Denunciò violenza nel Cie, ma per i giudici la colpevole è lei
- marzo 06, 2011
- in migranti, violenze e soprusi
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Una sentenza pronunciata “in nome del popolo italiano” che assolve un funzionario di polizia, l’ispettore Vittorio Addesso, accusato di aver tentato di violentare Joy, ragazza nigeriana detenuta all’epoca dei fatti nel Cie di Via Corelli a Milano. Sembra partorita decine di anni indietro, quando lo stupro era un reato contro la morale, quando era la donna a dover portare prova dell’avvenuto stupro. È stata emessa il 2 febbraio scorso ma solo ieri ne sono state rese note le motivazioni.
Un testo che nessuna persona dotata di un minimo di senso civico, che nessun uomo degno di questo appellativo vorrebbe mai leggere. Dieci pagine in cui si prova a demolire l’impianto accusatorio basandosi su un assunto: Joy non è credibile. È una «violenta ragazza nigeriana» che ha capeggiato una rivolta e che ha tentato di salvarsi dall’espulsione denunciando il falso. Joy non è credibile perché la prima testimonianza resa in un italiano poco accademico, non collima perfettamente con quanto affermato in sede dibattimentale. Non è credibile perché la testimonianza della sua amica Hellen era «un po’ disordinata» e quindi non perfettamente aderente a quanto da lei affermato, perché contro di lei ci sono due testimoni sicuramente più attendibili: il responsabile per la Croce Rossa del centro, Massimo Chiodini, e un altro funzionario di polizia, l’ispettore Tavelli, condannato poi in primo grado a 7 anni per aver costretto una transessuale brasiliana ad un rapporto sessuale in cambio della promessa di un permesso di soggiorno. Joy non è credibile, perché non ci sono le altre testimoni che confermerebbero la sua versione dei fatti, peccato che almeno due siano già state deportate in Nigeria prima di poter parlare.
Dieci pagine che grondano di razzismo e maschilismo allo stato puro. Si legge infatti che «le dichiarazioni della persona offesa nei delitti di abuso sessuale possono costituire da sole prova sufficiente per l’affermazione delle responsabilità penale dell’agente, ma ciò può avvenire solo dopo avere doverosamente e rigorosamente vagliato l’attendibilità della persona offesa stessa». «Joy, essendosi costituita parte civile, è portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico». Un ribaltamento vero e proprio dell’onere della prova. Ma non basta, Joy è stata condannata per una rivolta scoppiata alcuni giorni dopo il tentativo di violenza e siccome l’ispettore Addesso è risultato testimone a suo carico Joy si è vendicata. La prova? Avrebbe potuto denunciare le violenze mentre era in Via Corelli, nelle mani dello stesso ispettore (e di altri funzionari come Tavelli) e non l’ha fatto, aspettando di essere al sicuro, dopo la scarcerazione. Avrebbe dovuto, secondo i giudici, fidarsi anzitempo degli operatori sociali presenti nel centro. La stessa testimonianza di Chiodini, che ha negato qualsiasi abuso, lascia interdetti:«Un tale comportamento (quello di Addesso) avrebbe costituito un autogol inimmaginabile».
Uno degli elementi su cui si è aggrappata la difesa riguarda la presenza o meno di altre detenute nel cortile del centro teatro dell’aggressione. La frase riportata si commenta da sola: «nessuna amica di razza bianca né alcuna nigeriana è stata citata». Chiaro, la testimonianza di due uomini bianchi e in divisa conta più di quella di due donne nigeriane. Certo non si afferma direttamente questo. Si dice che era «quasi impossibile che due uomini fossero presenti nel reparto femminile», che Chiodini non può essere stato complice o connivente di Addesso per garantirsi la pace del Centro e la tutela della propria posizione di responsabile. Una strana condizione in cui chi controlla e chi è controllato parla con voce sola. Hellen non è invece attendibile a priori perché con Joy condivide «amicizia, nazionalità e sorte processuale» oltre che per il «disordine» con cui ha testimoniato. Una pagina oscena della magistratura insomma, che sembra retaggio puro di un passato coloniale mai sopito e dimostra il livello dello Stato di Diritto quando ad alzare la testa sono donne, per lo più immigrate e oggetto di tratta. Una sentenza in perfetta linea con la cultura del premier, in cui non si lascia neanche il minimo spazio al dubbio, si ignora totalmente il contesto concentrazionario in cui avvengono questa come altre nascoste violenze. Una sentenza che sintetizza perfettamente cosa sono i Cie e perché non sono riformabili. A chi scrive resta il beneficio del dubbio: ma davvero si tratta di una sentenza scritta in nome del Popolo italiano?
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