Da due giorni i detenuti della maggior parte delle carceri italiane sono in rivolta. Alle base del malcontento ci sono il sovraffollamento e la quasi mancanza di misure alternative al carcere nonché di spazi di socialità al suo interno.
Era cominciata all’interno del carcere di Salerno sabato notte, e la rivolta dei detenuti si era estesa nel frattempo l’indomani pomeriggio nel carcere Sant’Anna di Modena. Il magistrato che è a capo dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Basentini ieri mattina aveva da subito comunicato che «in seguito agli episodi di protesta le morti avvenute erano sei, tre all’interno del carcere di Modena ed altre tre nei penitenziari di Parma, Alessandria e Verona, dove li avevamo trasferiti». Specificando, inoltre, che alcune morti (tre) erano avvenute in seguito a overdose o abuso di farmaci, ma tacendo ufficialmente, in realtà, sui motivi reali delle altre. Aggiungendo: «la rivolta è cominciata da Salerno e il tam tam si è esteso su tutto il territorio nazionale. Il motivo è legato alla richiesta dei colloqui».
Nel frattempo, fin dalla mattinata di ieri i famigliari di alcuni detenuti si erano radunati davanti alle carceri di Poggioreale a Napoli, di Rebibbia a Roma, dell’Ucciardone a Palermo, dando vita anche a blocchi stradali; e, dall’interno, i penitenziari di Bologna, Foggia, di San Vittore a Milano, di Pavia, e altre decine di carceri italiane, in Campania, Sicilia, Lombardia, avevano cominciato a “fumare”. Materassi incendiati, finestre rotte, infermerie distrutte, armerie saccheggiate. Alcuni detenuti erano evasi, una quarantina di detenuti diventati “uccel di bosco” solo a Foggia. Era il giorno della rivolta, nelle carceri italiane.
A Marino del Tronto, minuscola frazione dove, a otto chilometri di distanza della città, si trova il super carcere di Ascoli Piceno fortemente voluto negli anni’70 dal generale dalla Chiesa, intanto, sempre nel pomeriggio di ieri, perdeva la vita il detenuto numero sette che aveva avuto a che fare con la rivolta di Modena. Trasferito dall’Emilia al carcere di Ascoli, «la causa del decesso dell’uomo, un quarantenne, sarebbe stata una overdose», così hanno precisato dalla questura di Modena. Notizia che era stata confermata in serata anche dal Sinappe, il sindacato autonomo degli operatori di polizia penitenziaria che intanto si “scagliava”, attraverso la sua segreteria generale, contro «la forte preoccupazione espressa dall’indefesso Garante nazionale delle persone private della libertà personale e l’incauta sortita del Pd che sollecita il governo, ossia se stesso, a trovare soluzioni immediate al sovraffollamento temendo il virus». E ce ne hanno avute per tutti: «per gli impavidi Radicali Italiani», con le loro richieste e rivendicazioni storiche sul tema, come: «ricorrere alle misure alternative, aumentare la detenzione domiciliare, tenendo presente che 16mila detenuti hanno una pena residua inferiore ai due anni».
«Perché tante parole in libertà», si sono chiesti dal sindacato della polizia penitenziaria. E ancora, hanno poi ipotizzato: «dopo simili argomentazioni come meravigliarci della devastazione delle carceri, messe a ferro e fuoco da un’orda barbarica di Unni al grido di amnistia». Prima di prendersela, infine, sempre il sindacato, «con il silenzio del Ministro della Giustizia, come se le carceri, con i precari equilibri, ed il Corpo della Polizia penitenziaria non fossero affare suo». Il ministro Alfonso Bonafede, da parte sua, era intervenuto in serata annunciando l’attivazione di una «task force per assicurare una costante informazione all’interno delle strutture per la popolazione detenute e i lavoratori». Aggiungendo anche che alcune norme previste anche nel decreto legge sul coronavirus «come il limite ai colloqui fisici e la possibilità per i magistrati di sorveglianza di sospendere i permessi premio e la semilibertà hanno soltanto la funzione di garantire proprio la tutela della salute dei detenuti e di tutti coloro che lavorano nella realtà penitenziaria».
Secondo i vertici del Dap, l’amministrazione penitenziaria, erano proprio le misure che erano state già disposte da subito lo scorso 26 febbraio dalla stessa amministrazione, che avevano previsto, tra le altre cose, di «contenere le attività lavorative esterne e quelle interne per le quali sia prevista la presenza di persone provenienti dall’esterno» e di «sostituire i colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori con i colloqui a distanza», ad aver scatenato le rivolte di ieri.
Nella realtà dei fatti, invece, si trattava di una tensione che covava da diverso tempo all’interno dei penitenziari italiani. Ed è perfino vacuo ipotizzare, come qualche commentatore pure ha rilevato ieri «che ci siano le mafie dietro le rivolte». Si diceva, che era tutto già scritto. Altamente prevedibile. Messo nero su bianco, ad esempio, nella relazione annuale che lo scorso marzo il Garante nazionale detenuti e privati della libertà, Mauro Palma, aveva presentato al Parlamento. Palma sconsigliava di collocare le persone detenute, soprattutto per periodi prolungati, nella propria camera con solo il materasso e la coperta. Non solo. Il Garante raccomandava, nelle 400 e passa pagine di relazione inviate alle Camere, in particolare, «di dotare tutte le stanze di pernottamento di docce annesse alle camere detentive, assicurando condizioni igieniche ottimali e superando le criticità diffuse delle docce comuni, spesso in locali deteriorati e degradati». Ma, soprattutto, «di rendere le stanze e gli ambienti comuni rispettosi dell’articolo 3 della Cedu che vieta i trattamenti inumani e degradanti». Come lo sono, al limite della tortura, le celle temporanee, le stanze cosiddette di “appoggio”, celle del tutto al di sotto di ogni standard minimo, di dimensioni ridottissime (in alcuni casi circa due metri quadrati), prive di finestre per il passaggio di luce e aria, pericolose per chi vi è ristretto, tuttora presenti in alcuni Istituti.
Ancora, il Garante Mauro Palma raccomandava di vietare alcune pratiche come quelle, constatate in alcuni Istituti, «di sanzionare disciplinarmente, anche con la sospensione dalle attività comuni, le persone detenute in regime speciale ex 41-bis che si limitano a salutare un’altra persona ristretta pur chiamandola per nome, a meno che non ci siano elementi fondati e specifici che portino ad attribuire a tale gesto un significato diverso dal mero saluto». Sic!. Quando il Garante si rivolgeva al Parlamento, in quel momento erano 60.000 i detenuti presenti nelle carceri italiane, quasi 10.000 in più dei posti letto disponibili. Vi erano istituti con un tasso di affollamento superiore anche al 150%. Tra questi, le carceri di Taranto e Como, con un tasso di affollamento rispettivamente del 199,7% e del 197%, che erano in percentuale le più sovraffollate d’Italia, come poteva documentare l’osservatorio dell’Associazione Antigone: «tra le 85 carceri visitate da Antigone nel 2018, sono 16 quelle in cui abbiamo avuto modo di osservare direttamente celle nelle quali non venivano garantiti i 3 metri quadri di spazio a persona, soglia considerata dalla Corte di Strasburgo quale parametro minimo al di sotto del quale estremo è il rischio di trattamento inumano o degradante».
Allarmi inascoltati, dunque. Come quelli sul numero di morti eccessive in carcere che da vent’anni lancia l’osservatorio di Padova Ristretti Orizzonti. Anche nell’anno appena cominciato si registrano tantissimi suicidi e decessi in condizioni poco chiare. Sono venti, finora, con i dati che sono aggiornati allo scorso 5 marzo. La metà di essi sono suicidi. Da Agrigento a Biella, da Secondigliano a Pavia, a Palermo, italiani e stranieri, la morte in carcere non ha nazionalità. E nemmeno età. Di questo ci parlano i cinque suicidi avvenuti tra il 18 e il 24 dicembre, uno al giorno, alla vigilia dello scorso Natale. Tra questi decessi c’era quello avvenuto a Siracusa, nel carcere di Cavadonna, di Dmytro Steblovskyi, un ventiseienne ucraino che era in attesa della sentenza di appello imputato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, perché in passato era stato “colto” al timone di una barca salpata da un porto della Turchia per raggiungere le coste della Sicilia. E c’era anche Filippo Nania, 91 anni, condannato in via definitiva per 416bis, suicidatosi nella sua casa di Partinico il 23 dicembre del 2019, dove si trovava agli arresti domiciliari dal 2016, da quando ultra ottantenne era stato fatto uscire dal carcere di Milano Opera. Senza umanità, dunque, è la condizione in cui si trovano la maggior parte dei detenuti italiani, un allarme degli enti di tutela che da decenni è rimasto inascoltato. E che ieri è esploso nella rivolta.
da DINAMOpress