dobbiamo attaccarli, disarticolarli, romperli. Dobbiamo affermare il coraggio della rottura. Solo a partire dal coraggio della rottura gli altri livelli che possiamo mettere in campo diventano funzionali ed efficaci.
Una campagna di garantismo radicale e il coinvolgimento di figure diversificate può essere messa al servizio di un processo di attacco. Le lotte, le resistenze, le insubordinazioni di mille latitudini che hanno saputo mettere in difficoltà l’architettura repressiva, sono a mio avviso, una sintesi vincente tra analisi e lotta, sapere tecnico e tattico, patrimonio storico dei movimenti e esigenze del presente. Per questo è necessario analizzare la composizione e l’evoluzione dei dispositivi di potere che hanno determinato le diverse svolte repressive, evidenziando di volta in volta punti di forza e debolezze. Coniugare l’aspetto “difensivo” con l’aspetto “propositivo” dell’azione di resistenza, comunicare in maniera allargata l’esigenza di combattere le dinamiche repressive, “accerchiare” sia dentro che fuori l’universo sicuritario, cercare di mettere in discussione l’assetto dei rapporti di forza che il potere vuole cementare. Tocca a noi attivarci e serrati i lacci delle scarpe, camminare con la consapevolezza nelle strade delle lotte.
Italo Di Sabato – Osservatorio Repressione
articolo scritto per il mensile Lavoro & Salute
Note:
[1] https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/dl_sicurezza_landini_la_modifica_va_nella_direzione_giusta
[2] https://monitor.civicus.org/
[3] https://documentcloud.adobe.com/link/file/?x_api_client_id=shared_recipient&x_api_client_location=view&uri=urn%3Aaaid%3Asc%3AUS%3A5ca83db5-a683-4dc8-a199-996e599df40f&filetype=application%2Fpdf&size=354283