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Demolire l’immagine degli Ultras per contrastare le potenziali conflittualità sociali

«I cani da guardia sono come certi sfruttati
a cui danno una divisa, un grado e il potere del sopruso:
si trasformano in fedeli servitori di chi li tiene alla catena,
e spesso diventano più feroci di quanti sono
da sempre abituati a esercitare il potere»
(In ogni caso nessun rimorso, Pino Cacucci)

 

fiorentina-napoli1314CoppaScontriVerso la fine degli anni ’80, precisamente il 13 dicembre del 1989, viene varata in Italia la legge n. 401. Con questo passaggio di non poco rilievo, il legislatore interviene “nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine e tutela della sicurezza nello svolgimento di competizioni agonistiche”, partorendo un particolarissimo dispositivo denominato D.A.SPO. (Divieto di Accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni SPOrtive). Un espediente giuridico gravidato sulla scorta delle misure di prevenzione. Il D.A.SPO., ossia la cd. “diffida”, così come l’obbligo di “comparire personalmente una o più volte negli orari indicati, nel (…) comando di polizia competente in relazione al luogo di residenza dell’obbligato(…), nel corso della giornata in cui si svolgono le manifestazioni” per le quali è disposto il divieto, rivestono natura di misure di prevenzione “atipiche”.

Questo brevissimo excursus dipana la strada ad una serie di perplessità, se rapportato alla incombenza della limitazione in punto di libertà personale e di circolazione derivante dalle dette misure; tant’è che queste ultime si configurano per il fatto di essere strumentali ad un vivisezionamento pregresso da parte di un assetto congiunto di poteri tra loro interdipendenti, cioè l’asse legislativo-mediatico-giudiziario. Nel senso che la irrogazione delle limitazioni de quo, o meglio la cd. diffida, di cui la cd. “firma” costituisce soltanto un quid pluris, è subordinata ad una settarizzazione sociale, giacché l’esistenza di una precisa categoria di persone che aderisce ad una data subcultura, gli ultras, rappresenta per l’interprete il presupposto sintomatico ai fini dell’applicazione dei provvedimenti inibitori. Una dinamica socio-giuridica che mette in luce gli intenti anomali che la legge in esame sottende.

In Italia, sulla base di quanto accaduto illo tempore in Inghilterra, vi è sempre stata un’attenzione particolare nei riguardi del movimento ultras. Fondamentalmente assecondando l’atavica logica ultralegalitaria ossessionata dall’ordine pubblico, e volta a destituire di ogni fondamento le pratiche autorganizzative di matrice curvaiola che sfuggono al controllo dello Stato. Come Valerio Marchi ha avuto, tempo addietro, la sensibilità di intuire: in curva ciò che va prendendo forma in occasione della partita è in tutto e per tutto una Zona Temporaneamente Liberata continuamente in itinere, ovvero un palcoscenico di conflitti e di aggregazioni comunitarie proiettate al confronto.[1] «Folli, devianti e criminali di ogni tipo sono votati dalle logiche dell’ordine a un rigoroso mutismo, e quando rimane una fragile traccia della loro esistenza, sarà solamente quella che l’autorità o l’istituzione avrà registrato per assicurarsi una presa su questi corpi ribelli».[2]

Per gli ultras, la cui etimologia ha evidenti accezioni estremistiche, e per l’attitudine allo scontro fisico, e per la fortissima connotazione valoriale che da sempre contraddistingue questo movimento, è una sfida sotto ogni aspetto cercare di occupare il posto della curva dove il proprio striscione possa avere una maggiore visibilità nei confronti delle tifoserie nemiche o comunque una zona che rispecchi la propria centralità nell’equilibrio curvaiolo. Le linee di condotta adottate dai vari gruppi variano in ragione del modo di interpretare la propria ontologia.

Il panorama è frastagliato, ebbene si va dai gruppi più elitari, che si contraddistinguono per un numero relativamente basso di persone e la rigidità della militanza, a quelli più “clubbistici”, che di solito hanno una propria sede sociale, dei modelli comportamentali approssimativi, striscioni lunghi e riunioni settimanali aperte a tutti gli interessati.

L’idea di creare uno striscione viene attinta dagli anni ’70. Ergo si decide di creare una “pezza”, come quella degli studenti e degli operai, su cui imprimere il nome del gruppo scelto all’unisono da tutti i componenti; la sigla adottata sta a dimostrare l’adesione a determinate controculture o fazioni politiche, piuttosto che la provenienza da determinati quartieri o rioni della città. Lo striscione assume una connotazione sempre più forte, al punto che gli ultras finiscono per identificarsi in esso. Per questo motivo l’eventuale perdita dello striscione durante gli scontri determina lo scioglimento del gruppo. Strettamente connessa al rituale dello striscione è quella del “materiale”. La sciarpa o il berretto, la toppa o la maglietta, così come l’adesivo o la spilla sono elementi che attestano la propria appartenenza al relativo gruppo, cioè vessilli da indossare con fierezza la cui attribuzione costituisce un rito atteso e conquistato.

Le argomentazioni di cui sopra servono a chiarire la ratio legis posta a fondamento dei divieti sanciti dal legislatore nell’ultimo decennio. Invero l’impossibilità per i gruppi non legalmente riconosciuti di esporre i propri drappi, semplicemente palesa un attacco simbolico prima ancora che sostanziale. Con questo precipuo passaggio normativo, accelerato da turbative dell’ordine pubblico, i “vertici” hanno inteso destabilizzare il movimentismo da stadio nel suo aspetto più rappresentativo, sviscerando la stessa aggressività che vi è nello strappo di un burqa dal viso di una musulmana.

D’altra parte, lo striscione è l’apogeo comunicativo del movimento ultras; ed il fatto stesso che i contenuti potessero sfuggire ad un preventivo controllo istituzionale, ha indotto il legislatore ad incidere tale ambito con il filtro obbligatorio del vaglio da parte del Questore. Il senso dello striscione sta nell’esternare un pensiero che non rispetti la linearità di veduta imposta dall’informazione dominante.

È pacifico che l’odierna società sia contraddistinta da un punto di vista totalizzante, cosicché ogni segmento sociale che rappresenti in qualche misura una potenziale carica oppositiva viene fatto rientrare nell’alveo del crimine organizzato. Tale assunto spiega anche il tentativo mediatico di simbiotizzare il movimento curvaiolo di alcune città, con particolare riferimento al Meridione, con organizzazioni mafiose comunemente intese.[3]

La spinta determinante per il Sistema-Stato è stato l’animus diretto alla distruzione degli ultras al fine di neutralizzarne il ribellismo innato; una voluntas persequendi che si è raffinata col passare degli anni, fino al culmine della tensione, raggiunto con l’assassinio di Tor di Quinto. Riprendendo pedissequamente le critiche del Marchi, si può serenamente affermare che a tale preciso scopo si è reso necessario un evento mediatico sensazionale; una dinamica riprovevole sul piano umano; un precedente storico utile a relegare l’accaduto nella sfera delle rivalità tra tifoserie.[4] Dunque una serie di circostanze utili all’ultima stretta repressiva di cui lo Stato necessitava, in questo preciso momento storico, per rendere le gradinate scevre da qualsivoglia scomoda presenza.

La fase intermedia, o meglio il punto di passaggio da un inasprimento graduale volto all’addomesticamento delle curve, ad un repentino e drastico svuotamento, la si rinviene nel 2007[5]. Nulla più della morte di un servitore dello Stato può significare una destabilizzazione determinata da zone aggregative che sfuggono ad un controllo pieno del potere, al punto da indurlo ad un clamoroso errore giudiziario[6], coerente con quella che il Marchi definisce “Sindrome di Andy Capp”. Orbene questo stato di paranoia collettiva necessita di alcune rilevanti condizioni, quali un generalizzato rancore dovuto alla incertezza sul proprio presente e futuro, che sfocia nella ricerca di capri espiatori.

In secondo luogo, la presenza di un sistema di comunicazione in grado di riamplificare gli stati di ansia collettiva. Nel caso di specie, basti tenere conto dell’accanimento della stampa nei confronti dei tifosi in balaustra allo Stadio Olimpico per l’ultima finale di Coppa Italia, distogliendo l’interesse dal fatto storico che ha determinato la morte di Ciro Esposito.

«Le società contemporanee dispongono di almeno tre strategie per affrontare le condizioni e i comportamenti ritenuti indesiderabili, offensivi o minacciosi, la prima consiste nel socializzarli, cioè nell’agire a livello delle strutture e dei meccanismi collettivi che li producono e li riproducono, assicurando loro un lavoro o un sussidio. La seconda strategia è la medicalizzazione: significa cercare un rimedio medico a un problema definito senza esitazioni come una patologia individuale suscettibile di trattamento medico. La terza strategia adottata dallo Stato è la penalizzazione, che serve da tecnica per rendere invisibili i problemi sociali che lo Stato non può o non vuole affrontare fino in fondo».[7] Agevolmente si comprende che agli ultras viene applicata la seconda strategia, procedendo al tradizionale metodo di demonizzazione di una ontologia sotto/contro culturale che per decenni ha rappresentato una minaccia sociale concreta rispetto alle pretese dei “piani alti”.

Ripercorrendo a ritroso la storia, si può ben comprendere come questi temi siano ancorati al concetto di potere disciplinare. Già nel XVII secolo l’apparato disciplinare procedeva alla ripartizione degli individui nello spazio. Basti pensare alla diffusione del modello del convento così come quello delle caserme, accanto ai quali si diffusero grandi spazi manifatturieri. I controllori dell’epoca infidamente si impegnavano nel progettare un’istituzione disciplinare perfetta volta ad assicurare una distribuzione capillare del potere. E tutt’oggi l’intento di fondo è quello di Sorvegliare e punire.[8] E la preoccupazione ha assunto una portata ancora maggiore, per lo Stato, nel momento in cui gli osservatori si sono resi conto che comportarsi da ultras allo stadio acquisisce una dimensione più ampia: le condotte assunte allo stadio, o durante la trasferta, divengono uno stile di vita, un’attitudine comportamentale; tanto è vero che il fenomeno ultras si è espanso inarrestabilmente in senso positivo per oltre quattro decenni. I sentimenti interni ad un gruppo si ripercuotono, in un più ampio raggio, nei confronti delle altre tifoserie. Ed il pathos di cui ogni gruppo è portatore, si concretizza in azioni di vario taglio il cui tenore sfugge ad ogni tentativo di incanalamento. Pertanto torna ad essere di incredibile attualità la insidiosità del potere disciplinare, alla stregua di una manovra di distruzione di ogni carica oppositiva. La diagnosi dell’ultras-folk devil, combinata alla volontà statuale di non farsi sfuggire la proliferazione di ragionamenti autonomi, ha spianato la strada ad un accanimento metodologicamente ondivago ma continuativo negli anni.

La consorteria formata dai poteri dello Stato, a cui va imprescindibilmente aggiunto il potere mediatico, quale longa manus, è partita col contemplare lo stadio come palestra utile a consolidare le pratiche repressive già in uso presso le Forze dell’Ordine. Invero queste misure preventive sui generis sono da contemplarsi come un innesto embrionale, da cui sviluppare nel tempo altri e più pregnanti strumenti di controllo da applicare all’intera civiltà. «La filosofia che ispira le strategie d’ordine pubblico negli stadi affonda le proprie radici nella natura stessa della nostra polizia. Se infatti esiste nella funzione di polizia, anche in uno Stato democratico, una tensione oggettiva tra il potere e il diritto, tra l’intervento rapido ed efficace, che travolge resistenze e ostacoli, e il dovere di rispettare pienamente i vincoli giuridici, soprattutto i diritti di tutti i cittadini, nell’ambito del tifo calcistico questa tensione oggettiva non trova spesso mediazione. La polizia ha un notevole potere discrezionale, non solo al livello complessivo ma anche a quello del singolo poliziotto. Le forze di polizia possono essere considerate come policy makers, nel senso che esse “fanno le politiche”. Questa percezione soggettiva implica, evidentemente, un elevato tasso di discrezionalità».[9]

Per strana ironia della sorte, rispetto alla quale anche il più fatalista nutrirebbe seri dubbi, l’accanimento militare che per anni ha perseguitato i “violenti da stadio” ha sgomberato le adiacenze dell’Olimpico in occasione di Fiorentina-Napoli. Già nel 2004, la stampa nazionale fece notare la scesa in campo degli 007 del Sisde;[10] e lo stesso CASMS (Comitato di Analisi per la Sicurezza delle Manifestazioni Sportive) vanta tra le proprie schiere diretti adepti dei servizi segreti. Il vuoto di controllo avutosi a Tor di Quinto, per i motivi sopraesposti, assume la piega della “distrazione premeditata”. Lasciare scoperta una porzione di territorio, diffusamente frequentata da alcune frange di romani, e facilmente raggiungibile dai napoletani ha il retrogusto della tensione voluta. Il dato scientifico consta nell’aver creato le condizioni affinché si potesse verificare uno scontro, anche prolungato, tra due delle tifoserie più numerose e violente onde creare il pretesto per un successivo intervento normativo di portata ancora maggiore di quelli avutisi dal 2001 ad oggi. Senza pretese inquisitorie, né accanimento giustizialista, a determinare l’ennesima morte da stadio, questa volta, potrebbe essere stata l’esplosione di una serie di “colpi segreti”.

Giuseppe Milazzo.

da sportpeople.net