Nell’immaginario collettivo l’idea di ordine pubblico è associata a un territorio militarizzato, a schieramenti di polizia in assetto antisommossa, a manganelli e gas lacrimogeni, ad arresti e processi con rito direttissimo. È, del resto, quel che accade intorno a noi. Ma non è necessariamente così. Conflitto e ordine pubblico sono concetti polivalenti che si prestano a declinazioni e pratiche diverse. Il punto è l’obiettivo che si persegue
di Livio Pepino da Volere la Luna
Nell’immaginario collettivo l’idea di ordine pubblico è associata a un territorio militarizzato, a schieramenti di polizia in assetto antisommossa, a manganelli e gas lacrimogeni, ad arresti e processi con rito direttissimo. Non a caso, ché questa è, da tempo, la regola: nelle città, nelle piazze, nelle strade e finanche nelle università . Questa prassi è, per di più, affiancata da interventi dello stesso segno sul piano legislativo, su quello amministrativo e su quello giudiziario. Basti ricordare, per il primo versante, l’approvazione, nei giorni scorsi, della legge suoi cosiddetti eco-vandali, che inasprisce le pene, già abnormi, per la protesta ambientale e che fa seguito al ripristino del blocco stradale e all’aggravamento delle sanzioni per i reati commessi nel corso di manifestazioni e, per gli altri profili, l’uso, nei confronti di attivisti e movimenti, di fogli di via a raffica (a partire soprattutto da un anno a questa parte: e di contestazioni abnormi in sede penale, fino all’associazione per delinquere e a reati di terrorismo. A completare il quadro c’è la macroscopica involuzione sicuritaria della politica e, prima ancora, dei media che, contro ogni evidenza, prospettano con toni apocalittici l’esistenza di un conflitto sociale esplosivo, tale da mettere in pericolo la sicurezza dei cittadini, così innestando un controcircuito di reazioni all’apparenza inarrestabile. Interessante è anche guardare chi sono i nuovi nemici della società, che hanno sostituito gli operai e i braccianti della metà del secolo scorso: sono gli studenti e gli attivisti ambientali, considerati alla stregua di pericolosi sovversivi (al pari degli odiati No Tav), in particolare dopo il fallimento dell’iniziale tentativo dell’establishment di blandire i Fridays for Future e di aggregarli all’affollato carro dei verdi di facciata e l’irruzione sulla scena di Extinction Rebellion e di Ultima Generazione. Il quadro è chiaro: cambiano, nel nuovo millennio, gli attori e i protagonisti ma non i tratti più controversi della gestione dell’ordine pubblico.
È uno scenario inquietante e distopico di cui conviene, almeno, verificare l’impianto teorico. Lo si è fatto in un recente convegno torinese dedicato, appunto, a Una diversa idea di ordine pubblico, ascoltabile per intero sul canale Youtube di Volere la Luna. Può essere utile, partendo da quell’analisi, evidenziare alcuni punti.
Primo. Il conflitto è, nelle società complesse, non solo inevitabile, ma anche auspicabile essendo, da sempre, il motore di ogni cambiamento sociale e politico. Superfluo aggiungere che esso disturba e infastidisce, per definizione, l’ordine costituito. È su questa divaricazione tra conflitto e status quo e sulla capacità di tenere insieme gli opposti che si gioca la partita dello Stato contemporaneo, il cui livello di democrazia si misura con la sua capacità di incorporare il dissenso e la protesta, anche la più radicale. Le democrazie, infatti, possono definirsi tali solo se sono capaci di dare un posto al disordine e di consentire spazio e agibilità anche a chi si propone di sovvertirne l’assetto attraverso un antagonismo accentuato e permanente. In caso contrario esse deperiscono fino a diventare – come si dice con un evidente e significativo ossimoro – “democrazie autoritarie”. È questa la posta in gioco delle politiche di ordine pubblico e di gestione dei conflitti (sociali, politici o ambientali che siano). E non è un buon segno la tendenza delle maggiori democrazie europee (dal Regno Unito alla Francia, dalla Germania alla Spagna e all’Italia) a rispondere alla crisi di fiducia e di partecipazione che le attraversa con un crescendo di repressione e di politiche tese ad azzerare il conflitto e a rimuovere autoritativamente dalla scena pubblica i (reali o presunti) nemici.
Secondo. La gestione dell’ordine pubblico – dicono alcuni – non è una pratica per “educande” e l’esercizio della forza, definita “violenza legale”, è ad essa coessenziale. L’affermazione, pur contenente alcuni frammenti di verità, è, a bene guardare, fuorviante. Il problema, infatti, non sta in interventi circoscritti e specifici in situazioni deteriorate e non altrimenti risolvibili, ma nella definizione di una strategia generale di gestione del conflitto. Le scelte al riguardo possono essere (rectius, sono) assai diverse e valgono a definire una politica. Lo si vede agevolmente nella nostra storia nazionale. Nei primi decenni della Repubblica la difesa dello status quo avvenne con un uso indiscriminato della repressione: nelle piazze e nei tribunali. L’effetto fu devastante. Limitandosi al dato più eclatante, tra il 1946 e il 1977, il conflitto politico e sociale lasciò sulle strade e le piazze del Paese ben 157 morti (di cui 14 tra le forze di polizia e 143 tra i dimostranti). Poi, negli anni ‘80 e ‘90, in un diverso clima politico, la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della polizia e il ricambio dei vertici degli apparati produssero una situazione diversa, pur nel drammatico contesto degli anni di piombo. In particolare si attenuò la strategia di controllo della piazza fondata sull’escalation nell’uso della forza, sostituita (almeno parzialmente) con una sorta di governo negoziato del conflitto nel quale – come è stato scritto – il diritto di manifestare pacificamente era considerato prioritario, forme anche dirompenti di protesta venivano tollerate, la comunicazione fra manifestanti e polizia veniva considerata fondamentale per una evoluzione pacifica della protesta, si evitava il più possibile l’utilizzazione di mezzi coercitivi puntando alla selettività degli interventi. Tutto questo fu il frutto di una scelta politica più generale, favorita dall’amnistia politica concessa nel 1970 per chiudere la stagione dell’autunno caldo del 1969, seguita anche da un alleggerimento del sistema penale. Poi è arrivato il G8 di Genova del luglio 2001 e, con esso, la gestione muscolare e repressiva dell’ordine pubblico è tornata ad essere la regola.
Terzo. L’escalation dell’uso della forza e della repressione penale nelle politiche di ordine pubblico non solo non è necessitata ma è viziata da una pregiudiziale ideologica e mostra una insufficiente percezione delle dinamiche dei fenomeni sociali. Il conflitto infatti, come ogni fenomeno sociale, è fatto di relazioni. Non è una realtà statica in cui le parti si contrappongono con posizioni immodificabili ma una situazione in divenire nella quale le parti interagiscono con comportamenti che si influenzano e modificano reciprocamente. Così, ad atteggiamenti violenti corrispondono tendenzialmente reazioni violente, mentre a comportamenti dialoganti corrisponde, altrettanto tendenzialmente, un’accettazione del confronto. Anche qui soccorre l’esperienza: è un dato acquisito che, con la polizia disarmata, il livello dello scontro di piazza si abbassa (come dimostrano risalenti esperienze del Regno Unito e quella, recente, dei primi tempi del governo di Syriza in Grecia). Questa consapevolezza è particolarmente importante nell’attuale situazione italiana caratterizzata, nonostante l’elevato livello di sofferenza sociale, da un conflitto di bassa intensità, ben diverso da quello che ha destabilizzato il Paese in epoche neppur tanto lontane. Basti ricordare i veri e propri moti successivi all’attentato a Togliatti del 1948, la sommossa di Genova del luglio 1960 e i successivi fatti di Reggio Emilia, le manifestazioni del 1962 in piazza Statuto a Torino, la “battaglia” di Valle Giulia del marzo 1968 a Roma e i successivi scontri di piazza Farnese (dove comparvero per la prima volta le bottiglie incendiarie), la rivolta di corso Traiano, a Torino, nel 1969 o, ancora, i moti di Reggio Calabria, organizzati dal movimento dei “boia chi molla” che, tra il 1970 e il 1971, paralizzò la città per sei mesi con sei morti, assalti alla questura e alla prefettura e lo schieramento, come risposta, dei carri armati sul lungo mare. Riportato il conflitto attuale alle sue dimensioni reali – si ripete, di bassa intensità – è agevole cogliere la praticabilità di una sua gestione pacifica e inclusiva, opposta a quella, violenta e conflittuale, che caratterizza l’odierna scena politica. Se ciò non accade non è per una caratteristica ontologica delle politiche di ordine pubblico ma perché quel che si vuole realizzare non è un governo razionale del conflitto ma un irrigidimento autoritario del sistema.
Una conclusione è, alla luce di quanto precede, possibile: conflitto e ordine pubblico sono concetti polivalenti che si prestano a declinazioni e pratiche diverse. Il punto è l’obiettivo che si persegue…
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[…] in funzione di ordine pubblico non sono certo, nel nostro Paese, una novità. Basti ricordare – come altre volte abbiamo detto – che, nei 30 anni intercorsi tra il 1947 e il 1977, si sono contati ben 143 manifestanti […]