Secondo la Corte d’Assise permangono le condizioni per l’esigenza di cautela processuale attinenti al pericolo sia di fuga che di recidiva
Un detenuto in attesa di giudizio è in fin di vita in ospedale. L’avvocato ha presentato istanza di scarcerazione e cura in un luogo più idoneo, ma dopo quattro giorni l’istanza è stata rigettata. Secondo la Corte d’Assise di Roma permangono le condizioni per l’esigenza di cautela processuale attinenti al pericolo sia di fuga che di recidiva. Un rigetto che lascia di stucco l’avvocato difensore Dario Vannetiello del Foro di Napoli. Raggiunto da Il Dubbio, l’avvocato Vannetiello ha spiegato che giovedì scorso aveva inoltrato alla Corte la richiesta di «poter adottare con la massima urgenza tutte le iniziative opportune per salvare la vita del detenuto e, comunque, revocare la misura in atto o sostituire la stessa disponendo gli arresti domiciliari, anche sotto controllo del braccialetto elettronico, per curarlo presso un centro altamente specializzato per le cure della patologia da cui risulta affetto».
L’avvocato fa notare che l’esigenza di custodia cautelare viene applicata per tre motivi: rischio di inquinamento prove, pericolo di fuga e rischio di reiterazione del reato. «Per l’inquinamento di prove – spiega l’avvocato – il rischio è superato avendo già la condanna di primo grado, per le altre due esigenze è impossibile che ci sia il rischio visto che attualmente è in coma con tanto di ventilazione e alimentazione artificiale». Ma la Corte ha deciso che sussistono tuttora le esigenze di custodia cautelare e che il detenuto deve rimanere nell’ospedale dove è in cura visto che, per le sue gravissime condizioni cliniche, è assolutamente impossibile il suo trasferimento.
Il detenuto in fin di vita si chiama Stefano Crescenzi, un romano di 37 anni condannato in primo grado alla pena di anni 23 di reclusione dalla Corte di Assise di Roma. Il reato è quello dell’omicidio di Giuseppe Cordaro avvenuto a Roma in via Aquaroni. A causa delle sue gravissime condizioni di salute, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha ritenuto che Crescenzi non potesse rimanere presso un ordinario istituto penitenziario e ha deciso il suo trasferimento dalla casa circondariale di Livorno presso il centro clinico della casa circondariale di Napoli – Secondigliano. Il peggioramento, però, proseguiva. Infatti, subito, i sanitari del centro clinico della struttura penitenziaria di Napoli – Secondigliano si sono resi conto che non avrebbero potuto apprestare le cure al detenuto, le cui condizioni diventavano incontrollabili. Così, la direzione sanitaria del penitenziario partenopeo ha deciso il trasferimento all’ospedale Cardarelli di Napoli, e infine all’ospedale don Bosco di Napoli.
Ma le condizioni non sono migliorate e, secondo l’avvocato, la struttura non è idonea per la cura della patologia da cui il ristretto è afflitto. La mamma del detenuto e i familiari chiedono solo di non farlo morire e avere almeno la possibilità di andarlo a trovare. Purtroppo risulta in custodia cautelare, per questo non possono andargli a far visita. L’avvocato, per far fronte a questa esigenza, ha inoltrato alla Corte la richiesta di far accedere i familiari presso la struttura ospedaliera dove si trova il detenuto, con il rispetto degli orari di visita in cui è consentito l’ingresso dei familiari dei degenti. «Quello che chiedono i familiari – spiega Vannetiello – è di non farlo morire, poi se Crescenzi ha sbagliato, pagherà il suo conto con lo Stato. Ma adesso lo Stato, e gli uomini che lo rappresentano, cioè i giudici della Corte di Assise di Roma, lo devono proteggere».
Chiosa sempre l’avvocato: «Come potrebbe un moribondo in coma con prognosi estremamente riservata, darsi alla fuga o commettere reati? I familiari di Crescenzi hanno o non hanno il diritto di decidere loro dove e come e chi deve cercare di salvare Stefano? ». E conclude amaramente: «Spesso ci si dimentica che dietro un nome ed un cognome, non c’è un numero, ma un uomo, come ci sono i familiari, i quali, spesso, non hanno neppure compiuto un’ illegalità, ma che subiscono quello che, in questi tragici momenti, nessun uomo dovrebbe subire, tanto meno da chi rappresenta la Giustizia. Tutto quello che sta accadendo è inaccettabile! ».
Damiano Aliprandi da il dubbio