Decreto sicurezza e la (in)sicurezza del Lavoro
- agosto 26, 2019
- in misure repressive, Rete Dissenso
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Il contributo di Luca Greco al convegno “Lo stato penale di polizia: modello di gestione dell’ordine sociale e programma politico in atto”, che si è tenuto a Genova il 19 luglio 2019
Parlare degli effetti del Decreto Sicurezza significa anche parlare di lavoro. Per farlo in maniera compiuta, occorre partire dal recente passato.
- 2014. Il Ministro Poletti elimina le causali nei contratti a termine: per 36 mesi i lavoratori e le lavoratrici sono legati ad un possibile rinnovo. Sono deboli e perciò ricattabili. Viene liberalizzata la precarietà.
2015 e 2016. Gli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato legate al Jobs Act fanno aumentare i contratti stabili creando una bolla assunzionale. Le aziende assumono oltre il necessario: gli sgravi (8.000 Euro all’anno per tre anni per ogni nuovo assunto nel 2015, poco più di 3.000 Euro per gli assunti nel 2016) sono a pioggia e non sono legati al mantenimento di quei posti di lavoro. Tanto questi lavoratori e queste lavoratrici sono licenziabili: non hanno diritto all’eventuale reintegro, ma solo a dei soldi. L’INPS ci comunica che in questo periodo aumentano i licenziamenti per motivi disciplinari. L’effetto degli sgravi è invece una riduzione delle risorse al servizio sanitario nazionale.
2017: finiti gli sgravi, finiscono anche le assunzioni a tempo indeterminato. Ancora l’INPS ci segnala che tornano ad aumentare i contratti a termine.
- 2018. Con il decreto dignità cala la durata massima dei contratti a termine (da 36 a 24 mesi), calano le proroghe possibili (da 5 a 4), viene reintrodotta la causale. Continuano gli sgravi alle imprese. Non viene reintrodotto l’articolo 18 ma vengono reintrodotti i voucher.
Emerge una continuità nel pensiero dei governi dal 2014 ad oggi: rendere il lavoro sempre più precario, togliendo diritti e tutele. Le scelte, passate e presenti, non fanno altro che confermare questo percorso: sgravi e liberalizzazioni hanno gonfiato il mondo del lavoro, ora le nuove regole stringono il cerchio. I tempi determinati non verranno rinnovati non più dopo 35 mesi, ma dopo 23. I dipendenti a tempo indeterminato assunti dopo il 2015 hanno tutti perso il diritto al reintegro. Reintegro che questo governo non ha reintrodotto.
Perché il lavoro non si crea per Legge.
Ma esiste una categoria di lavoratori e di lavoratrici ancora più colpiti da questo meccanismo perverso: quelli che lavorano nel settore accoglienza, che hanno a che fare con i migranti.
Il “Decreto Salvini”, in un colpo solo:
- distrugge il sistema di accoglienza diffusa che alcuni sindaci della provincia – Argenta, Cento e Ferrara – avevano scelto come strumento di gestione dei flussi migratori;
- trasforma i CAS (Centri Accoglienza Straordinaria) in enormi agglomerati umani dove verranno stipate le persone. Le criticità di questo sistema verranno solamente amplificate;
- limita le richieste di asilo, ma non aumenta le possibilità di rimpatrio che è legato ad accordi bilaterali fra gli Stati che ad oggi non ci sono;
- dimezza i finanziamenti per la gestione di questi servizi, eliminando ogni possibile percorso di integrazione;
- rende illegali persone che fino ad oggi avevano intravisto nell’integrazione una possibilità di riscatto;
- aumenta l’illegalità e con essa, la possibilità, di avere una platea più ampia di “nuovi schiavi” da sfruttare. D’altronde, mafia, sfruttamento e caporalato nascono e crescono proprio dove mancano i diritti.
Se a tutto questo sommiamo le nuove regole del mondo del lavoro descritte prima per sommi capi, abbiamo come risultato che, nel paese, circa 22.000 persone – italiane, bianche, giovani, professionalizzate – perderanno il posto di lavoro.
Alla faccia del “prima gli italiani”.
Alla faccia della abolizione della povertà.
Il grande assente di oggi è la politica. In parte anche quella sindacale. Ad oggi nessuno ha denunciato e si è fatto carico delle crisi occupazionali che il “governo del cambiamento” ha creato e sta creando. E nemmeno della disintegrazione del mondo del lavoro operata dai governi precedenti.
Renzi e Di Maio, proprio come Minniti e Salvini, altro non sono che due facce della stessa medaglia: i primi pensano che il lavoro si possa creare per decreto; gli altri che repressione – in Libia o in Italia poco importa – faccia rima con sicurezza e integrazione.
Tutto questo si intreccia con un altra problematica, che è quella relativa alla rappresentanza. Questi lavoratori e queste lavoratrici sono i primi a non rendersi conto del loro essere sfruttati. Hanno talmente introiettato l’idea che il lavoro non sia un diritto ma una concessione, che pensano di non avere diritti, ma solo doveri. Molti di loro non vedono nel sindacato uno strumento di lotta collettiva e a questa preferiscono la ricerca della propria tutela individuale. Nella quale risultano alla fine perdenti. Questo penso sia il problema centrale che tutti dovremmo porci: come riportare al centro della discussione pubblica e politica sia la dimensione collettiva dei diritti che la necessità di lottare a difesa degli stessi. In questo senso penso sia particolarmente illuminante la traccia di questo convegno. “La regola dell’eccezione: lo stato di polizia, un metadispositivo di controllo e disciplinamento. Tra panottico carcerario ed economia della sorveglianza, procedure di militarizzazione e strutture di apartheid” rimanda infatti direttamente a Walter Benjamin ed alle sue tesi di filosofia della storia. In particolare nella tesi otto si legge:
“La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”.
Questo è lo spirito con cui combattere il fascismo: pensarlo non come una fase storica transitoria e per certi versi “necessaria”, ma come un momento eccezionale che va combattuto con forme e strumenti eccezionali.
Luca Greco
FP CGIL di Ferrara