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Il “delitto di rivolta” del Governo, uno schiaffo allo Stato di diritto

In materia di sicurezza il Governo va avanti per la sua strada, lastricata di violazioni allo Stato di diritto. E va avanti nonostante le dure e circostanziate obiezioni giunte da organismi internazionali come l’Osce.

di Patrizio Gonnella da il manifesto

Il Ddl Sicurezza in discussione alla Camera è un vaso di Pandora che va scoperchiato. Tra le tante norme in esso presenti che criminalizzano il dissenso, colpiscono gli immigrati, puniscono i poveri ve ne è una che costituisce un attacco alla democrazia costituzionale. Si tratta del nuovo delitto di rivolta penitenziaria. Nonostante in Aula il Governo lo abbia riformulato resta intatto rimpianto illiberale, violento, antisociale.

Sono puniti con pene elevatissime coloro che, in un carcere o in un Cpr, partecipano a una rivolta con violenza, minaccia o resistenza agli ordini impartiti. Non si definisce cosa è la rivolta ma si punisce chi vi partecipa, seppur passivamente. E si definisce la resistenza passiva come l’impedimento di ordini finalizzati a garantire l’ordine e la sicurezza, le due magiche parole che giustificherebbero la nuova ondata repressiva.

Si tratta di una norma, così truce, alla quale neanche Rocco, giurista del regime fascista e autore del codice penale del 1930, aveva pensato. É una norma che in primo luogo difetta del principio di tassatività delle condotte materiali costituenti reato: non si capisce quali sono le azioni violente o nonviolente che determinano il meta-delitto di rivolta. Ogni atto di violenza o minaccia o di resistenza attiva è infatti già perseguito dal codice penale. Cosa li trasforma in rivolta?

Non è dato sapersi. Ma è anche una norma che viola in modo plastico il principio di offensività, in base al quale si possono prevedere delitti solo se ledono beni o interessi costituzionalmente rilevanti. Non si capisce quale sia il bene offeso da una protesta nonviolenta.

La punizione di chi in forma nonviolenta disobbedisce a un ordine qualsiasi di un agente, trasforma quest’ultimo in un despota da cui dipenderà la sorte del detenuto, che lo si vorrebbe trasformare in un uomo obbediente costretto a camminare a testa bassa, come nella Ronda dei Carcerati di Van Gogh o nelle immagini delle presunte torture del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Trasformare chi protesta, finanche pacificamente, in un rivoltoso punibile sino a otto anni di galera significa violare la libertà di pensiero, il diritto di critica e subordinare il tutto a generiche esigenze di ordine e sicurezza. Non è stato neanche scritto che l’ordine debba essere legittimo. Di fronte alle tensioni che vi sono state nelle carceri in estate, come nella migliore tradizione, spunta l’arma della repressione e non della comprensione e dell’ascolto. I rischi che potrebbero derivare dalla nuova norma sono enormi.

Provo ad esemplificare. Caso A: tre giovani ragazzi detenuti non escono dalla cella di fronte alla richiesta di essere portati in isolamento. Caso B: tre detenuti si rifiutano di mangiare o bere per uno sciopero della fame o della sete. Caso C: tre detenuti si rifiutano di smettere protestare con la battitura delle celle. Tre casi di ordinaria vita detentiva che da ora in poi sono trasformati da richieste di aiuto o ascolto in delitti.

La norma si spera in un futuro non passerà le porte della legittimità costituzionale. Nel frattempo chiunque abbia a cuore lo Stato di diritto – giuristi, penalisti, costituzionalisti, politici liberali o progressisti – esprima la sua protesta e indignazione affinché il Governo torni sui suoi passi. Quelli finora solcati ci avvicinano alle democrazie illiberali e ci allontanano da chi ha dato la vita e la libertà per gli articoli 13 e 27 della Costituzione.

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