Ieri sera (lunedì 23 marzo), dopo avere letto le parole del Presidente della Repubblica, “Dignità a rischio nelle carceri” e dopo avere visto alla televisione la trasmissione delle Iene “Coronavirus: contagiati e botte nel carcere di Voghera?”, ho iniziato a ricordare. Non bisogna aver paura a ricordare . Ricordare è doloroso ma ti può aiutare a capire:
Le guardie arrivarono a decine. Mi presero di peso e mi trascinarono nelle celle di punizione. Mi scaraventarono nella cella liscia. Volarono pugni e calci e ingiurie. Mi denudarono. Mi perquisirono. Le guardie ribollivano di rabbia. Iniziarono a insultarmi: “Figlio di puttana. Prendi questo e quest’altro”. Poi si stancarono e se ne andarono. Mi sdraiai per terra, nella cella liscia non c’era neppure la branda. Mi coprii con una vecchia coperta buttata in un angolo, l’unica cosa che c’era in quella cella. Rimasi una mezzoretta con gli occhi fissi al soffitto. Sentivo dolore dappertutto. Mi faceva male la testa e avevo delle fitte ai fianchi, la parte del corpo che aveva preso più calci. Gli occhi mi si chiudevano dalla stanchezza, dalla rabbia e dal dolore. Non riuscivo a mettere ordine nei miei pensieri. Alla fine mi addormentai. Mi svegliarono i raggi del sole del mattino, che filtravano dalle sbarre della finestra. Avevo tutti i muscoli che mi facevano male, dappertutto. Mi sentivo frustrato. Avevo anche una spalla intorpidita e un braccio irrigidito. Richiusi gli occhi di nuovo, come per difendermi da quello che vedevo. Di giorno la cella liscia era ancora più brutta. Se conoscevo bene il carcere, e lo conoscevo bene, forse durante la giornata mi avrebbero impacchettato e trasferito in un carcere di punizione. Dopo le proteste, i detenuti non li tengono mai nello stesso carcere. Rimasi un po’ a fissare le pareti della cella, poi decisi di provare ad alzarmi. Raddrizzai le spalle e la schiena e mi alzai da terra. Barcollai. Fui sul punto di cadere. Mi sostenni appoggiando una mano sul muro. Proprio sul punto della parete dove mi ero appoggiato, vidi che c’era scritta una frase. Feci fatica a leggerla. Sembrava scritta con il sangue: “ La mia anima cerca il cielo, il sole, il mare, mentre muoio per vivere”. Scrollai la testa, come per dimenticare quello che avevo letto. Ero triste già di mio e non volevo diventarlo ancor di più. Mi facevano ancora male tutte le costole dalle botte che aveva preso quella notte. Respiravo ancora con fatica. Pensai che altre botte mi aspettavano nel carcere dove mi avrebbero mandato. Quella notte c’erano andati “leggeri”, per paura che qualche giudice mi vedesse, se fosse venuto a interrogarmi per la protesta collettiva che io e i miei compagni avevamo fatto. Infatti, in faccia i bastardi non mi avevano toccato. Invece nel carcere dove mi avrebbero mandato le guardie non si sarebbero fermate al corpo, mi avrebbero spaccato anche la faccia. Come quella volta a Nuoro, che mi avevano fatto saltare due denti. Mi sedetti di nuovo per terra, con le gambe allungate e la schiena contro la parete, aspettando il mio destino.
Carmelo Musumeci