Nei momenti di crisi è forte la tendenza a irrigidimenti istituzionali illiberali, manifesti o sommersi. Ciò avviene sia a livello legislativo che di prassi amministrative e giudiziarie. Alcuni passaggi di questa strategia sono ormai, nel nostro paese, sotto gli occhi di tutti, sia nel campo delle politiche sociali che in quelle di ordine pubblico. Come sempre il primo terreno di sperimentazione è quello dei più deboli, cioè i migranti, i nuovi barbari da cui la società contemporanea deve difendersi con ogni mezzo.
Di qui il consolidarsi (nonostante alcune resistenze della Corte costituzionale) di un diritto speciale dello straniero, corollario di una disciplina dell’immigrazione caratterizzata dalla creazione artificiosa (mediante una disciplina ottusamente proibizionista) di una condizione diffusa di irregolarità, dalla sottolineatura della condizione di inferiorità dei migranti, dal perseguimento di un doppio livello di cittadinanza e dall’abbandono del principio secondo cui la legge deve essere “cieca al colore”.
L’armamentario di questo capitolo di diritto speciale ha visto nell’ultimo decennio, a fianco della previsione del reato di clandestinità, l’aumento abnorme delle pene per i reati propri degli stranieri, la previsione di una forma particolare di detenzione amministrativa prolungabile sino a un anno e mezzo (quella nei Cie) svincolata dai principi dell’habeas corpus, la sottoposizione a vessazioni e controlli sconosciuti ai cittadini e via seguitando.
A ciò sta dando il suo contributo la giurisdizione. Illuminante al riguardo è uno sconcertante provvedimento del dicembre scorso del giudice per le indagini preliminari di Agrigento, ripreso, proprio in questi giorni, dalla procura della Repubblica di Roma. Ricordate gli sbarchi di Lampedusa della scorsa estate? I sopravvissuti alla traversata, una volta approdati, vennero accompagnati nel locale Centro di soccorso e prima accoglienza, istituito dall’art. 23 del regolamento di attuazione del testo unico immigrazione, per le “attività di accoglienza, assistenza e per quelle svolte per le esigenze igienico sanitarie”.
Fin qui tutto secondo regole e buon senso, ma per molti le prime cure si trasformarono in un trattenimento anche di diverse settimane in condizioni di sostanziale detenzione (essendo la struttura circondata da un muro alto più di tre metri, potenziato in alcuni punti con filo spinato ed essendo inibito agli “ospiti” non solo uscire dal centro ma persino circolare liberamente al suo interno).
L’evidente illegittimità del trattenimento, in assenza di disposizioni di legge autorizzative e di qualsivoglia controllo della autorità giudiziaria, indusse alcuni volontari di associazioni operanti nell’isola a denunciare il fatto alla procura di Agrigento, indicando numerosi testimoni della situazione e chiedendo di accertare se non fossero ravvisabili nei fatti delle responsabilità penali.
Incredibilmente il giudice per le indagini preliminari di Agrigento, accogliendo la richiesta del pubblico ministero, ha archiviato la denuncia motivando che “la mancata previsione di un termine massimo di permanenza presso il centro di Lampedusa e di un controllo da parte dell’autorità giurisdizionale per la stessa permanenza, unitamente agli oggettivi problemi organizzativi e di sicurezza legati al trasferimento in altre strutture dei cittadini stranieri ed all’adozione nei loro confronti dei provvedimenti amministrativi previsti dalla legge, non consentono di ravvisare gli estremi di alcun reato nei fatti portati a conoscenza di questo Ufficio”.
Detto in altri termini: la mancata previsione di termini e di controlli comporta non già – come sembrerebbe ovvio – che gli “ospiti”, ove non trasferiti in centri di identificazione ed espulsione, siano assistiti in condizioni di libertà, bensì la possibilità della loro detenzione di fatto senza limiti di tempo. Con buona pace dell’art. 13, secondo comma, della Costituzione secondo cui “non è ammessa alcuna forma di detenzione né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
A questa cultura della libertà personale, a dir poco approssimativa, si è acriticamente adeguata la procura di Roma che ha richiamato in toto le motivazioni degli uffici agrigentini per chiedere a sua volta l’archiviazione dell’esposto, trasmessole dalla procura di Agrigento. Non resta, a questo punto, che aspettare la decisione del giudice per le indagini preliminari. Nella speranza che anche per i migranti ci sia un giudice a Roma!
Livio Pepino da il manifesto
Share this: