Crediamo necessario ed inevitabile riflettere su quanto accaduto il 1 maggio a Milano nel corso della manifestazione #NoExpo. Pubblichiamo alcune riflessioni, dopo il contributo scritto da Turi Palidda, scelti tra quelli che danno elementi seri da affrontare, sottraendosi alla dicotomia”buoni o cattivi” che tanto piace al potere e ai suoi schiocchi maggiordomi, funzionali solo a dividere i movimenti e criminalizzare le lotte sociali. Alla repressione noi siamo abituati a rispondere sempre in maniera unitaria e mai a puntare il dito contro le compagne e i compagni
(pagina in continuo aggiornamento)
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La redazione di Milano in Movimento
Abbiamo iniziato la giornata raccontando una piazza che si riempiva di 50mila persone, di spezzoni pieni di gente e colori che hanno portato per le strade della città capitale della crisi le ragioni del proprio no a Expo e al modello di sviluppo che Expo mette in vetrina.
Il modello della deroga ai diritti di tutti per tutelare gli affari di pochi, il modello dei soldi pubblici finiti nelle tasche delle banche, degli speculatori, delle mafie che si aggiudicano gli appalti e finanziano il sistema, che sono parte integrante di un sistema al quale da tempo opponiamo le ragioni di un no che è fatto di contenuti, di costruzione di reti e percorsi di lotta.
Expo è stato, è e sarà per i prossimi 6 mesi la sperimentazione avanzata di quanto di peggio questo modello si sviluppo produce: nasconde dietro a un logo colorato e a un claim accattivante il finanziamento delle peggiori speculazioni, la cementificazione di ampie aree un tempo agricole a ridosso della metropoli, l’utilizzo di lavoratori sottopagati, stagisti, volontari (!), che devono lavorare in fretta perché la grande macchina è in ritardo e lo spettacolo deve andare avanti, sacrificando i diritti, la sicurezza, le vite di fasce di popolazione che già stanno pagando duramente la crisi e la disoccupazione, la mancanza case, di lavoro e di un welfare davvero universale.
Expo finge di parlare di alimentazione sana e cibo per tutti e poi costruisce partnership con i peggiori divoratori del pianeta, con le multinazionali dell’agroindustria, le catene di cibo spazzatura, i peggiori responsabili delle disuguaglianze del Pianeta. Parla di aiutare i Paesi poveri e fortifica chi sfrutta le materie prime e i territori delle aree povere del mondo, depredando popoli e natura, salvo poi cercare di respingerli quando bussano ai nostri confini affrontando viaggi nei quali forse moriranno, perché quel forse è tutta la speranza che gli abbiamo lasciato.
I media mainstream alimentano da mesi un immaginario di scontri e devastazioni a tutela della passerella di vip e politici piazzati nella vetrina dell’inaugurazione a chiacchierare di solidarietà abbuffandosi a spese dei soldi pubblici e dei beni comuni che diventano affari di pochi.
Noi crediamo nella contestazione, nel conflitto, nella radicalità dei contenuti e delle pratiche associati all’intelligenza, alla costruzione di consenso intorno ai contenuti. Crediamo nel conflitto agito da tanti e tante, nella costruzione quotidiana di pratiche alternative nel modo di vivere, intessere relazioni, fare politica nel territorio e nel mondo globale, costruire economie alternative e sostenibili.
Ci siamo trovati costretti, nostro malgrado, a raccontare un corteo che, bisogna che siamo sinceri, non avremmo voluto così. E ci vedremo costretti a raccontare di spazi di agibilità che si chiudono, di fermi, arresti e repressione, e questo frenerà la riflessione fra gli attori del movimento e farà sì che non ci esprimeremo, perchè di fronte alla repressione poi smettiamo anche di ragionare in nome della giusta solidarietà a chi viene colpito.
Noi crediamo però che qualche ragionamento dobbiamo pure farcelo. Perché anni di lavoro sui contenuti, di condivisione e di lotte oggi sono stati letteralmente spazzati via dalla scena pubblica, e se la stampa e la comunicazione mainstream hanno gioco facile a far vedere colonne di fumo nero che si alzano nel cielo della città e roghi di auto e negozi, e vetrine tirate giù, beh, qualcuno ‘sto lavoro di demonizzazione glielo ha reso davvero facile, e non abbiamo davvero niente da guadagnare dal totale isolamento nel quale ci ritroveremo, da domani, a fare politica nella nostra città.
E non ci interessano i commenti dei politici di turno o delle personalità dello stato, ci interessa la distanza che con questo immaginario scaviamo fra il corpo militante e la gente comune, fra chi ogni giorno mette il suo tempo e la sua fatica al servizio della costruzione di percorsi condivisi che ambiscono a diventare maggioritari e quel pezzo di cittadinanza che continuerà a pagare il prezzo della crisi, abbandonata dalla politica istituzionale e che tuttavia non capisce il senso di certe pratiche ed è sempre più lontana dal nostro mondo.
Abbiamo ripetuto all’infinito che la politica delle alte sfere non ha niente a che fare con la vita vera delle persone in carne e ossa e continuiamo a non essere capaci di costruire la connessione sentimentale con quei pezzi del Paese e della società che dobbiamo invece imparare a capire e coinvolgere nelle battaglie che o sono di massa o sono condannate all’irrilevanza.
Non c’è riflessione a caldo che possa affrontare questi temi in modo approfondito e ampio, ma non possiamo chiudere questa diretta in un modo che sia diverso dall’esprimere la necessità di una riflessione sulle ambizioni, sulle pratiche e sugli immaginari, che già qualche tempo fa abbiamo provato a stimolare con un editoriale che aveva dato l’avvio a qualche ragionamento, e che dentro la redazione è tema di dibattito molto sentito.
Torneremo presto su questo tema con una riflessione più articolata, per oggi siamo davvero esausti, e chiudiamo qui.
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Non a tutti piace Expo – InfoAut
Il primo maggio milanese ci consegna una giornata dalle molteplici sfaccettature. Il primo dato fondamentale da cogliere è che quelle decine di migliaia di persone scese in piazza rappresentano uno spettro della società non recuperabile oggi dalla rappresentanza politico-partitica.
Nell’insieme, queste presenze hanno saputo esprimere con forza il rifiuto di una città modellata intorno a Expo, ribaltando in maniera forte quella “valorizzazione del territorio” di cui si riempiono la bocca i padroni del cibo. Arrivando a incrinare quell’expoizzazione della città che pretendeva di delimitare lo spazio di agibilità politica di chi si oppone al modello di sviluppo incarnato nel mega-evento di cemento e lavoro gratuito.
C’era solo una risposta da dare alla sfacciataggine della questura che ha deciso a qualche giorno dalla contro-manifestazione di porre una zona rossa e vietare un percorso autorizzato da mesi. La città non è di Expo: dalle periferie al centro è stato importante provare a violare la zona rossa per significarlo. E’ stato un corteo composito, con pratiche eterogenee in cui tutte le realtà che hanno partecipato al percorso di opposizione al mega-evento hanno avuto spazio per esprimersi. Pratiche di conflitto radicali hanno coabitato con momenti di incontro tra giovani precari, occupanti di case di diverse città, sanzionamenti e musica si sono alternati tutelando le diverse sensibilità e componenti.
Un primo maggio importante nella misura in cui ha saputo porre con chiarezza un’incompatabilità tra il modello-Expo e la parte del paese che non accetta l’impoverimento generale come orizzonte inevitabile di una “ripresa” che è solo artificio retorico per forzarci a stringere ancora la cinghia. Lo scarto politico, per la composizione giovanile che ha animato, numerosissima, il corteo è stato nell’individuare Expo come punto di arrivo e di rilancio di quei meccanismi di precarietà che subiamo da decenni smontando la retorica di chi voleva camuffarlo da “nuovo inizio”. È uno scarto che ci parla di uno spazio di opposizione possibile e concreta al bulldozer renziano e al partito della nazione, di un’irriducibilità delle tensioni sociali che attraversano i territori. Il premier voleva una vetrina per mostrare il meglio dell’Italia. L’ha avuta in questo primo maggio di lotta: l’eccellenza italiana è riprendersi le strade, tutti insieme. Con tutti i suoi limiti il corteo di ieri è la prima grande e decisa protesta contro Renzi e il suo modello di sviluppo, e cosi verrà ricordata.
Ma è stata anche una giornata di protesta contro l’Europa della crisi, in continuità con quel 18M a Francoforte che ci aveva mostrato una ricomposizione possibile sul piano del conflitto fuori e contro la governance dell’unione. A Expo c’erano capi di stato da tutta Europa e da tutta Europa è giunta gente a contestarli. Sicuramente si tratta di una dinamica ancora balbuziente e le reciproche incomprensioni sono moltiplicate da culture politiche diverse e livelli di radicalità discordi tra i nostri territori. È un vero lavoro di traduzione, nel senso più ampio del termine, sul quale dobbiamo ancora lavorare molto. Ma è comunque una ricchezza vedere che quell’orizzonte minimo delle lotte che è l’Europa si concretizzi finalmente nella contaminazione del conflitto e non negli scambi tra ceto politico.
Queste le considerazioni positive che ci sentiamo di fare rispetto a questa giornata di lotta.
Permangono comunque molte criticità su cui dovremo lavorare insieme… tra chi ha voglia di mettersi sinceramente in gioco.
La questione, come al solito, non è nelle identità ma nel metodo. Ragionare su quali pratiche ci rendono più forti e evidenziano le linee di frattura sempre più larghe in una società caratterizzata da una rabbia latente quanto diffusa. Spaccare utilitarie o vetrine a caso è un gesto idiota che ha senso soltanto per chi assume come referente del suo agire “politico” il proprio micro-milieu ombelicale. Per quanto ci riguarda il nostro soggetto sociale di riferimento resta sempre quello degli impoveriti, dei senza casa, dei giovani, dei migranti e di tutta quell’eccedenza umana da cui dipende ogni orizzonte di cambiamento radicale dell’esistente.
Ai commentatori indignati che oggi spopolano sui social e più in generale in rete vorremmo però sottoporre alcune piccole osservazioni:
1) quello spezzone di corteo che oggi viene sintetizzato e banalizzato nella formula del “blocco nero” – e che raccoglieva invece composizioni politiche e sociali anche molto differenti e stratificate -, piaccia o meno, era il più numeroso dell’intero corteo. A chi oggi pretenderebbe di negare questa evidenza, chiediamo di tornare con lo sguardo all’imbocco di via De Amicis dove si poteva osservare l’ingrossarsi delle file e lo sciamare di moltissimi giovani da altri punti del corteo in quello spezzone lì.
2) si trovavano lì riunite soggettività collettive e individuali che intendevano praticare una qualche forma di conflitto: esercizio della forza, pratica dell’obiettivo, rottura della compatibilità di sfilate sempre uguali a sé stesse e totalmente ininfluenti.
3) il resto del corteo non è stato intaccato o messo a rischio fisico dagli scontri e dalle azioni che vi si sono prodotte. Si dirà che questo è stato merito della oculata gestione delle forze dell’ordine che hanno lasciato sfogare quella piazza evitando un allargamento dei disordini e la loro ingestibilità. Vero, ma la verità sta nella relazione tra quello che la questura ha optato di fronte a una presenza massiccia e di difficile gestione. Una forza effettiva era in campo e poco disponibile a forme di dialogo.
In un articolo, peraltro orrendo, Luca Fazio coglie almeno un dato politico: con quel modo di stare in piazza bisogna fare i conti e nessuna struttura organizzata, in queste occasioni, è in grado di esercitare una forza di controllo e direzione compiuta. E’ un bel nodo da sciogliere e su cui lavorare. A partire da una premessa: quella rabbia, quella composizione, quei soggetti sono affare nostro e vogliamo averci a che fare, con tutte le difficoltà del caso. Chi se ne tira fuori – per calcolo, paura o presunta superiorità politico-morale – sta tracciando un solco tra gli alfabetizzati della politica e gli impoveriti ed arrabiati che in alcune occasioni si presentano sulla scena. Istituisce una gerarchia di apartheid politico tra rappresentabili e non. E’ un gioco a cui non ci prestiamo. Preoccuparsi del solco che si rischia di scavare tra militanti e resto della popolazione è cosa lodevole e necessaria (nodo del consenso). Non porsi il problema di come inglobare e dare senso a una rabbia latente e neccessaria (nodo del conflitto) è una scelta ponzio-pilatesca e dallo sguardo corto, tanto più per chi si rappresenta come opzione conflittuale e antagonistica mentre nei fatti pensa ogni volta solo ed esclusivamente a portare a casa la pelle e garantirsi la riproduzione del proprio picccolo aggregato, tenendosi aperti canali di mediazione e dialogo che non portano piu da nessuna parte.
C’è tanto da dire, ragionare e commentare sui fatti di ieri. C’è però innanzi tutto da prendere una posizione chiara sul dove e con chi stare. Sul fatto che è mille volte preferibile trovarsi il giorno dopo a fare i conti con conseguenze ed esiti imprevisti piuttosto che darsi le pacche sulle spalle tra le infinite gradazioni di un ceto politico costantemente impaurito dall’emergere di una qualunque forma di eccedenza non prevista. Atene, Baltimora, Istanbul sono dietro l’angolo. Prendiamone atto e attrezziamoci di conseguenza. C’è invece chi ancora pensa di trovarsi nella stagione dei social forum o peggio, nei trenta gloriosi. Non è (più) così.
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Il fumo e la sostanza. – Centro Sociale Cantiere – Spazio Mutuo Soccorso – Coordinamento dei collettivi Studenteschi – Collettivo Universitario THE TAKE – Comitato Abitanti San Siro
Il fumo di un modello Expò convocato in nome del “Nutrire il Pianeta” e nelle mani delle multinazionali che il Pianeta lo affamano.
Il fumo del maquillage last minute utile a coprire i cantieri dagli appalti miliardari non ancora finiti, e tra 6 mesi gia’ in disuso.
Il fumo dell’indignazione di una giunta che dopo avere mandato a casa la partecipazione oggi chiama la cittadinanza a pulire la città, come perfetta occasione per ripulirsi la faccia.
Il fumo delle colonne di fumo dei “leoni” in azione per una oretta di “gloria” concessa da potere e polizie, ed ovviamente altrettanto strumentalmente esaltata da media e commentatori.
La sostanza di un mondo in balìa di interessi multinazionali e di un neo-liberismo feroce e selvaggio in guerra con l’umanità e con l’ecosistema.
La sostanza dei miliardi di euro gettati al vento nella ennesima grande opera solo utile a produrre un po’ di precarietà per tanti, grossi affari per pochi.
La sostanza di una Milano tradita da un laboratorio sociale promesso, fallito un secondo dopo la fine della grande festa arancione di piazza Duomo con la giunta così solerte nel prodigarsi nella chiamata a “ripulire” Milano quanto nel prodigarsi nell’impresa expo, una mafia di interessi opachi per cui erano semplicemente necessari timonieri presentabili.
La sostanza di costruire reti, laboratori di condivisione di analisi e pratiche e’ un percorso costituente, sicuramente cosa molto meno facile ed esaltante che una pratica di spuria e mediatica “estetica del gesto”.
Sentiamo parlare di “violenza” indicibile, quella che avrebbe subito Milano il 1 Maggio 2015. Ma pochissima indignazione per Klodian, ragazzo, caduto da un ponteggio mentre lavorava a une delle infrastrutture di expo l’ 11 aprile.
Perchè morire nel silenzio e a 21 anni non fa notizia nelle deroghe dei cantieri miliardari, come giustamente ricorda indignato il noto rapper nel mentre tutti cercano di metterlo alla gogna e semplificare ragionamenti irriducibili ai titoli ad uso e consumo del circo mediatico, già in funzione della prossima campagna elettorale meneghina.
E altrettanto meno capacità di indignazione verso un debito che non abbiamo scelto di contrarre, una casta di fatto inamovibile dalle poltrone e sempre intenta a garantirsi e riconoscersi. O nei confronti di una guerra oggi davvero globale e permanente, che indigna oramai pochissimi essendo diventata “normalità”.
Ci permettiamo quindi di affermare serenamente che in una epoca così feroce la “violenza” ci risulta essere ben altra cosa. Delle vetrine del centro non ci interessa molto, se non in relazione al fatto che non ci voleva particolare sagacia a comprendere le immediate conseguenze, nel contesto del primomaggio. Non possiamo che “plaudire” gli “eroi” che hanno imposto le loro pratiche su un percorso condiviso da anni, spezzando l’imponente serpentone della MayDay e mettendo migliaia di persone e la tutela di un intero corteo a rischio in un gioco di “guardie e ladri” e ripetute provocazioni cui non sono seguite reazioni. Utile pratiche di idiozia ed utili idioti, l’elogio alla “intelligente e responsabile” gestione delle forze di polizia ne è la dimostrazione.
Quanto costano quelle vetrine? Quanto 1 minuto di mantenimento della casta delle poltrone della politica italiana? Quanto 1 ora di interessi della voragine del debito pubblico? Il costo delle vetrine è poca cosa, ma vale molto in funzione elettorale, tanto quanto il green washing dell’Expo.
Le tantissime persone in piazza, data la fase e dato il contesto e il clima nei giorni e mesi precedenti la mobilitazione, dimostra che un altro mondo oltre che necessario è ancora possibile. Per questo vale la pena provare, anzichè restare in casa, giudicare, commentare. La relazione possibile in una grande data di mobilitazione è un fattore insostituibile della capacità di cooperare e cospirare assieme. Per questo è necessario scendere in piazza. Ma i percorsi di alternativa, sono prima ed oltre una mera “data chiamata”. E ora che questa data è superata possiamo finalmente tornare a lavorare per produrre relazioni e territori resistenti, piccole o grandi laboratori di alternativa tra i tanti che ogni giorno vedono impegnati fuor di notizia persone ed attivisti intenti a difendersi dalla crisi, dal basso.
Una sostanza di pratiche…altro che fumo!
Note tra “addetti ai lavori” :
Getta fumo chi va affermando o addirittura scrivendo affermazioni del tipo “il blocco nero era innegabilmente lo spezzone piu’ numeroso, dell’intero corteo”. Per noi è e sempre sarà centrale la scommessa della partecipazione, e in tal senso il primo maggio 2015 a Milano è stato un grande esempio di partecipazione con tantissimi giovani in particolare in piazza, a dimostrare che nonostante la depressione qui un movimento ancora c’è. Partecipazione ampia e determinata che nulla ha a che vedere con la residualità di numeri ed irrivendicabilità di pratiche di chi si è voluto “rappresentare” ed è quindi ora rappresentato come “blocco nero”. Lasciamo perdere i numeri al massimo utili a confermare il distintivo di “avanguardie” dei pochi che han deciso di imporre pratiche, e giocare a mettere in gioco la tutela dei molti.
In relazione a quanto scritto da penne amiche. Non pensiamo il primo maggio sia nè la fine, e tanto meno l’inizio.
Non pensiamo il “blocco nero” abbia “asfaltato i movimenti”, la desertificazione sociale della “società civile”, “americanizzazione” delle forme della partecipazione ma anche della politica, lavoro, scuola, relazioni, culture è questione già nota, e vera ben oltre le soggettività delle reti “di movimento”.
Ancor prima questione più vera per i soggetti classici della “politica” della rappresentanza, partiti e sindacati in primis.
E ci spiace molto vedere come fraterni amici da bravi indiani (metropolitani), cercando giustamente “segnali” nel fumo, finiscano con il fumo negli occhi giudicando il “primo maggio di milano come un inizio”. Con affetto diciamo che in quella giornata non vediamo alcun inizio, se non di Maggio.
Milano come Ferguson, Baltimora? Nello “spettacolo” del primomaggio vediamo il limite di una scelta di pochi molto più vicini all’essere ceto politico più che alle rivolte sociali. E in generale nel “riot per il riot” laddove legittimo in quanto frutto di spontanea e disperata rivolta, vediamo in ogni caso il limite di una società depressa, dove ogni dissenso e sfumatura sono controllati e nientificati. Nulla quindi che ci renda felici. I “sociologi del riot” che citano Baltimora, Ferguson non colgono nulla del contesto, alcuna sfumatura della sottile ma vitale differenza con una societa’ il cui dissenso e’ ridotto al diritto ad attraversare le strisce pedonali con il semaforo verde ed un cartello di carta in mano.
E allora Kobane?!? Ecco ci sembrano assurdi i tentativi di lettura pro o contro il primomaggio di Milano (e i piccoli avvenimenti avvenuti) quale lente da cui leggere le rivolte del mondo. E vergognoso anche solo il paragone. Non è sufficiente l’eco di due botti per portare qui quell’esperienza di resistenza (questa sì suo malgrado eroica) e di autorganizzazione che è il Rojava.
I territori sono di chi li vive. Lo abbiamo detto tante volte, così come lo abbiamo imparato dalla ValSusa. E quindi lo stesso vale per ogni territorio.
Il conflitto e il consenso sono nodo centrale, da indagare ogni giorno, per quanto ci riguarda. La degna rabbia, come dicono in Chiapas, si organizza, si riunisce, si parla, si rispetta: la rabbia degna costruisce le fondamenta di un mondo nuovo.
Infine, non siamo per nulla stupiti. Che il limite della fase lo conoscevamo gia’. Cercando di superarlo ogni giorno, occupando, resistendo, producendo. Dal basso provando a darci futuro seminando alternative, a questo mondo di merda.
Oltre l’ipocrisia, per noi il primomaggio è stato una data “dovuta”, in un processo che purtroppo abbiamo constatato direttamente da tempo come poco interessante. Anche evidentemente nella noia e tedio delle assemblee “verso”, chiuse su piccole logiche e prive di quella energia, forza e potenza capace di dirompere verso qualcosa di “oltre”, utile e nuovo. Come invece accade nelle migliori occasioni, quando l’onda sale e travolge…
Una proposta “oltre”, “alter” più che contro ci pareva già da anni una strada più interessante. Ma tant’è le cose sono andate diversamente. E nulla è definitivo.
To be continued…
Siamo una comunità ampia e il dibattito è in divenire.
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Centro Occupato Autogestito Transiti 28
Come Centro Occupato Autogestito di via dei Transiti 28, intendiamo esprimere il nostro parere sulla giornata del 1 maggio milanese, alla quale abbiamo partecipato, nello spezzone che ci sembrava più rappresentativo del nostro portato: quello delle lotte sociali e del diritto all’abitare.
Il corteo del primo maggio ha visto sfilare moltissime persone, percorsi e discorsi differenti, legati dalla contrapposizione ad EXPO e più in generale al modello capitalista, che i grandi eventi e le grandi opere rappresentano degnamente. È quello che tutti i media hanno fatto finta di non vedere: le migliaia di persone in piazza, che combattono quotidianamente un’opera inutile, rappresentazione diretta delle riforme con cui il capitalismo prova a superare la sua più forte crisi dagli anni Trenta.
Crediamo altresì, che quando persone diverse si incontrano sia molto difficile se non impossibile, e concettualmente sbagliato, pensare di poter avere tutto sotto controllo, e che quindi ogni forma di rabbia e di protesta abbia una sua legittimità.
Pur non condividendo alcune delle pratiche che si sono espresse in quella giornata ritenevamo e riteniamo tutt’ora che fosse fondamentale che la piazza esprimesse la sua volontà di non sottostare a nessun divieto e limite imposto dall’alto.
Un movimento eterogeneo come quello NO EXPO dovrebbe essere in grado di identificare i suoi limiti collettivi ed innescare (di conseguenza) un processo di crescita piuttosto che cercare di identificare responsabilità in alcune sue componenti.
Detto questo, pensiamo che il corteo del primo maggio sia stato bello, colorato e festante, un’ottima occasione di incontro e confronto tra lotte e realtà differenti, che in quella piazza hanno saputo parlarsi, incontrasi e crescere assieme, mettendo da parte, almeno in parte, le proprie divergenze ideologiche e pratiche.
Per concludere, non riteniamo di dover fare della socio-politica. Noi siamo convinti che l il modo giusto per affrontare un momento di demonizzazione mediatica per un movimento come quello NOEXPO sia rimanere uniti e rafforzare la propria proposta pratica e teorica.
In questo contesto vogliamo esprimere la nostra piu’ ferma solidarietà a tutti gli arrestati ed a tutti coloro che hanno subito repressione per via di quella giornata.
A pugno chiuso, ci vediamo nelle piazze, non su internet.
LIBERI TUTTI LIBERI SUBITO!
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L’attitudine No Expo, nel tempo e nel freddo. Dentro e Oltre le Cinque Giornate di Milano – Zona Autonoma Milano, Csoa Lambretta, Rete Studenti Milano, Casc Lambrate, Dillinger Project, Collettivo Bicocca
Si sono appena concluse “le 5 Giornate di Milano”: dal 29 Aprile al 3 Maggio, giorni intensi di lotta, scambio e autogestione, protesta, sconfitte e successi.
A distanza di alcuni giorni dalle mobilitazioni lanciate dalla Rete Attitudine No Expo, fra i comunicati che si susseguono, vogliamo prendere parola anche noi su alcune questioni che hanno segnato le piazze, cercando di uscire dallo steccato dei messaggi del movimento per il movimento, che non è stato e non sarà l’unica parte coinvolta nella lotta contro Expo. Abbiamo atteso questo tempo, perché ritenevamo importante affrontare prima un momento approfondito di restituzione e dibattito interno ai nostri spazi e collettivi, oltre che con la rete con cui abbiamo costruito, nel bene e nel male, tutto questo percorso.
Le valutazioni da fare non posso prescindere dal considerare già il 29 Aprile come apertura delle giornate di mobilitazione.
L’iniziativa antifascista nel settantesimo anniversario della Resistenza ha portato in piazza migliaia di persone. La determinazione e la chiarezza messi in campo dalla rete cittadina di “Fascisti e Razzisti no grazie” nel rifiutare chiaramente la parata fascista in ricordo di Ramelli, hanno creato una mobilitazione quanto più allargata e comprensibile possibile.
Il 30 Aprile abbiamo visto una piazza studentesca animata a fine anno scolastico da duemila persone sulla tematica del rifiuto del lavoro gratuito. Per noi è necessario restituire alla giornata di mobilitazione studentesca l’importanza e il valore che ha avuto come prima data delle mobilitazioni cittadine contro Expo. E’ stata una mobilitazione interamente costruita da studenti, medi ed universitari, che ha saputo avere un respiro nazionale e anche internazionale, eterogeneo e trasversale. All’interno del corteo molte sono state le azioni dispiegate, tra cui ricordiamo il sanzionamento del Consolato turco per segnalare le vergognose politiche di Ankara nei confronti del popolo curdo, oltre ai comportamenti tenuti durante l’assedio dell’Isis di Kobane e un colorato intervento sulla facciata di Manpower, l’agenzia interinale che gestisce i “lavoratori gratuiti” per conto di Expo Spa. Queste e altre azioni nascevano e vivevano in un processo collettivo di ragionamento e condivisione.
Altro dato interessante che ci consegna la giornata del 30 è la presenza attiva, e segnalata da continui interventi dal camion, degli studenti di Berlino, Lipsia e Francoforte, segno che dopo Blockupy c’è una volontà comune fra molti in Europa di avere una maggiore convergenza e intreccio sul piano delle lotte. La giornata del 30 ha segnato un passaggio importante all’interno dell’opposizione ad Expo: in una Milano dove il marcio dietro al grande evento è stato occultato da una campagna propagandistica che ha tentato di sbandierare slogan senza sostanza, l’ampia componente studentesca rappresenta la possibilità di coinvolgere la cittadinanza attraverso la partecipazione dal basso e la costruzione di un agire politico comune.
Il mondo della scuola, sceso poi in piazza il 5 Maggio per una mobilitazione interna alla lotta contro la riforma della Buona Scuola, è ancora un terreno fertile per la creazione di mobilitazioni contro modelli di governo imposti dall’alto. Dalla mobilitazione nelle scuole, dal rifiuto del lavoro volontario e gratuito per gli studenti e le studentesse ripartiremo nei prossimi mesi di Expo
Il Primo Maggio Milano è il palcoscenico della ormai tradizionale della Mayday Parade, un corteo musicale e festoso che si è caratterizzato per la capacità di portare in piazza la voce dei lavoratori precari e non solo, in forme sempre nuove, conflittuali e inclusive. Negli ultimi due anni la natura di questa manifestazione è radicalmente cambiata. Con l’avvento di Expo2015 si è deciso di declinare questa manifestazione come momento di conflitto e contestazione al grande evento, oltre che alla precarietà delle vite di tutti/e.
Abbiamo deciso di opporci ad Expo perché rappresenta la fiera della cementificazione e predazione del territorio, della divulgazione di una tipologia di cibo che fa l’occhiolino agli OGM e alle multinazionali, del lavoro gratuito mascherato da grande occasione, della privatizzazione e del debito pubblico, della discriminazione dei generi, delle organizzazioni mafiose, delle tangenti e degli arresti dei suoi dirigenti.
Il Primo Maggio la nostra partecipazione si collocava all’interno di “Expo in ogni città” con lo spezzone “ScioperiamoExpo” con cui si intendeva mettere in questione specificatamente alcune dimensioni.
In primo luogo la vertenza sul lavoro ai tempi di Expo e quindi l’esposizione concepita non come un grande evento, bensì come paradigma che si impone confermando la precarietà come dato strutturale. Expo è promotore di quell’economia della promessa in cui i lavoratori accettano qualsiasi condizione nella speranza di un’esistenza più stabile.
Questo nei cantieri Expo si è tradotto in un aumento incessante dei ritmi di lavoro e nell’annullamento dei diritti, anche in relazione alla tutela.
Per questo abbiamo voluto ricordare Klodian Elezi, il giovane lavoratore morto a causa delle inesistenti condizioni di sicurezza sul lavoro nei cantieri della Teem.
Il percepire Expo come paradigma di un modello di governo del territorio non può non considerare la dimensione europea in cui si colloca. Expo rappresenta un modello di falsa crescita e sviluppo: mentre un comparto pseudo-industriale si arricchisce sulla devastazione della città e della sue dimensioni sociali e popolari, dall’altra parte aumenta il debito a causa dell’ingente investimento di soldi pubblici. Questo modello è pensato per abbattere la possibilità di uno stato sociale in grado di sostenere la popolazione: in un periodo di recessione come questo l’imperativo è tutelare la finanza a discapito dell’economia reale e del benessere collettivo, l’ordine è tenere in vita un sistema già fallito.
Ci siamo diretti quindi al Palazzo delle Stelline sede di rappresentanza del Parlamento e della Commissione europea, obiettivo che si caratterizzava anche per un’urgenza di ordine morale: la messa in discussione delle politiche omicide dei governi europei che, in nome del consenso elettorale e dell’idea dell’Europa come una fortezza da difendere, abbandonano al proprio destino in mare migliaia di profughi e migranti. Si è collettivamente deciso di provare a raggiungere quella sede perché pensiamo che si debba costruire uno spazio europeo dei conflitti, che sappia mettere in crisi le politiche di austerity che stanno spazzando via un gran numero di diritti e conquiste sociali.
Abbiamo deciso di indossare le pettorine dei volontari Expo per raccontare il disastroso accordo fra confederali, Comune e Expo che sancisce la possibilità per una grande impresa privata di abusare di lavoro gratuito spacciandolo come volontariato.
Quest’azione è stata messa in campo in una cornice di condivisione e tutela del resto del corteo da parte di una pluralità di soggetti e collettività da tutta Italia e dalla Germania. Questo siamo noi e non smetteremo di portare con i nostri corpi il nostro dissenso, quando riteniamo calpestati i diritti.
Noi decidiamo con coscienza di colpire punti sensibili della città sede e simbolo di chi calpesta il bene comune per il profitto di pochi.
Lo facciamo con una presenza comunicativa che sappia coinvolgere e far immedesimare chi sfila in corteo per far sentire la propria voce.
Se era doveroso dare conto di quanto le nostre collettività hanno messo in atto, non si può però omettere una valutazione più complessiva anche in merito a quella che è stata la dimensione più enfatizzata dai media. Innanzitutto, come già altri hanno scritto prima di noi, non riteniamo che quanto avvenuto nella piazza milanese sia ascrivibile allo stesso ordine di eventi di Baltimora, Ferguson o di una novella piazza Statuto. Non abbiamo visto una composizione sociale esclusa dalle dinamiche classiche organizzative prendere parola passando ai fatti.
Qualcuno parla di rabbia e rivolta, per noi non c’erano né l’una né l’altra.
Pochi mesi fa, come se non bastassero 7 anni di austerità, l’articolo 18 è stato abbattuto e il Jobs Act ha fatto ulteriore carne da macello dei lavoratori. Le reazioni, a livello di conflitto sociale agito quotidianamente, non sono state all’altezza del momento e purtroppo ci sembra che la situazione, in questi mesi, non sia cambiata in meglio.
Quella che si è dispiegata in tutta chiarezza nel corteo milanese è un’opzione politica che da tempo si affaccia sulle piazze italiane. Chi ha deciso di praticare questa scelta politica ha deciso anche di sorvolare completamente il livello della costruzione condivisa e di agire, consapevolmente, al di là delle modalità che si era deciso collettivamente di tenere, usando come paravento e artificio retorico una presunta rabbia sociale che stranamente si palesa solo nelle piazze strutturate.
Questa “rabbia” è andata a sovradeterminare le impostazioni politiche e di metodo di una rete eterogenea e includente quale è la Rete Attitudine No Expo, snaturando così il significato di un corteo con l’attuazione di pratiche che hanno ipotecato in maniera identitaria il corteo.
Il problema per noi non sono le vetrine o le macchine distrutte, non sono le pratiche in sé, ma i ragionamenti e le elaborazioni: difficilmente possiamo immaginare un immediato futuro in cui si possa trovare un elemento che garantisca la mutua esistenza nostra e di chi si fa portatore di queste tesi, perché questa opzione si pone in maniera di forte incompatibilità con la nostra idea di movimento. Noi crediamo nella partecipazione, nell’allargamento, nella contaminazione, nella divulgazione, nel conflitto radicale, che non si può tradurre sempre e soltanto con il riot di piazza.
La nostra idea di conflitto vive nella costruzione di legami che sappiano rendere la complessità e tengano insieme differenze.
Pensiamo che la tutela delle persone che decidono di compiere dei pezzi di strada assieme sia un elemento cardine e non possa essere subordinato alla pratica di obiettivi.
Chi ci conosce sa bene che non siamo allergici alla conflittualità di piazza, ma questa dovrebbe sempre cercare di aprire spazi, mutare i rapporti di forza, rilanciare. Gli ultimi anni di movimento hanno visto alcune giornate in cui questa potenza si è dispiegata a pieno, anche in una città difficile come Milano.
Quando si torna sui posti di lavoro, nelle scuole e nei quartieri dove si vive quotidianamente e la reazione maggioritaria (tranne poche sacche solidali “a prescindere”) è l’aperta ostilità, un’ostilità che altre volte non si era manifestata, è evidente che qualcosa non ha funzionato.
La giornata del 2 Maggio, passata in sordina, ha in realtà regalato differenti momenti di soddisfazione e, nel suo piccolo, di ripartenza per quanto riguarda la lotta contro Expo. La pedalata verso il sito e il pranzo sociale davanti a Eataly, messo in campo dalla rete di Genuino Clandestino, sono due esempi della risposta tematica e di contenuto a Expo. Mobilità sostenibile, contro mega-costruzioni e svincoli autostradali immensi quanto vuoti, al secondo giorno dell’esposizione. In piazza 25 Aprile, invece, cibo a chilometro zero, rispetto dei produttori e della terra, dalla produzione al consumo finale. Spettacoli musicali e la presenza dissacrante della Clown Army, che ha saputo ridicolizzare l’apparato poliziesco disposto a difesa di Eataly.
Non crediamo con questo di aver espresso meno “rabbia” con queste iniziative, non crediamo che la rabbia sia un’emozione a completo appannaggio di alcun*, di chi la esprime in un solo modo e soprattutto non ci interessa tanto la rabbia in sé, ci interessa tradurla in azione politica, in proposta intelligente e collettiva di alternative reali.
Il 3 Maggio avremmo dovuto chiudere le giornate di mobilitazione con una grande assemblea di rilancio del percorso No Expo e dei sei mesi che ci aspettano. L’assemblea non si è tenuta. In quel momento, infatti, mancava il clima necessario; e tanto ci basta,
Ma domenica 3 Maggio alcune vie di Milano sono state percorse da un corteo silenzioso, se non per i proclami legalitari e perbenisti, che ha espresso la propria indignazione per quanto avvenuto in piazza il Primo Maggio ripulendo i muri dalle scritte e ha voluto così rappresentare il suo orgoglio di appartenenza alla città.
Nessuno tocchi Milano? E’ particolarmente fastidioso se detto da chi non ha mosso un dito per ridiscutere le nocività che il modello Expo porta. Vedere la propria città devastata da opere pubbliche inutili, da cantieri con conclamate infiltrazioni mafiose, la sottrazione di denaro pubblico dovuta a spese esagerate, corruzioni e tangenti, la distruzione del sistema di tutele contrattuali e dei diritti dei lavoratori, l’attacco generalizzato al diritto alla città di giovani, famiglie, anziani, non scalfisce il muro di indifferenza della popolazione meneghina. Sicuramente anche la Rete Attitudine ha le sue colpe, noi stessi abbiamo certamente perso tante occasioni di aumentare la diffusione e la comprensibilità dei nostri messaggi, ma esiste una condizione oggettiva di distacco dei soggetti dall’interesse comune, dall’interesse per “il comune”.
L’atomizzazione delle relazioni sociali, l’individualismo capitalista si è radicato così profondamente nello spirito e nelle abitudini delle persone, nel dibattito pubblico, da generare un triste cortocircuito.
In quella piazza domenica c’erano anche tante persone che hanno affrontato le mobilitazioni migliori di questi anni, o che sono più volte passate nei nostri spazi, o che si spendono talvolta in iniziative di “sinistra” oltre e fuori dai partiti. Comprendere e ricomporre lo scollamento di queste persone dalle motivazioni più profonde del No Expo; ricreare e rafforzare la comunicazione; eliminare la possibilità che un silenzioso corteo del genere si verifichi dopo una qualunque altra manifestazione, saranno i punti principali da aggiungere alla nostra lotta contro Expo da ora in avanti. In virtù della condivisione dei contenuti
Per noi le alternative a questo paradosso sono l’affermazione, la ri-affermazione dell’autogestione, la creazione di una vita comune e di un’alternativa fatta di discorso collettivo, reciproco aiuto e cura.
Con orgoglio ben diverso diciamo che noi “tocchiamo” Milano quotidianamente, nei nostri spazi, nei luoghi dei conflitti.
Perché toccare e intervenire è la nostra modalità di amare e rispettare la metropoli. Noi mettiamo tutti i giorni le mani su e dentro Milano, nei nostri spazi occupati e autogestiti, nei nostri progetti dal basso, aperti e attraversabili da tutti.
Inoltre si torna a parlare di restrizioni al sacrosanto diritto di manifestare, anche attraverso il reato di devastazione e saccheggio, rispolverato ad hoc per questo tipo di occasioni e la cui applicazione è usata come deterrente.
Rigettiamo questa strategia general preventiva inserita in una dimensione liberticida; esprimiamo solidarietà e chiediamo l’immediata liberazione degli arrestati, prime vittime del clima creato ad arte dalla stampa e dai tanti esponenti delle istituzioni cittadine e nazionali.
Insieme alla Rete Attitudine No Expo, ripartiamo dal due Maggio, per proseguire la lotta nei sei mesi di Esposizione ed oltre, nella proposta di iniziative, eventi, manifestazioni che portino alla condivisione vera e reale di una sempre più larga fetta di cittadinanza. Per riconquistare quel consenso che, anche grazie al lavoro dei media e alla loro visione parziale, è stato messo a dura prova. Facendo in modo che i nostri contenuti possano arrivare sempre chiari e non travisati da chi ha il potere di manipolarli.
Ripartiamo dal 20 Giugno giorno della No Expo Pride che avrà luogo a Milano.
Nel tentativo di appropriazione al diritto ad una città frocia e queer, libera da identità releganti e vetrine costruite ad hoc da Expo,dove la differenza non sia rinchiusa ognuna nel proprio ghetto ma sappia vivere e confliggere.
Ripartiamo dal festival degli studenti che animerà il Parco Lambro e ridarà la parola agli studenti per riannodare il filo della discussione.
…E nonostante tutto saremo ancora No Expo, nel tempo e nel freddo
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Contro l’Expo e gli sciacalli del giorno dopo – Collettivo Militant (Noi saremo tutto)
Trentamila persone per una manifestazione addirittura internazionale, lanciata da mesi e contro la *grande opera* per eccellenza, segnano la cornice entro cui ogni ragionamento andrebbe riportato: oggi, se non in rare occasioni, non abbiamo la forza di costruire consenso, veicolare processi di opposizione reale, sedimentare forme di resistenza. Oggi a muoversi sono sempre e solo militanti politici, numericamente sempre meno e sempre più isolati dal corpo sociale che in qualche modo si vuole rappresentare (quello del lavoro: salariato, disoccupato, precario, non pagato, eccetera). I motivi di questo progressivo scollamento sono da ricercarsi dentro di noi, non all’esterno. Non c’è un complotto contro processi di partecipazione, se non la tipica dinamica volta a disincentivarli sempre però presente, in ogni fase della storia, quando questi assumono forma antagonistica. Questo il primo dato da cui partire, che però spiega i motivi per cui, a seconda del contesto, si dovrebbe avere l’intelligenza e la capacità di scegliere lo strumento più adatto per esprimere un messaggio politico.
Per quanto ci riguarda, siamo saliti a Milano con la consapevolezza di partecipare in forma minore, senza velleità protagonistiche, consapevoli che da tempo la città stava investendo tutta l’energia politica di cui è attualmente capace per l’occasione, fidandoci dunque dei compagni che in qualche modo ci si stavano sbattendo. Abbiamo partecipato nello spezzone che consideravamo centrale nel discorso “no-Expo”, quello del lavoro. E’ la questione lavorativa il cuore del significato dell’Expo; sono le forme che il lavoro assume nei progetti pilota quali Expo che minano alla radice le nostre condizioni di vita; sono tali sperimentazioni sociali che poi il capitale generalizza trovando sbocco alla sua necessità di profitto. E’ dunque nella questione lavorativa che si trovano le ragioni della nostra opposizione alla grande opera Expo. Tutelando noi e la metà del corteo dietro agli scontri, abbiamo – insieme agli altri compagni presenti: dai sindacati conflittuali ai collettivi che fondano il proprio agire nella contraddizione capitale-lavoro – garantito che metà corteo giungesse infine alla sua naturale conclusione, evitando la dispersione del corteo stesso.
Non eravamo materialmente presenti nel fuoco degli scontri, evitiamo dunque di parlare di dinamiche che ci vengono raccontate ma che sono frutto di legittime decisioni altrui. Soprattutto, non ci accodiamo al pensiero mainstream che da subito ha iniziato la consueta opera denigratoria. Non c’è un corteo buono e uno cattivo; non ci sono infiltrati; non c’è una parte sana e una malata. Questa cosa va detta con fermezza, in ogni dove. C’è solo tanta rabbia, che va articolata ed espressa nel migliore dei modi (e dubitiamo che questo “migliore dei modi” sia quello visto ieri), ma che in ogni caso non condanniamo perché non è certo il comportamento dei subalterni che oggi può essere messo sul banco degli imputati. Ci sono delle scelte politiche precise e una “narrazione conflittuale” che da tempo ha preso il sopravvento sulla strategia politica. Non è lo scontro e la devastazione il problema oggi. E’ come creare consenso attorno a pratiche conflittuali. E’ questo ciò che manca, ed è da qui che si deve ripartire, e da subito. Non reiterando discorsi e immaginari che vengono poi raccolti da altri, che con più sapienza e coerenza li portano alle estreme conseguenze. E’ tornando a fare politica, cioè costruendo un discorso conflittuale che vada di pari passo al sentire comune della classe. Senza accelerazioni inutili o altrettanto inutili attendismi.
Quelli che oggi inorridiscono e che magari favoleggiano degli anni Settanta dovrebbero tenere in mente che esteticamente non c’è molta differenza tra la Milano di ieri e una qualsiasi manifestazione del ’77: è il contesto che è radicalmente diverso, la cornice politica radicalmente mutata, i numeri, il consenso diffuso, una dialettica politica differente, differenti organizzazioni capace di reggere pratiche di piazza oggi completamente “anarchiche”. Un modello che oggi non può essere riproposto in sedicesimi sperando di azzeccare la combinazione giusta per caso, scontro dopo scontro, quasi che attraverso una sommatoria di pratiche esteticamente simili si possano riattivare magicamente cicli di lotte ormai trapassati. Tra una sfilata pacifica e una Mercedes in fiamme, ci sembra mancare la politica, quella mediazione capace di spostare in avanti il nostro rapporto di forze con i nemici di classe. Che utilizza il conflitto come mezzo e non come fine, trasformandolo in obiettivo politico strategico e sacrificando ad esso ogni discorso di opportunità politica. Ma questo è un discorso che va affrontato tutti insieme. Da oggi va ricostruita un’opposizione all’Expo, vanno continuati i percorsi e vanno liberati i compagni. Soprattutto quelli arrestati ieri negli scontri. E dopo anni di corruzione, scandali, miliardi sottratti alla cittadinanza, nepotismi vari, disastri economici, sociali e culturali, non ci venissero a parlare di danni d’immagine alla città. Non sarà la collera male organizzata dei subalterni a rendere le nostre ragioni meno decisive.
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15 tesi partigiane sul Primo Maggio Milanese – per l’autonomia diffusa
1.“I Black Bloc devastano Milano”. Ecco in sostanza la lettura dei media 1 della giornata del Primo Maggio 2015. Noi abbiamo visto molte cose in quella giornata ma la devastazione, la vera devastazione, la vediamo tutti gli altri giorni: ogni giorno in cui non accade nulla, ogni giorno in cui si muore annegati nel Mediterraneo, sui posti di lavoro, nelle guerre dell’Occidente o da soli, per disperazione.
2. La settimana è cominciata con una grande operazione preventiva da parte della polizia. I quartieri Giambellino, Porta Genova e Prealpi sono stati messi sotto assedio. Tredici perquisizioni, otto case sgomberate, la Base di solidarietà popolare in Giambellino sgomberata e distrutta, decine di compagni portati in questura, due arresti e interi quartieri militarizzati. Questo è il bilancio della strategia della questura che voleva tenere impegnati tanti compagni, logorarli per distrarli dalla giornata del primo maggio. Molti dei fermati durante le perquisizioni erano di origine straniera e per questo sono stati trattenuti per ore in questura all’ufficio immigrazione. Questi compagni sono venuti per partecipare alle cinque giornate di Milano, per conoscere le lotte italiane e condividere le esperienze di lotta che attraversano in giro per l’Europa. La stampa ha approfittato di questi fermi, per la maggior parte conclusasi in liberazioni senza procedimenti penali, per costruire il mostro che poteva terrorizzare preventivamente i partecipanti al corteo e il capro espiatorio da servire in pasto all’opinione pubblica.
3. Questo Primo Maggio milanese è stato una giornata scomoda. È scomoda per i rivoluzionari perché il dato centrale – quello della partecipazione, della determinazione, dell’organizzazione, dell’esistenza di una forza rivoluzionaria capace di mettere in atto il proprio rifiuto del divieto di prendersi il centro –viene messo in secondo piano dalla narrazione maggioritaria. È scomoda anche per quelli che alimentano un immaginario conflittuale, purché rimanga su un piano puramente virtuale, per riproporre sempre la stessa formula scadente: un governo un po’ più a sinistra, uno sfruttamento garantito, un capitalismo sostenibile. Almeno ci vediamo più chiaro: voler essere i buoni rappresentanti di tutti quelli che non hanno e non vogliono rappresentanza o stare in maniera partigiana dalla parte dei rivoltosi non sono due posizioni compatibili.
4. La sfida che hanno davanti tutte le lotte, a cominciare da quella per l’abitare, è quella di coniugare due aspetti: partecipazione e conflitto. Man mano che le lotte crescono si prova a mettere insieme, anche in piazza, quelle due dimensioni. Se uno dei due elementi viene a mancare, si rischia di cadere nell’auto rappresentazione di una minoranza attiva incapace di determinare alcun cambiamento di rotta. La partecipazione è stata numerosa ed eterogenea, nonostante il clima di terrore creato nei giorni precedenti. Lo spezzone delle lotte sociali è stato tra i più nutriti del corteo. C’erano i comitati e gli occupanti di quartiere, che portano avanti ogni giorno una lotta reale lontano dai riflettori e dal centro della metropoli. Una lotta per l’abitare, che parte dall’avere un tetto sopra la testa per arrivare alla costruzione di quartieri più vivibili. C’erano anche tanti giovani precari e disoccupati che nel modello Expo non si riconoscono e non vogliono regalare il proprio tempo agli schiavisti del grande evento e hanno preferito scendere in piazza a manifestare la propria opposizione, la propria rabbia. Tante lotte diverse e tanti gesti hanno convissuto rendendo la giornata intensa: c’è chi ha fatto cori e chi ha resistito alle cariche, chi ha ballato il tango e chi la techno, chi ha raccontato la propria lotta a tutta la città e chi ha scritto sui muri con il volto coperto. Un obiettivo è stato sicuramente raggiunto ed era forse quello più importante: da un anno a questa parte la parola d’ordine che ha più risuonato nelle assemblee No Expo era “facciamo male a Expo”. Gli è stato fatto male.
5. Certi gesti sono stati inutili o addirittura sfavorevoli in quel contesto, in quel momento preciso? Crediamo che un gesto sia rivoluzionario non per il suo contenuto, ma per il concatenamento di effetti che genera. I moralisti che elogiano o condannano delle “pratiche” a prescindere, senza mai tenere conto del contesto in cui vengono messe in atto condividono una stessa cecità. Una macchina messa in mezzo alla strada per impedire alla polizia di avanzare e massacrare il corteo non sarà mai la stessa cosa di una macchina sfasciata in mezzo ai manifestanti quando l’urgenza è quella di difendersi tutti insieme. Certi gesti, indirizzati verso obiettivi scelti a caso, rischiano di dimostrare per lo più frustrazione e mancanza di prospettiva, non mettono un granché sul tavolo dell’avanzamento rivoluzionario. Le migliori azioni sono quelle che non hanno bisogno di troppe spiegazioni per essere comprese da tutti, amici come nemici. L’assedio al cantiere di Chiomonte parlava chiaro, come sarebbe stato chiaro se qualcuno il Primo Maggio se la fosse presa con la sede di Expo o, perché no, con la Borsa.
6. Finché non comprendiamo che il potere va minato nella sua materialità come nel suo discorso, il nostro agire rimarrà parziale, e quindi debole. Sabotare il capitalismo significa sì praticare degli obiettivi ma anche saper neutralizzare gli effetti negativi della narrazione mediatica del giorno dopo. Pensare questa neutralizzazione d’anticipo deve essere parte dell’azione stessa. E questa, diciamolo con umiltà, è stata la mancanza più grande della giornata del Primo Maggio. Da questo punto di vista la strada da percorrere è ancora tanta. Quando il conflitto si manifesta, pensare di gestirlo integralmente, governarlo, pascolarlo è contemporaneamente ingenuo e sintomo di delirio di onnipotenza. D’altronde è compito di tutti sviluppare un’intelligenza strategica collettiva rispetto al sentimento generale con cui una determinata azione viene accolta. Il discorso non è, come si potrebbe erroneamente pensare, pretendere di indicare cosa è giusto e cosa è sbagliato in assoluto. Il discorso verte piuttosto su una questione di immaginario. Occorre quindi alimentare giorno per giorno un immaginario “altro” che sia desiderabile e reale, capace quindi di avere qualcosa di meglio da proporre rispetto al sogno di un’automobile di lusso. Su questo, purtroppo, il movimento rivoluzionario è ancora troppo carente.
7. Centrare l’analisi della giornata su alcuni gesti tutto sommato secondari rischia di far perdere di vista il fatto che l’obiettivo che si sono dati tanti manifestanti è stato in parte raggiunto: la zona rossa è stata rifiutata con chiarezza. Per chi c’è stato, per chi ha un minimo di onestà intellettuale, la situazione era chiara: non c’è mai stato unicamente un blocco nero che spaccava tutto a caso ma un concatenamento eterogeneo di persone che ha voluto dirigersi verso l’obiettivo iniziale della manifestazione, il centro di Milano. Erano molti di più di qualche centinaio di cui parla la stampa. Sarà mai che dietro quelle sciarpe nere c’era qualche occupante di casa, qualche precaria, o qualche studente incazzato?
8. Degli errori sono stati commessi, come ne commettono sempre i rivoluzionari mentre tentano di aprire o di cogliere delle possibilità di conflitto. Chi non ci prova mai, chi auto-riproduce sempre sé stesso e non si rimette mai in questione, chi, anche in buona fede, aspetta da sempre che arrivino le giuste “condizioni oggettive” di certo non rischia di sbagliare. Rischiare però non significa mettere in pericolo anche chi non è disposto a mettersi in gioco in prima persona e crediamo che i manifestanti organizzati per l’autodifesa del corteo l’abbiano dimostrato. Forse anche questo aspetto non è stato notato da chi aveva già deciso di accettare di fatto al divieto della questura e di stare il più lontano possibile da ogni forma di conflitto. E’ d’altronde ingenuo credere che dopo sette anni di silenzio mediatico nonostante gli innumerevoli scandali di Expo, bastasse sfilare pacificamente per convincere i media che i No Expo hanno ragione.
9. Riprendere la strada della lotta quotidiana, contro l’Expo, nei quartieri, per l’abitare, non sarà di certo facile e la repressione proverà ad ostacolarci ancora di più. Ma facciamoci una domanda, senza polemica, una domanda onesta: se non ci fosse stata quella prova di conflitto, con che faccia si poteva tornare in quelle lotte, dopo aver proclamato in mille modi che l’inaugurazione di Expo andava ostacolata, scioperata, sgomberata? Allora parliamoci chiaro: vogliamo la rivolta ma senza i rivoltosi, con i loro pregi e i loro difetti? Vogliamo manifestare ma solo quando e dove ce lo dice la polizia? Vogliamo la MayDay internazionale ma solo con ordinate delegazioni di rappresentanza? Vogliamo i Greci ma solo di Syriza? Vogliamo la rivoluzione gentile, senza problemi, senza repressione? Vogliamo il conflitto ma solo a parole? Ricoprire le pareti dei nostri posti, i nostri manifesti, i nostri vestiti di bandiere rosse, nere, curde, di immagini di rivolta e di barricate, riempirci la bocca di slogan altisonanti e mai dare un contributo, anche rischiando di sbagliare, per fare in modo che quell’immaginario si riversi nelle strade?
10. E se non fosse successo nulla? E se fosse stata una manifestazione come le decine a cui giustamente partecipiamo il resto dell’anno? È da questa domanda che dovremo partire per riuscire ad affrontare con sincerità la complessità della giornata del Primo Maggio. Non era una semplice Mayday e chi lo pensa è lontano dalla realtà. L’inaugurazione di Expo segnava un momento importante per chi lotta ogni giorno, per chi non è più disposto a subire. Non era una data come le altre perché il capitalismo italiano si metteva in mostra e festeggiava l’inizio di una nuova fase di devastazione e speculazione. Il consenso non si guadagna solo con l’enunciazione di buoni propositi, ma anche con il coraggio e con la capacità di forzare anche i nostri meccanismi di autoconservazione. Più che il consenso virtuale ci dovrebbe interessare la possibilità di sviluppare degli incontri che possano creare dei legami veri. In questo osare si può anche sbagliare, e ne siamo consapevoli, le cose non sono andate perfettamente come avremmo voluto, ma meglio trovarsi a discutere su cosa non è andato, su come possiamo migliorare la prossima volta, che dover vivere col rimorso o peggio ancora autocelebrare la propria “integrità politica”. A chi invece sputa sulla costruzione politica che componeva uno degli spezzoni variegati del corteo, diciamo che le situazioni non sono solo da godere a proprio piacimento, ma anche da costruire.
11. Mentre c’era in corso la MayDay a Milano i rivoltosi di Baltimora spaccavano vetrine di banche tra le urla festanti della gente e i compagni di Istanbul attaccavano la zona rossa e resistevano alla polizia. Ma si sa, il Black Bloc a distanza è sempre più bello e la zona rossa del vicino è sempre più rossa. Siamo consapevoli della differenza del contesto sociale e della composizione delle piazze in cui questi riot avvengono. Ma non c’è bisogno di andare lontano ed evocare questi esempi, o Kobane o Ferguson, per evidenziare il conservatorismo di alcuni politicanti di movimento: basta tornare a novembre 2014 e ricordare che mentre i quartieri popolari di Milano erano in rivolta qualcuno preferiva tenersi stretto le proprie “conquiste”, senza cercare di contaminarsi o di incuriosirsi. Le rivolte si parlano, si rispondono più velocemente che sui social network, hanno la capacità di cogliere il momento e hanno qualcosa da dire sul mondo, molto di più dei grigi comunicati che escono da assemblee di addetti ai lavori senza passione, senza amore, senza gioia. Le tristi beghe egemoniche e gestionali, la contabilità tra le parrocchie di movimento fa dimenticare a molti che fuori c’è un mondo a cui non frega niente di queste piccolezze.
12. Ancora una volta il gioco della divisione tra pacifico e violento è opera sia di chi governa sia di quella parte di sinistra che crede che per farsi sentire basti ridurre la questione del conflitto a un discorso morale. Non si tratta di fare l’elogio dello scontro minimizzando le infinite altre pratiche che creano avanzamento, anzi crediamo che stia proprio qui la chiave per uscire dalla falsa opposizione tra pacifico e violento. Le pratiche di lotta, siano queste una marcia popolare, delle azioni fuori dalla legalità o dei sabotaggi devono essere valutate da un punto vista strategico e non da un principio ideologico. Gli obiettivi politici non si misurano con eventuali arresti o attacchi da parte del nemico, ma con ciò che la pratica di questi obiettivi possa creare a livello di avanzamento a medio e a lungo termine. E sappiamo bene che saremo sotto attacco anche da chi crede di avere in tasca l’abc della politica, ma sarebbe meglio che costoro guardassero fuori della finestra del proprio centro sociale perché c’è un mondo al di là della propria pratica militante formato famiglia. Per noi ciò che conta è l’avanzare delle lotte e per questo rischiamo e ci organizziamo.
13. Quello che sta accadendo in questi ultimi giorni a Milano è l’emblema dell’ipocrisia della borghesia milanese che si indigna e prende posizione contro i danni del corteo, perché difende la propria città e crede ingiusto che sia “devastata”, ma tace davanti a decenni di sventramento della città, alla distruzione di parchi e alberi per fare spazio al cemento, alla gentrification di intere zone. Così come non dice mai niente della violenza con cui nei quartieri popolari delle famiglie vengono buttate in mezzo a una strada, della speculazione edilizia che arricchisce sempre di più la mafia del mattone, del lavoro gratuito per i giovani precari che vogliono costruirsi un futuro. L’operazione #NessunoTocchiMilano ci sembra un automatismo del cittadino che per lavarsi la coscienza scende in piazza, così come adotta un figlio a distanza per sentirsi solidale. I riflettori a un certo punto si spegneranno e i muri torneranno ad essere imbrattati non solo dai No Expo ma anche dai tantissimi ragazzi e ragazze che scrivono la propria storia, lasciando il segno del proprio passaggio sui muri.
14. Saranno tempi difficili, su questo non ci sono dubbi, ma crediamo che questa scommessa andava fatta e che i risultati politici li vedremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Non accettiamo il ricatto per cui si dice che da ora gli spazi di agibilità saranno ristretti e quindi era meglio non fare niente. Forse la gestione dell’ordine pubblico a Milano cambierà e lascerà meno margini, ma la pacificazione a cui ci avevano abituato e su cui faceva leva la questura andava superata. Non è con la convivenza pacifica ma è solo con la lotta che riusciremo a strappare l’agibilità politica che la controparte ci vorrà togliere nei prossimi tempi. Sui territori raccoglieremo la forza o la debolezza delle nostre scelte, la sfida ora è quella di allargare, di conoscere nuovi amici, di tessere nuove relazioni, di scoprire nuove lotte. Ci sono vari compagni e compagne arrestati: a loro va la nostra intera e sincera solidarietà. Strano e assurdo pensare che i devastatori dei nostri territori vogliano riutilizzare l’accusa di devastazione e saccheggio come vendetta contro chi individueranno come colpevoli di aver rovinato la festa ad Expo. Si parla di un reato che prevede una pena che arriva a 15 anni. E su questo c’è da riflettere sopratutto quando ci si abbandona facilmente a condanne: non possiamo lasciare soli i compagni arrestati o che lo saranno in futuro, che facciano parte della nostra collettività o meno. Crediamo sia giusto lanciare da subito un appello a sostenere questi compagni e ad attivarsi ognuno nelle proprie città per rompere l’isolamento che cercheranno di creare loro intorno.
15. Le giornate come questa forse hanno tanti difetti però sicuramente un pregio ce l’hanno: quello di segnare uno spartiacque tra chi lotta misurandosi con la realtà per tentare di cambiarla e chi condanna, si indigna o pretende di dare lezioni. In questi giorni abbiamo visto un’istantanea di due mondi inevitabilmente inconciliabili: la società per bene, che abita le vie ricche del centro e insieme a Lega e PD cancella la scritta “Carlo vive” da una parte, e le migliaia di “Carlo” senza nome e col cappuccio che hanno resistito nelle strade. Lasciamo ad altri la posizione altezzosa di chi si permette di giudicare da lontano quale riot sia giusto e quale è sbagliato e scegliamo di stare ancora una volta in mezzo alla mischia, in mezzo alle contraddizioni, dove sta il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti.
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Expo: torna il partito della paura e ci affoga di debito, cemento e precarietà – Indicom – Indipendenti per il comune: Laboratorio Acrobax, Alexis Occupato
Dopo qualche giorno dal 1° maggio, prendiamo parola e lo facciamo a seguito di una condivisione collettiva della piazza milanese a cui, con determinazione, abbiamo partecipato. Una mobilitazione ricca e condivisa da migliaia di persone, frutto di un lavoro lungo e approfondito che i compagni di attitudine no expo – alcuni peraltro di vecchia data e di cui non abbiamo mai dubitato della generosità nell’incentivare percorsi di lotta virtuosi – hanno svolto nei propri territori e in lungo e in largo per tutta Italia. Nei loro occhi in questi mesi abbiamo visto la generosità, umana e politica, di chi prova a mettere a disposizione una data in un percorso più ampio e nell’ottica della collettività di tutti e per tutti.
Il grande e cospicuo lavoro della rete Attitudine No Expo ha fatto si che sfilassero più di 30.000 mila persone. Un lavoro a partire dall’apertura dei territori, dove la sinergia tra i veri agricoltori a km zero si è fusa con le vertenze antispeciste e dove i ragionamenti sul lavoro gratuito e sull’economia della promessa – a cui i 18.500 volontari di expo stanno, purtroppo, credendo – si sono fusi con le tante esperienze che i movimenti per il diritto all’abitare stanno producendo a livello nazionale. Partiamo, quindi, dall’assunto che per noi questa pluralità di convergenze e istanze di lotta è una ricchezza che va coltivata, va preservata, va nutrita con intelligenza e responsabilità collettiva.
E’ inutile fare una ricostruzione in cui molti, sia nel movimento che dai pulpiti dei media mainstream, si sono già cimentati; ci interessa, invece, riflettere su quelle che sono i risultati politici prodotti da quella giornata.
Due giorni dopo il primo maggio una manifestazione capeggiata da Pisapia, ha sfilato per Milano, non facendo altro che far regredire e diluire i contenuti della Mayday Noexpo, dando sponda a quell’attivazione di piazza che Renzi non avrebbe potuto immaginare o sperare. L’Expo2015 ha, così, trovato i suoi attivisti che si sono assunti la responsabilità di dare corpo a quello che fino ad oggi era rimasto solo nel virtuale dei social network, peraltro sfiancati dalle ragioni del No. E alla 20.000 persone che hanno partecipato alla manifestazione di Pisapia, la cui chiave elettoralistica è chiaramente intellegibile, verrebbe da chiedere dove eravate quando Klodian, a soli 21 anni, è morto cadendo da un ponteggio dell’Expo? Dove eravate quando il 23 Luglio 2013 CGIL CISL e UIL hanno firmato l’infame accordo con Expo2015 SpA accettando di “ratificare, per la prima volta nel diritto del lavoro, il ricorso al lavoro gratuito” affossando definitivamente il futuro di migliaia di giovani? Dove eravate quando la Rete No Expo denunciava la gestione mafiosa ed affaristica dei finanziamenti pubblici?
Ma una cosa la dobbiamo dire con chiarezza, quando c’è spazio per la protesta della “maggioranza silenziosa”, significa che ci sono ancora molti vuoti da colmare da parte delle forze anticapitaliste, e quei vuoti vengono riempiti da opzioni conservatrici, quando non apertamente reazionarie.
Parlando di risultati, quindi, quello che rimane è un partito della paura, che sventola lo spauracchio dei “black bloc” e di “duri scontri” per celare l’ipocrisia di una città saccheggiata, nella terra, nei diritti, nella dignità e nelle casse. Pensi anche a questo Pisapia quando sceglierà se ricandidarsi o meno, perché le bolle mediatiche sugli scontri si sgonfieranno, mentre la gestione mafiosa, il cemento, i debiti e la precarietà generata da Expo2015 rimarranno come fondamenta dell’area metropolitana di Milano e come caposaldo del nuovo reparto di geriatria che il ducetto Renzi sta costruendo.
E proprio a questo punto siamo fermi da almeno 7 anni, inizio della crisi, in cui una larghissima parte del tessuto sociale italiano rimane assuefatto a galleggiare (pronto a rincorrere la schiavitù di Expo con la promessa di conquistare un lavoro qualsiasi) e a guardare Renzi che riscrive l’inno (e la costituzione) italiana dichiarando la fine del capitalismo di relazione e inneggiando a quello ugualmente spietato e freddo delle meritocrazie multinazionali e della precarietà senza diritti e reti di salvataggio. Neanche quelle famigliari.
Conflitto senza o contro il consenso?
In questo contesto, da mesi una larga rete si è mobilitata, riuscendo ad organizzarsi, a prendere parola e costruire visibilità su queste tematiche, provando a costruire una complessa analisi di un altrettanto complesso e paradigmatico passaggio rappresentato da Expo.
E qui viene il bello, a che serve discutere e confrontarsi, trovare un terreno comune e provare a connettersi? A che serve, se tanto l’orizzonte è rappresentato dalla morte del capitalismo o dalla vita specchiata in cui comunque vale la regola del più spregiudicato? Addirittura dove un gesto, a discapito delle parole e dei pensieri, diviene l’asticella sotto la quale si diventa inutili, riformisti se non addirittura pericolosi nemici?
In una gara costante a chi “ce l’ha più lungo”; noi tranquillamente rifiutiamo l’ansia da prestazione né abbiamo voglia di dimostrare le nostre capacità. Chi ci ha conosciuto lo sa, chi sarà curioso lo scoprirà; tutto il resto è la parte peggiore di quello che qualcuno ha definito porno-riot ovvero pura estetica della distruzione.
Nel nostro agire politico, sia chiaro, le rotture sono considerate più che lecite, a patto però, che esse producano un reale grado di avanzamento nella lotta di classe, incanalando rabbia e conflitto in termini affermativi, creando consenso e processualità nei movimenti. La strategia di contenimento attuata dalla governance a Milano il 1° maggio è stata utile, peraltro, a riabilitare le forze dell’ordine elogiate per la “gestione oculata della situazione” dopo la condanna della Corte europea per le torture realizzate a Genova 2001.
La giornata milanese, quindi, pone o ri-propone una vecchia questione sull’egemonia e sul consenso, oltre che, chiaramente, sulle pratiche. E ci sembra che la lezione, di gramsciana memoria, sia interpretata nel peggiore dei modi, per cui si fraintende la propria visibilità e la propria sovra-determinazione come un’opzione che convince. Se addirittura “la visibilità si conquista a spinta” a scapito di chi è al nostro fianco nelle lotte, anche radicali, a fianco, per mesi, nei processi decisionali, si produce un paradossale rovesciamento in cui l’alleato diventa lo sciacallo giornalistico. E in questo paradosso, il processo decisionale collettivo diviene un ostacolo sulla via della rivoluzione.
Il risultato finale, che prima o poi consigliamo di valutare con occhio distaccato e critico, è che il movimento è spaccato e il resto della prateria a cui si vuole parlare rimane ancora una volta in secondo piano.
Quindi la questione di consenso posta a Milano, non è tanto riscontrabile in quello mancante della società civile che i media mainstream prontamente strombazzano, ma quello contro cui ci si è attivati.
E’, infatti, con quel consenso minimo costruito in mesi di assemblee di movimento con cui si deve far i conti. In questo paradosso (o miseria?) quella dicotomia tra morte e vita, posta ad esempio da Berardi Bifo, diviene inutile e novecentesca quanto sfilare per diritti e costituzione, perché è un gioco a somma zero.
La pentola a pressione (pratiche e conflitto)
E lungi da noi aver trovato una qualche risposta, continuiamo a trovare, invece, molte domande.
Una delle prime riguarda le pratiche e il loro senso politico nella volontà di costruire movimento per il conflitto e la trasformazione. A tal proposito ci interroghiamo, da diverso tempo ormai, sul perché continuare a costruire pentole a pressione in cui nessuno è comodo per scegliere le pratiche che preferisce.
Perché non pensare, come avviene sempre più frequentemente nelle esperienze più virtuose in Italia e in Europa, a lavorare per costruire un piano politico condiviso sui contenuti, che possa rappresentare ed essere condiviso come piano politico e sociale, riconoscendo cittadinanza a tutte le pratiche conflittuali? Perché non superare noi stessi in primis la divisione in “buoni” e “cattivi” scegliendo di costruire momenti differenziati in cui tutti, in un verso o nell’altro, siano costretti a confrontarci per non sfuggire alle proprie responsabilità politiche?
E’ per noi necessario sprovincializzare l’Italia per connettersi ai movimenti e alle reti internazionali, costruendo spazi transnazionali di opposizione all’austerity, così come avvenuto a Francoforte nella giornata di mobilitazione di Blockupy durante i blocchi e la manifestazione contro l’inaugurazione della nuova sede della BCE. Per questo come Scioperiamo Expo ci siamo diretti verso la sede dell’Unione europea, con l’obiettivo di denunciare la violenza delle politiche di austerity imposte dalla Troika.
Probabilmente se riuscissimo ad evitare alibi del “troppo violento o troppo poco”, riusciremmo anche a costruire un processo politico centrato sui contenuti da animare con differente attitudini, senza agitare schermaglie retoriche. Avere il coraggio di intraprendere scelte in una chiara composizione politica di classe, a partire anche da questo.
Scioperiamo Expo
Dunque torniamo dall’esperienza milanese con la convinzione che un difficile lavoro ci attende e, ammettiamolo, con un discreto amaro in bocca. Abbiamo imparato sulla nostra pelle che la rabbia sociale è solo uno dei parametri e spesso, purtroppo, è anche inesatto.
Sappiamo che molto si sarebbe dovuto fare, innanzitutto sul piano del lavoro precario e volontario, ma che, noi per primi, non abbiamo avuto la capacità di portare avanti fino in fondo. Eppure sappiamo che il paradigma di Expo è il paradigma (anche quello del controllo) con cui ci confronteremo da oggi in poi. A noi la possibilità di intraprendere un percorso ambizioso, che non solo punti ad incendiare quella prateria ma che sia capace di costruire quella vita che vorremo contrapposta alla morte del capitalismo. Una vita che non vogliamo riempire di feticci, ma riempita di capacità attiva all’insubordinazione, così, come di riappropriazione di spazi decisionali diretti, oltre che alla costruzione di cooperazione sociale.
Non è più il momento di dare lezioni ma di imparare a costruire una sfera orizzontale che sappia produrre, a partire da quello e senza scorciatoie (tanto meno di tipo elettorale), eventuali verticalizzazioni.
Noi, nel nostro piccolo e per quel che valiamo in questa fase di movimento difficile, complicata e pesante, abbiamo deciso di aderire e portare il nostro contributo allo spezzone Scioperiamo Expo, insieme agli attivisti dei laboratori dello Sciopero Sociale. E lo abbiamo fatto perché da mesi, insieme a tante altre realtà nel territorio nazionale e reti internazionali stiamo cercando di ri-significare la pratica dello sciopero che in questa fase storica vediamo praticabile solo nelle forme di uno “sciopero sociale”. Ovvero un assioma linguistico in cui “la parola sciopero sottintende il fatto che è di forza di produzione di lavoro (precario se non addirittura gratuito) di cui stiamo parlando mentre sociale implica che sono tutti gli aspetti ed ambiti della vita ad esserne coinvolti rendendo la condizione precaria l’elemento dirimente dello stesso sciopero”.
Uno “scioperiamo Expo” che allude ad uno sciopero dentro e contro la precarietà, contro lo sfruttamento intensivo, il business della disoccupazione giovanile (Garanzia Giovani) e la codificazione del lavoro gratuito imposta dai sindacati concertativi. Uno sciopero transnazionale, che blocchi realmente i flussi produttivi, contro tutte quelle forme plurali di lavoro gratuito che nell’era del capitalismo cognitivo siamo costretti a subire. Uno sciopero contro quel dovere imposto di mostrarsi sempre disponibili, flessibili e occupabili a costo zero come se fosse meglio essere schiavi a termine piuttosto che poveri senza un futuro e prospettive.
Noi scegliamo questo processo per costruire quei terreni comuni, di sperimentazione e confronto, uno spazio collettivo e sociale che sappia essere spazio politico, senza dover azzerare le differenze in un supposto soggetto politico.
Il nostro modo per continuare la nostra attitudine NoExpo.
Il nostro modo per affrontare un modello provando a costruire un tempo da battere, che sappiamo né veloce né immediato, ma che sia nostro.
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà agli attivisti arrestati, nessuno deve rimanere da solo, soprattutto in un momento in cui vengono richieste “condanne esemplari”, insistendo sull’infame reato di “devastazione e saccheggio”. Tutti Liberi/e.
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Lo spazio dei movimenti e la guerra simulata – DinamoPress
Alfano chiede di vietare le trasferte per i cortei, a Milano e in tutta Italia è caccia ai black bloc, meglio ancora se stranieri, la procura milanese ha aperto un fascicolo per devastazione e saccheggio, i telegiornali mandano in loop le immagini degli incidenti. Arriva il coro unanime di condanna e indignazione. Qualche immancabile sociologo d’accatto non riesce a trattenersi dal dire la sua, Saviano tesse le lodi delle forze dell’ordine. Un film già visto, ma con l’ossessione per il decoro che diventa soggetto politico della Reazione. Con quella sorta di riedizione della “Marcia dei 40mila” guidata da Pisapia, con leghisti e “democratici” che “ripuliscono” insieme la città.
Del fallimento di Expo, dei lavori in deroga e in scarsissime condizioni di sicurezza, dello sfruttamento intensivo, dell’ipocrisia delle corporation che affamano il pianeta si preferisce non parlare. Non ora, adesso è il tempo di costruire il nemico interno per nascondere lo scempio che sta andando in onda nella realtà: corruzione, infiltrazioni mafiose, il pubblico piegato agli interessi di pochi, i ricchi che diventano sempre più ricchi.
Venerdì 1 maggio abbiamo partecipato assieme ad altre 30mila persone alla May Day No Expo di Milano. Assieme a molte altre realtà nazionali, europee e milanesi abbiamo costruito lo spezzone “Scioperiamo Expo”. Perché l’Expo milanese è soprattutto, per quanto ci riguarda, il paradigma dello sfruttamento del lavoro contemporaneo. Lo scellerato accordo sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil, istituzionalizza di fatto il lavoro gratuito, legalizzando forme di neo-schiavismo salariale. Expo come paradigma dell’economia della promessa, quella che ripaga in “esperienza”, utile per allungare il curriculum e arricchire il capitale umano, lasciando intatta la miseria quotidiana con il miraggio di un domani migliore. Ma che resta sempre un domani. Abbiamo portato in piazza i percorsi di autorganizzazione sociale dei precari costruiti dall’autunno ad oggi all’interno dei laboratori per lo sciopero sociale, nella mobilitazione contro il piano Garanzia giovani, contro il lavoro gratuito e sfruttato dentro scuole e università.
Dal corteo abbiamo deciso di staccarci per andare verso la sede dell’Unione europea, con l’obiettivo di denunciare le politiche neoliberiste e di austerità garantite dalla Bce e della governance della Ue, come già avevamo fatto lo scorso marzo a Francoforte nei giorni della mobilitazione di Blockupy. Qui ci siamo scontrati con determinazione contro l’incredibile apparato di sicurezza che ha militarizzato la città, portando gommoni e salvagenti per denunciare le responsabilità della Fortezza Europa nell’aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero. Abbiamo costruito uno spezzone europeo perché siamo convinti che ogni rottura del presente possa ormai darsi solo a livello transnazionale, misurando a questa altezza ambiziosa la sfida dei movimenti sociali.
Crediamo, però, di dover affrontare i nodi politici che la giornata ci consegna. Perché di nodi politici si tratta. Proprio perché non crediamo che quanto accaduto possa essere letto con la categoria del “teppismo”, riteniamo che questo sia espressione di una strategia politica e come tale vada trattata.
Per farlo è necessario prima di tutto sgomberare il campo da equivoci: chi ha praticato l’assalto ai negozi, a filiali bancarie e dato fuoco alle macchine in sosta, lo ha fatto in maniera organizzata, praticando un’opzione politica assolutamente legittima ma che non condividiamo e che crediamo non debba essere confusa con altre forme di espressione. È francamente ridicolo chi intravede, ogni volta, la ripetizione di una nuova “Piazza Statuto”, l’irruzione plebea di nuovi soggetti sociali che farebbero saltare le vecchie logiche organizzative del movimento. Questo è accaduto e accadrà, ma non questa volta. Il primo maggio a Milano non ha visto nessun riot o tumulto, non era Baltimora e neanche piazza del Popolo a Roma il 14 dicembre 2010. Noi, che al corteo c’eravamo, non abbiamo visto alcun “evento”, alcuna “eccedenza” né, tantomeno, alcuna “destituzione”. Forse, per la precisione, tutto l’opposto: nessuno spazio politico è stato aperto, nessuna faglia nel consenso all’evento si è prodotta, nessuna identità, sociale o politica, è stata messa in discussione. Ognuno può rimanere comodamente ai posti di partenza.
Un corteo partecipato e plurale è stato cannibalizzato da parte di un’opzione politica significativa ma di certo non maggioritaria. Non ci dissociamo, non condanniamo quanto avvenuto, rispediamo al mittente le criminalizzazioni mediatiche, chiediamo la liberazione di tutti gli attivisti fermati e che andranno a processo nei prossimi giorni rischiando di pagare per tutte e tutti. Tuttavia, tutto questo non può far dimenticare che la potenziale politicizzazione di un campo sociale è rimasta chiusa nell’ambito della «pura amministrazione» di un fatto di piazza, uguale nei codici e nei simboli, nel dibattito stesso che ha prodotto, ad altri che abbiamo già conosciuto e che continuano a ripetersi uguali a se stessi a prescindere dal contesto e dagli obiettivi contro cui si lotta. Proprio come il neoliberalismo, toglie di mezzo qualsiasi spazio di organizzazione collettiva dei precari e dei poveri, così l’opzione politica emersa a Milano assume la “folla solitaria” come unico agente della trasformazione. Nessuno dubita che questa sia, propriamente, un’opzione politica. Abbiamo invece più di qualche dubbio che essa possa dirsi rivoluzionaria.
È sotto gli occhi di tutti quanto le elité capitalistiche siano oggi disposte a congelare le contraddizioni e le spinte alla trasformazione in una logica di guerra, per conservare i rapporti sociali di potere che si stanno consolidando nella crisi. Solo una cosa è per il capitale è preferibile alla guerra: la sua versione simulata.
Conviene però non chiudere qui la questione. Se è utile partire da una considerazione critica della giornata di Milano, pensiamo che questa debba riguardare tutti i soggetti che, in un modo o nell’altro, hanno dato vita alla manifestazione. Tempo fa, su questo stesso sito, avevamo provato ad alimentare una discussione pubblica sui limiti stessi del movimento italiano e delle culture politiche che lo compongono. L’abbandono di qualsiasi prospettiva strategica e programmatica ci era sembrata l’altra faccia da un lato, della riduzione della forma-movimento ad un confronto asettico e auto-referenziale tra famiglie e aree politiche e, dall’altro, dell’iniziativa politica ad una serie di contro-eventi. La definizione di nuove sperimentazioni organizzative, la coalizione fra differenti esperienze di “sindacalismo sociale”, l’articolazione fra radicamento e conflittualità molecolare e scadenze centrali, l’individuazione di ciò che è “fuori” dal movimento organizzato come il terreno su cui intervenire, ci erano sembrate l’unico modo per superare questo stallo. Una parte consistente del movimento ha intrapreso questa sperimentazione negli ultimi mesi, nella consapevolezza che essa comporta, necessariamente, l’abbandono di qualsiasi logica delle “identità”: il rovesciamento dei rapporti sociali si può agire solo “dentro” la società. Suscitare empatia ed essere intellegibili per aprire delle contraddizioni.
Non è certo il primo maggio a Milano ad averci fatto scoprire l’esistenza di queste differenti opzioni in campo. Il corteo milanese ci ha solo reso maggiormente consapevoli della loro crescente incomponibilità. Su tutti gli altri, per un motivo fondamentale: chi agisce la “guerra simulata” ritiene che, oltre sé stesso e i suoi simboli, vi sia uno spazio sociale già completamente colonizzato dal capitale. Che fra se stesso e il bancomat non ci sia nulla, tranne la magra possibilità di esprimere simpatia per l’uno o per l’altro. Per questo se ne frega del consenso. Per noi, invece, quello spazio di mezzo è uno spazio aperto, l’unico che conta perché oggetto di una contesa continua fra poteri contrapposti. È sulla possibilità di spostare i termini di questa contesa, di espanderla e di radicalizzarla, che si misura l’efficacia di un’azione collettiva. Quello stesso spazio che per noi deve essere attraversato da processi di politicizzazione e organizzazione, è lo stesso che rischia ogni volta di essere prosciugato e consegnato ad un gioco delle parti senza alcun residuo. Quando non apre a dinamiche di politicizzazione a noi avverse, come quella capitanata in questi giorni da Pisapia.
La giornata milanese, dunque, lascia sul tappeto, e rilancia con maggiore forza, la sfida per una trasformazione di ciò che comunemente intendiamo per movimento. Superati i commenti e le prese di posizione, è attorno a questa sfida che conviene riprendere la discussione.
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ExPost – Spazio Politico Comune Global Project
Partiamo dai numeri, non per mero calcolo statistico, ma perché rappresentano un elemento preziosissimo sul piano politico. Trentamila persone hanno manifestato contro il dispositivo Expo, contro i nuovi paradigmi di sfruttamento e finanziarizzazione della vita e dei territori, contro il modello di metropoli gentrificata ad uso e consumo del capitale, contro l’idea che a nutrire il Pianeta siano le multinazionali dell’agricoltura industriale.
Trentamila persone che esprimevano una composizione transnazionale ed eterogenea, che non si è fatta intimidire dal clima di terrore imposto sul “movimento No Expo” da governanti e stampa mainstream e dall’ondata repressiva scatenatasi nei giorni che hanno preceduto la manifestazione.
Trentamila persone non sono piovute dal cielo, che al massimo ci ha regalato oltre quattrocento lacrimogeni. Sono il frutto di un intenso lavoro che da anni è stato messo in piedi dalle realtà milanesi e che negli ultimi mesi è cresciuto di intensità, ha coinvolto tante realtà organizzate di movimento sia a livello nazionale che a livello europeo, costruendo un contesto all’interno del quale l’evento non è mai fine a sé stesso, ma parte di un processo che cresce nella pratica della democrazia dal basso.
Un lavoro che aumenta di valore, se lo collochiamo dentro l’oggettiva difficoltà che negli ultimi anni c’è stata in questo Paese, salvo rarissime eccezioni, di attivare un’opposizione sociale credibile, continuativa e di massa.
Come Spazio Politico Comune siamo stati parte attiva della mobilitazione milanese, articolata in diverse giornate e partita il 30 aprile con il corteo studentesco, costruendo lo spezzone “Scioperiamo Expo”. Lo abbiamo fatto insieme ad altre realtà organizzate di movimento italiane ed europee e soprattutto insieme a tanti precari, studenti, migranti e working poors che hanno animato il percorso di avvicinamento alle giornate No Expo nelle varie città. Uno spezzone composto da circa 5.000 persone, all’interno del quale vi era una presenza internazionale, a dimostrazione del fatto che la dimensione europea dei movimenti e delle mobilitazioni sociali è un processo già in atto e che si sta sempre più consolidando. Proprio per questo lo spezzone “Scioperiamo Expo” ha deviato verso la sede italiana della Commissione Europea, perchè la UE ci affama, ci toglie diritti, umilia il lavoro e ha ridotto il Mediterraneo ad un cimitero.
L’obiettivo della Commissione Europea crea una continuità simbolica e materiale con la grande mobilitazione del 18 marzo a Francoforte, proseguendo quel percorso di destituzione dal basso della troika e di resistenza alle politiche di austerità. L’azione inoltre, nel modo in cui è stata costruita, attuata e gestita, dimostra che è possibile praticare forme di conflitto che sappiano parlare a tanti e tante, che siano leggibili, comprensibili, riproducibili e che agiscano per il comune e non contro di esso.
Il problema delle pratiche, infatti, non è semplicisticamente riducibile al nodo “del conflitto e del consenso”. Il consenso è un concetto limitativo perchè descrive un’adesione esterna e rischia di ridursi ad una condivisione passiva. Il problema reale è quello del rapporto tra conflitto e legame sociale: una pratica degli obiettivi che non riesce a tradursi in una dinamica costituente di legame sociale non esprime alcun conflitto. Una pratica degli obiettivi che sacrifica a se stessa, alla propria visibilità ed alle proprie gratificazioni i legami sociali, il senso di reciproca appartenenza tra chi ha già maturato la scelta di scendere in piazza e chi ancora, per le mille variabili della propria esistenza, rimane chiuso nel suo appartamento gravato dallo sfratto o dal pignoramento, non solo non esprime alcun conflitto, ma si traduce in un ulteriore fattore di frammentazione sociale e marginalizzazione.
Nei luoghi fisici e politici che conquistiamo con le nostre pratiche di lotta, come è stato lo spezzone “Scioperiamo Expo” nel contesto della manifestazione milanese, la salvaguardia del legame sociale, la sua ricostruzione, la sua ricomposizione intorno al conflitto in atto costituisce non solo una priorità, ma la ragione stessa del nostro agire collettivo. Tutto ciò che dissocia consapevolmente le pratiche degli obiettivi dal legame sociale non ci appartiene perchè non appartiene ad alcun processo rivoluzionario. La consunta retorica sulla rabbia sociale è oramai solo un argomento utile al grande circo mediatico che si alimenterà sempre di più delle “aree di sfogo” predeterminate ad hoc dalla polizia: d’altra parte l’utilizzo dei “circenses” in funzione del controllo sociale non è certo una delle novità renziane.
La differenza che intercorre tra chi vuole ricostruire legame sociale e chi, invece, individua nella sua rottura il proprio strumento di espressione, non è la differenza che intercorre tra buoni e cattivi, ma semplicemente la differenza tra ciò che cambia e ciò che conserva: una differenza incolmabile. Tutto il resto, sia che si parli di streghe o che si parli di fate, che si racconti di gnomi buoni o di folletti cattivi, non conta niente perchè si tratta solo di favole: possono essere raccontate per avere il ruolo del più duro tutore dell’ordine oppure quello del più fedele interprete di fantomatiche istanze insurrezionali, ma restano sempre favole che non hanno niente a che vedere con le drammatiche condizioni di vita di milioni di persone. Ed è su queste vite e con queste vite che vogliamo e dobbiamo agire, ricomponendo quelle lotte sociali che ci vedono protagonisti ogni giorno, dai nostri territori al cuore dell’Europa politica e finanziaria.
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Essere parte del problema – Blocchi Precari Metropolitani
Ancora fiumi d’inchiostro dopo una manifestazione di piazza che potremmo definire “diversamente conflittuale”. Chi ha deciso di stare dentro questa mobilitazione sa che molte delle cose scritte rappresentano solo un’elaborazione parziale di ciò che è avvenuto, spesso dettata dalla necessità di far prevalere un punto di vista piuttosto che un altro. Riteniamo che per le migliaia di uomini e donne che hanno attraversato le strade di Milano il primo maggio i pensieri e le riflessioni siano molto differenti, anche se qualcosa la cogliamo dai vari comunicati che circolano in rete.
Non abbiamo mai avuto la pretesa di poter raccogliere, in questo momento storico, una moltitudine omogenea, organizzata e dalle idee chiare. Una generazione, o più generazioni pronte a mobilitarsi senza riversare pubblicamente la propria rabbia e la propria ostilità contro un devastante modello di sviluppo basato sullo sfruttamento delle risorse pubbliche e sull’accettazione del lavoro volontario, che Expo 2015 tenta di rappresentare come impegnato verso una nuova etica sostenibile.
Proprio per questo non riusciamo a comprendere come si possa pensare di utilizzare la vetrina mediatica di un evento come quello milanese senza poi andarci a sbattere contro. L’irriducibilità al modello delle grandi opere e delle grandi kermesse, la necessità di dirottare le risorse verso bisogni primari oggi mortificati, la rottura definitiva con i modelli della mediazione classicamente intesa, non può che produrre la messa in movimento dell’energia immagazzinata in una quotidianità sempre più precaria. Il terremoto si sa è imprevedibile e quando si manifesta produce danni. Perché meravigliarsi?
La scelta quindi sta dentro questi spazi di manovra. Il green washing di Renzi e Mattarella è chiaro, così come il furto di linguaggio tra rigenerazioni urbane ed orti verticali. Chiare però anche le contraddizioni, laddove si afferma il diritto all’acqua e si vara un provvedimento che la nega a chi occupa uno stabile o un alloggio per necessità. Di fronte a ciò cosa siamo andati a fare il primo maggio a Milano? Provare ad essere parte della soluzione o essere parte del problema?
Intendiamo ragionare sulla seconda ipotesi. Rappresentare la minaccia necessaria contro un governo autoritario e classista, che non prevede ammortizzatori sociali di sorta e che vuole ridefinire i rapporti di forza senza fare prigionieri. Che ha gestito la piazza di Milano consapevole di un problema, ma invece di affrontarlo direttamente lo sta lasciando nelle mani di chi ne è spaventato più dello stesso governo.
L’esercizio del riot non ci preoccupa così come non ci interessa la sua estetica. Continueremo ad avanzare, consapevoli di una spinta sociale destinata ad allargarsi e che può prendere forme non sempre politicamente intellegibili. Dentro questi spazi e lungo queste strade troveremo le complicità necessarie per resistere e contrattaccare. Lo spezzone meticcio dei movimenti per l’abitare e le lotte sociali ha fatto la sua parte, il primo maggio, come sempre.
Ci vediamo in città e nei boschi!
#tutteliberi
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Dalla parte dei “teppisti” – Franco Berardi “Bifo”
Di prima mattina ho fatto una ricognizione per Milano per decidere che fare.
Piovigginava e l’asma mi rallentava il passo: dopo aver camminato un’oretta ho capito che era meglio tornarmene a Bologna. Si sapeva che a un certo punto sarebbe scoppiata la baraonda. La polizia non poteva farci niente per una ragione facile da capire: gli occhi di tutto il mondo erano puntati sull’inaugurazione dell’EXPO, un morto nelle strade di Milano non sarebbe stato buona pubblicità. A Genova quindici anni fa (come passa il tempo!) il potere intendeva dimostrare che i grandi del mondo sono inavvicinabili e se ci provi ti ammazzo. A Milano intendeva dimostrare di essere tollerante. Da una parte si fa festa con Armani e Boccelli perché ormai i giovani sono talmente frollati dalla disperazione che fanno la fila per poter servire gratis al tavolo di Monsanto e di McDonald. Dall’altra si permette di sfilare a qualche migliaio di sessantenni i quali, poveretti, credono che per telefonare ci vuole il gettone, e quindi sono ancora dietro a quelle vecchie storie dei diritti.
Poi tremila teppisti hanno rovinato il banchetto, tutto qui.
Ho letto l’articolo di Luca Fazio e vorrei esprimere un’opinione diversa dalla sua. Fazio scrive che i teppisti hanno rovinato una manifestazione democratica.
Sarò brutale con spirito amichevole: a cosa serve manifestare per la democrazia? che utilità può avere sfilare per le vie della città dicendo: diritti, costituzione, democrazia?
Io lo faccio talvolta (quando l’asma me lo permette) per una ragione soltanto: incontro i miei amici e le mie amiche. E’ quel che ci è rimasto della sfera pubblica che un tempo chiamavamo movimento. Ma non penso neanche lontanamente che si tratti di un’azione politicamente efficace.
C’è ancora qualcuno che creda nella possibilità di fermare l’offensiva finanzista europea, o l’autoritarismo renziano con pacifiche passeggiate e referendum?
A proposito: ci sarà un referendum contro la legge elettorale denominata Italicum. Probabile. Giusto per riepilogare voglio ricordarvi gli antefatti. Esisteva una legge elettorale denominata Porcellum (perché coloro che la avevano promulgata dichiararono fra le risate che si trattava di una porcata). La Consulta dichiarò quella legge incostituzionale, dunque sancì l’illegittimità del Parlamento eletto con quella legge. Fino al 2011 c’era almeno un Primo Ministro votato da una maggioranza. Si chiamava Berlusconi (remember?). Fu esautorato per volontà della Bundesbank, venne un primo ministro direttamente eletto dalla finanza internazionale di nome Monti. Il disastro fu tale che si tornò alle urne. Le urne risultarono enigmatiche, e dopo varie tergiversazioni emerse un tizio che nessuno ha votato ma nei sondaggi risultava vincente. Dal momento che questo tizio ha la fiducia dei mercati il Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, ora si prostra ai suoi piedi. La cifra vincente del governo Renzi è il totale disprezzo delle regole costituzionali, perciò un parlamento incostituzionale vota una legge elettorale incostituzionale imponendola con il voto di fiducia. Tombola.
A questo punto qualcuno raccoglierà le firme per un referendum.
Referendum? Io ne ricordo un altro: il 90% del 70% degli elettori votarono contro la privatizzazione dell’acqua. Vi risulta che la privatizzazione dell’acqua sia stata fermata? A me risulta il contrario. E allora perché dovrei andare a votare al prossimo referendum?
Qualcuno mi risponde: per difendere la democrazia.
Democrazia? Ma di che stai parlando? L’80% dei greci appoggia il suo governo, ma la Banca Centrale europea ha detto con chiarezza che le regole non le stabilisce l’80% dei greci, ma il sistema bancario, quindi che i greci vadano a farsi fottere, e con loro la democrazia.
Ma torniamo a Milano. Tremila teppisti spaccano tutto? Non esageriamo, ma certo hanno fatto abbastanza fumo. E i giornali parlano di loro più che di Renzi Armani e Boccelli. Come posso non essergliene grato?
Sto forse proponendo una strategia politica? Credo io forse che spaccando le vetrine di tre banche (o magari di trecento o di tremila) il potere finanziario si spaventa? Non scherziamo. So benissimo che il potere finanziario non sta nelle vetrine delle banche, ma in un circuito algoritmico virtuale che nessuna azione teppistica può distruggere e nessuna democrazia influenzare. So benissimo che mentre tremila spaccavano vetrine diciassettemila e cinquecento correvano a lavorare gratis e questo è l’avvenimento più importante. So benissimo che nell’azione teppistica non vi è alcuna strategia politica. Ma c’è forse una cosa più seria. C’è la disperazione che cresce, limacciosa e potente, ai margini del mondo levigato.
Cosa ne pensa Fazio (al quale rivolgo un saluto in amicizia) dei teppisti di Baltimore e di Ferguson? Pensa che dovrebbero avere fiducia nella democrazia?
Io ricordo di avere visto (era la CBS?) un’intervista a una ragazza che stava in strada a New York una notte del novembre 2014. Il giornalista le chiedeva qualcosa sui bianchi e sui neri e lei rispose: “This is not about white and black. This about life and death.”
Nel tempo che viene non capirete niente se penserete alla democrazia. Occorre pensare in termini di vita e di morte, e allora si comincia a capire.
Ci stanno ammazzando, capito? Non tutti in una volta. Ci affogano a migliaia nel canale di Sicilia. Un numero crescente di ragazzi si impiccano in camera da letto (60% di aumento del tasso di suicidio nei decenni del neoliberismo, secondo i dati dell’OMS). Ci ammazzano di lavoro e ci ammazzano di disoccupazione. E mentre la guerra lambisce i confini d’Europa, focolai si accendono in ogni sua metropoli.
Perché dovrei preoccuparmi dell’Italicum? E’ una forma di fascismo come un’altra.
Abbiamo perso tutto, questo è il punto, e il primo maggio 2015 potrebbe essere il momento di svolta, quello in cui lasciamo perdere le battaglie del passato e cominciamo la battaglia del futuro. Non la battaglia della democrazia né quella per i diritti, meno che mai la battaglia per la difesa del posto di lavoro, che è stata l’inizio di tutte le sconfitte.
La battaglia necessaria (e forse a un certo punto anche possibile) è quella che trasforma la potenza della tecnologia in processo di liberazione dalla schiavitù del lavoro e della disoccupazione. Quella battaglia si combatterà cominciando a comportarci come se il potere non esistesse, rifiutando di pagare un debito che non abbiamo contratto, rifiutando di partecipare alla competizione del lavoro e alla competizione della guerra.
E’ impossibile? Lo so, oggi è impossibile, i giovani che hanno aperto gli occhi di fronte a uno schermo uscendo dal ventre della madre si impiccano a plotoni perché per loro il calore della solidarietà politica e della complicità amichevole sono oggetti sconosciuti. Ma se vogliamo parlare con loro è meglio che lasciamo perdere i gettoni, la democrazia e i diritti. E’ meglio che impariamo a parlare della vita e della morte.
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La prova di forza che mima la rivolta che non c’è – Marco Bascetta, Sandro Mezzadra
Non sappiamo quali siano stati i motivi che hanno indotto la Rete No Expo a rinviare l’assemblea prevista per domenica 3 maggio (l’assemblea, si legge nel sito della rete, «si riconvoca nei prossimi giorni»). Resta il fatto che, dopo quanto avvenuto in piazza durante la Mayday, un importante spazio di confronto politico si è chiuso.
E quelle che dovevano essere le «cinque giornate di Milano», preludio a sei mesi di «alterexpo», sono state fagocitate, non solo sui media mainstream ma anche nell’esperienza di migliaia di attivisti/e, da un paio d’ore di duri scontri.
Il risultato è un certo spaesamento diffuso, la difficoltà nel prendere parola e nel rilanciare la mobilitazione (cosa che comunque la Rete No Expo fa con un comunicato).
Meno di due mesi fa, a Francoforte, le cose erano andate in modo diverso. Il tentativo di blocco dell’inaugurazione della nuova sede della Bce era stato accompagnato da azioni e comportamenti non dissimili da quelli che si sono visti a Milano (pur in altre condizioni, dispiegandosi parallelamente a un insieme di blocchi appunto, e non durante il corteo che ha attraversato la città).
E tuttavia la coalizione Blockupy, sottoposta a duri attacchi da parte dei media e delle istituzioni, era stata in grado di riaffermare immediatamente le ragioni dell’opposizione all’austerity e della costruzione di uno spazio transnazionale di azione politica contro il management europeo della crisi. Le stesse iniziative «militanti» assunte da gruppi esterni alla coalizione avevano finito per illuminare quelle ragioni, o comunque non le avevano oscurate.
È quel che non è avvenuto a Milano. A noi pare che nella preparazione delle iniziative contro expo siano convissute due prospettive piuttosto diverse: da una parte quella che individuava nella manifestazione espositiva un grande laboratorio sociale, in cui venivano sperimentate nuove forme di sfruttamento e di messa al lavoro della cooperazione sociale, in cui si forgiavano nuovi spazi urbani, nuove gerarchie e nuovi immaginari (e se ne rilanciavano al contempo altri, niente affatto nuovi, come segnalato ad esempio dalla campagna contro «WeWomen for Expo»); dall’altra quella che considerava l’Expo come la realizzazione paradigmatica di una «grande opera».
Ci sembra evidente che la prima prospettiva, attorno a cui in questi anni sono nate importanti esperienze di inchiesta e sono stati messi in campo generosi tentativi di autoorganizzazione e di lotta, è risultata completamente spiazzata durante la Mayday: non è cioè riuscita a imporsi come polo di aggregazione e di indirizzo politico. A prevalere è stata la seconda: assunta l’Expo come simbolo delle «grandi opere», il simbolismo è dilagato tra le fiamme e le bombe carta, con una serie di slittamenti che dalle banche e dalle agenzie immobiliari sono giunti a investire normali negozi e qualche utilitaria.
È un punto che va ribadito: a Milano tutto si è giocato sul piano del simbolico. Non v’è stata espressione di una rabbia sociale diffusa (che pure non manca), ma azione organizzata di soggetti che hanno scelto di attaccare i simboli del «potere» e del «captale» perché convinti – almeno una parte significativa di essi – che non vi sia alternativa a una politica di pura distruzione, che non vi sia alcuno spazio per una lotta capace di distendersi nel tempo, di consolidare delle conquiste e di affermare nuovi principi di organizzazione della vita e della cooperazione sociale. Davvero il paragone con Ferguson e Baltimora, con movimenti di rivolta sociale che attraversano, coinvolgono e dividono intere comunità, è fuori luogo, a meno che non ci si voglia fissare esclusivamente sulle apparenze, sulle forme e sulle immagini dello scontro!
Si potrà poi dire che qualche vetrina infranta, qualche banca e qualche automobile in fiamme non sono nulla di fronte alla violenza quotidiana della crisi, della povertà e delle guerre, che il disordine e la violenza che regnano nel mondo si sono palesati per una volta con segno rovesciato.
Si potrà aggiungere che il riot milanese ha rovinato lo spettacolo della città tirata a lustro per l’Expo, ha offerto un controcanto alle fiamme tricolori e agli orribili pennacchi dei carabinieri in tenuta di gala, alle penose retoriche del «futuro che comincia adesso» e dell’«aspirazione di rimettersi all’onor del mondo». A noi sembrano, nel migliore dei casi, magre consolazioni: nelle strade di Milano, il primo di maggio, abbiamo visto piuttosto l’immagine della nostra impotenza, della nostra incapacità di mettere in campo forme efficaci di azione politica orientata alla destrutturazione dei rapporti di sfruttamento e alla trasformazione radicale dell’esistente.
Abbiamo sempre pensato che l’esercizio della forza da parte dei movimenti debba essere commisurato prima di tutto a un principio: quello degli spazi politici che è in grado di aprire, dell’effettivo avanzamento del terreno di scontro che determina, delle conquiste e delle mediazioni che garantisce e consolida. Difficilmente questo principio può essere applicato a quanto abbiamo visto a Milano: il simbolismo dello scontro è stato esasperato fino ad assumere forme iperboliche, secondo una logica della messa in scena e della rappresentazione (mai troppo lontana dall’aborrita rappresentanza) di una rivolta che continua a non manifestarsi nella quotidianità.
Ripensare forme conflittuali espansive e condivisibili, radicarle nei rapporti e nelle lotte sociali in modi capaci di moltiplicare la partecipazione, il consenso e il «contagio» torna a essere un problema politico fondamentale.
Non auspichiamo certo piazze e manifestazioni pacificate (del resto, la «nuova etica» della polizia celebrata dai media, si è estinta nel giro di due giorni spaccando le teste senza casco nero di chi fischiava Renzi a Bologna): si tratta piuttosto di costruire collettivamente, e dunque politicamente, le condizioni perché la stessa espressione di antagonismo e rabbia trovi forme di canalizzazione affermativa, al di là di ogni estetica della distruzione.
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Milano, no Expo: tanti danni alle cose… nessun ferito – Lanfranco Caminiti
Chi c’è stato la racconta più o meno così: «Ho fatto tutto il corteo. Ho anche seguito da vicino gli incidenti. Ero lì. Cominciamo a dire le cose come stanno. Gli incidenti ci sono stati e hanno avuto per protagonisti un corposo, compatto blocco di cinquecento o poco più ragazzi, per lo più molto giovani, che forse appartenevano all’area anarchica, ma non tutti (non è che sono andato a chiedere loro a che cosa facessero riferimento: diciamo che stavano intruppati dietro a un camion con insegne anarchiche). Tra loro pochi stranieri: non è vero che ci fosse un massiccio arrivo di blocchi stranieri.
Era un bel corteo, di venti-trentamila anime. Combattivo e con le idee chiare.
E Milano non è stata messa “a ferro e fuoco”. Gli incidenti e i danneggiamenti sono circoscritti alle strade percorse dal corteo. Sono cominciati in via De Amicis e sono finiti a Largo Pagano, dove c’è stata una carica di alleggerimento dei carabinieri e della polizia. È su quel percorso che sono state sfasciate le vetrine (primo obiettivo: le banche, poi tutto ciò che era lì vicino: questi non vanno troppo per il sottile). Non ho visto usare molotov. Le auto che avete visto bruciare non sono state colpite da bottiglie incendiarie. I “bloc” ne hanno rotto i vetri, poi hanno tirato dentro fumogeni o altro materiale che bruciava, non molotov. È per questo che nelle auto che vedete bruciare nei filmati la combustione sembra avvenire dall’interno.
Vengono invece spesso usate le bombe carta. Si lanciano pietre e bottiglie vuote. Fumogeni.
Quanto alla polizia, ai carabinieri e alla guardia di finanza, insomma alle forze dell’ordine impiegate ieri a Milano, hanno fatto un lavoro essenzialmente di contenimento. Presidiavano a distanza le strade intorno, i viali di accesso al percorso, usando i lacrimogeni e compiendo una sola, vera carica, neppure tanto convinta, a Largo Pagano. Gli ordini sembravano precisi: evitare i contatti diretti, contenere, a costo di sacrificare le cose, qualche auto e un po’ di vetrine. Milano, insomma, non è stata messa “a ferro e fuoco” e il blocco nero non è “sciamato” per tutta la città».
Sembra un racconto minimalista, ma forse è il più aderente ai fatti, lasciando da parte le considerazioni politiche. Le considerazioni politiche le si vanno facendo da quando le fiamme si sono spente. È andata come si immaginava che sarebbe andata. I black bloc hanno fatto quello che hanno voluto e stavolta stavano dentro il corteo. Non che li coprissero o li tollerassero, i No Expo che hanno lavorato per mesi a questa MayDay e – come tutti temevano e sapevano – si sono visti scippare il “significato politico” della giornata. Tutti i quotidiani del mondo hanno riportato la notizia di una Milano in fiamme. Eppure, neanche i black bloc cercavano lo scontro, non solo la polizia. Si sperticano le lodi al ministro Alfano che “non ha fatto come a Genova”, e si è limitato a contenere i danni. Il comunicato del ministero dell’Interno sottolinea che non c’è stato neppure un ferito, né tra le forze dell’ordine né tra i manifestanti. Zero a zero: ci mancava che scappasse il morto.
Si potrà discutere quanto si vuole della violenza dei black bloc, dell’ansia sciocca distruttiva e autodistruttiva che nulla lascia di sedimentato dietro di sé, dell’impotenza dei movimenti di arginare, governare, controllare, emarginare questo “pezzo” di piazza che ormai sembra seguire la logica degli storni nei cieli di Roma, un algoritmo che si muove preciso ma solo per conto proprio e a te sembra sempre come impazzito e spunta a ogni manifestazione. È come una tempesta di grandine quando aspetti di prendere il raccolto, e tutte le fave vanno distrutte o i piselli o le zucchine, e il lavoro paziente di mesi. Epperò, continua a succedere. Il più concreto sembra il governatore Maroni, che si è messo a far di conto dei danni – una quarantina di auto, una trentina di vetrine, poi c’è la ripulitura dei muri – e ha stanziato dalla Regione un milione e mezzo di euro. Proprio come dopo che è passata la grandine e bisogna risarcire i contadini, per un’emergenza di natura. I black bloc sono un po’ così, una cosa della natura. Un effetto del riscaldamento globale.
Disprezzarli – «Sono figli di papà» dice Renzi, ma non è vero: tra i quattordici, di età compresa tra 31 e 57 anni, denunciati dai carabinieri perché fermati, dopo il corteo, nelle stazioni della metropolitana di Famagosta, Centrale e Cadorna, ci sono operai, studenti e disoccupati – non mi pare che serva a granché. Stigmatizzarli – «Sono squadristi», dice Saviano, ormai ingabbiato nella “sindrome di Gomorra” – non mi pare che serva a granché. Qualcuno vorrebbe che ci fossero le “mamme di Baltimora”, come quella donna che in un video virale si vede prendere a schiaffi il figlio vestito di nero che voleva andare a bruciare cose e lei lo ferma. Per non vederlo morto. Perché la polizia bianca americana uccide. Qualcuno vorrebbe che la polizia bianca italiana uccidesse? Ancora?
Expo 2015 è la prima Grande Esposizione universale dopo il fordismo. Niente macchine, niente tecnologie, niente futuro strabiliante. Il tema è il cibo, certo, ma ogni padiglione mostra il meglio della propria nazione, il proprio livello di benessere, di storia e di cultura. È un’esposizione sulla qualità della vita nel mondo. E la qualità della vita nel mondo è alta come mai è stata. Certo, c’è l’insopportabile realtà di una sofferenza per fame – il diritto al cibo che verrà scritto nella carta delle Nazioni unite – ma non è un’esposizione contro la fame, è un’esposizione sull’abbondanza. Perché questo è il nostro mondo, un mondo d’abbondanza. E che sia a Milano è proprio una gran cosa, perché l’Italia è il posto del mondo dove la qualità della vita è straordinaria.
Ora, battersi politicamente contro una cosa grande come Expo 2015 è proprio complicato. Essere come una Grande contro-Expo, è proprio complicato. Sì, c’è il lavoro nero, ci sono state le inchieste, c’è la ndrangheta, c’è lo sfruttamento e le grandi multinazionali, c’è tutto il mangiamangia delle grandi strutture inutili e di appalti miliardari. Però, alla fine della fiera, la cosa è passata. Expo 2015 si farà e sarà una gran cosa. Perché il mondo è proprio una gran cosa. Ecco. L’unica cosa che puoi fare è rovinargli la festa. È questo che hanno fatto i black bloc, gli hanno rovinato la festa. Non è che c’è un gran progetto politico dietro, non è che c’è una grande architettura di strumentazione teorica. Volevano rompere i coglioni, volevano rompere le vetrine, volevano che i titoli dei giornali parlassero di questo. Fatto. Alla prossima. Milano “devastata” dai black bloc sono l’altra faccia, quella oscura, della Grande esposizione universale postfordista.
E non è che siccome tu sai che può venire la grandine non ti metti a coltivare le zucchine. Lo fai lo stesso. È la tua natura.
Verrà un nuovo movimento del lavoro. Verrà. E sarà una cosa completamente nuova da quello che abbiamo visto sinora, e sarà una cosa che quando comparirà riconosceremo subito, perché l’abbiamo sempre visto, da che mondo è mondo. I black bloc avranno messo la panza e le felpe col cappuccio gli si saranno ristrette.
Domani, su Milano è previsto bel tempo. Si può ripulire.
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Carlo Formenti
A Milano ieri non c’ero e per principio non mi piace disquisire su eventi ai quali non ho partecipato. Dico solo dire due cose sui dibattiti del dopo; sia quelli interni al movimento che quelli esterni (media, opinionisti, politici, forze dell’ordine, ecc.). I primi sono sempre più ripetitivi (forse perché rispecchiano lo schema ripetitivo delle manifestazioni): da un lato i violenti hanno rovinato tutto, dall’altro le anime belle fanno il gioco del potere che vuole dividerci fra buoni e cattivi. Una litania inconcludente che non si misura (quasi) mai su contenuti e progetti politici. I secondi sono il solito coro delle condanne indignate, però con due novità interessanti: 1) in primo luogo, l’insistenza sul fatto che la maggioranza dei manifestanti era pacifica e che le loro ragioni di dissenso sono rispettabili cresce; 2) i poliziotti intervistati fanno chiaramente capire che una certa quota di “lasciar fare” ai guerriglieri e la consegna di evitare attacchi indiscriminati ai cortei sono un dato acquisito. Genova ha insegnato qualcosa: il prezzo di immagine della repressione indiscriminata è troppo alto e i militanti più attivi possono essere individuati e colpiti dopo, a freddo. Ma soprattutto è come se anche le forze dell’ordine fossero entrate nella ritualità di eventi che contano soprattutto in termini di rappresentazione mediatica. Forse ciò dovrebbe indurci a meditare sull’efficacia di queste modalità e a ragionare sull’invenzione di nuove forme di lotta…
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Primo maggio: quello che “si dice” – Cristiano Armati – redattore Red Star Press
Si dice che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, le ragioni del No Expo siano state completamente oscurate. Infatti, prima di ieri, queste ragioni erano all’ordine del giorno, venivano affrontate con correttezza dalla stampa ed esposte con chiarezza dalla televisione generalista, che invitava gli esponenti dell’opposizione sociale a dibattiti e ad approfondimenti, talmente ascoltati da essere quasi riusciti ad annullare l’evento.
Si dice anche che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, ora l’intero Movimento si trovi sotto attacco, esposto alle sevizie della polizia e della magistratura, pronta a usare come un ariete l’arma più micidiale del codice (fascista) di procedura penale: il reato di devastazione e saccheggio. Infatti, prima di ieri, questo stesso reato non era mai stato usato, né per colpire i partecipanti al vertice contro il G8 di Genova e neppure, più recentemente, per processare i partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre utilizzando un imputazione che prevede pene fino a quindici anni. Alla stessa maniera, per colpire il movimento No Tav, la magistratura non si era certo sognata di trattare quattro ragazzi accusati di aver danneggiato un compressore alla stregua di pericolosi mafiosi, imponendo loro un isolamento degno di quanto previsto dal famigerato 41bis.
Si dice persino che da questo momento in poi, considerate le “violenze” al primo maggio di Milano, nessuno vorrà più scendere in piazza. Infatti prima di ieri le piazze erano traboccanti di folle decise a riconquistare i propri diritti, né si stava cercando, visto il surplus di partecipazione, di giocare la delicatissima partita con la quale – magari passando per errori e sbandamenti – tentare di rompere la stagione del reflusso e riconquistare una necessaria ricomposizione di classe. E poi basta guardare quanto accaduto a Cuba con il Movimento 26 Luglio, in Russia con i Soviet o a Parigi con la Comune: quando si registrano episodi di violenza popolare le piazze si svuotano, è la storia che lo insegna.
Insomma, si dicono tante cose. Una in più non farà la differenza, è tanto semplice battere i tasti di un computer, pare che anche molte scimmie siano in grado di farlo… intanto Expo non è ancora finito. Mentre fino a prova contraria solo la lotta paga.
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Expo: Renzi si accorge che c’è vita oltre twitter – Redazione Senza Soste
È stata una settimana decisamente dura per l’uomo immagine del Pd, segretario di un partito senza spina dorsale e presidente del Consiglio. Il primo colpo, grosso, glielo ha dato la Corte Costituzionale. La sentenza che liquida il congelamento degli aumenti delle pensioni (voluto da Monti-Fornero) come incostituzionale, pone problemi serissimi al governo. Problemi tipici di chi è assoggettato a Bruxelles e Francoforte e a qualche fondo d’investimento (persino Brunetta ha avuto gioco facile alla Camera a svergognare il governo sui prodotti finanziari tossici). In poche parole, mentre il governo è in difficoltà per trovare 4-5 miliardi di tagli, per arrivare a quota 10 a fine anno, almeno altri 5-6 sono da recuperare dopo la sentenza della Corte. Certo basterebbe questa situazione per fare capire, anche ad un governo pallidamente socialdemocratico, che è il caso di allearsi con la Grecia e mettere seriamente in discussione le politiche di austerità. Ma Renzi esiste per garantire, in Italia, i sacerdoti della moneta, quelli che guadagnano con l’austerità. Ma, con le difficoltà oggettive nelle politiche di bilancio, non sarà affatto facile tagliare e, allo stesso tempo, trovare il consenso per nuovi tagli. Oltre al fatto che, come si capisce dalla sentenza della Corte, nessun potere reale dello Stato ci sta a farsi disarticolare dalla crisi, e dal conseguente smantellamento dei poteri istituzionali, come se fosse una provincia o una comunità montana qualsiasi.
A Renzi, che dovrà penare non poco per farsi approvare la legge elettorale al Senato (e più penerà più dipenderà dagli alleati) non è quindi restato che inaugurare Expo facendo un po’ di marketing per il governo. Stiamo parlando dell’Esposizione universale che è il vero tempio del disastro economico e sociale della seconda Repubblica. Expo voluta da Prodi e dall’allora sindaco Moratti nel 2007 doveva essere la solita bolla immobiliare-finanziaria più o meno adattata a volano dell’economia lombarda.Come prevedibile, tangenti, addirittura stabilite da patti tra vecchi ras inquisiti per la tangentopoli del ’92 (un ex DC e un ex PCI ad esempio), project-financing, costi gonfiati, contenziosi giudiziari, appalti al massimo ribasso, crisi del credito, tagli, consigli di amministrazione surreali, affidamenti di opere in modo discrezionale hanno trasformato Expo nel consueto buco nero dell’economia italiana. Per non parlare dei salari, livello zero tanto per contribuire alle trimestrali di cassa delle imprese, negati ai volontari che si massacreranno per “un’esperienza”. Ma la cosa più grave di Expo, che ha fatto solo sorridere il solito nucleo di ditte e di cooperative che la fa da padrone dagli anni ‘90 (tutto lottizzato tra centrodestra, centrosinistra e Lega Nord) è che, di fatto, non lascerà traccia. O meglio, rischia solo di lasciare traccia nelle opere mai finite. Non è chiaro infatti non solo quale sarà il destino delle aree inaugurate ma se esista un futuro, un traino economico, tecnologico e sociale rappresentato da Expo.
L’Italia, del resto, già con i mondiali ’90 ha dimostrato, a differenza della Germania con i mondiali 2006, come si possa arrivare alla costruzione di grandi opere in modo così disastroso da lasciare terra bruciata a evento finito. Questo per capirsi sul fatto che al miraggio delle grandi opere ci possono giusto ormai credere quelli che votano “per Matteo” sul pulsante del telecomando di Sky al referendum del giorno. L’inaugurazione di Renzi a Expo è stata poi, dal punto di vista dell’immagine globale, una vera e propria Waterloo. Ora non ci vuole molto a intendersi sul fatto che per un’esposizione che si chiama “universale” si ha tanto più successo tanto più si sa parlare all’audience globale. Renzi, che oltre le polemiche da pollaio proprio non riesce ad uscire, ha invece usato il suo discorso come ennesima riedizione della polemica contro quelli che gufano contro il suo governo. Persino noi, che vediamo la finanza globale come la peste, sappiamo che più sai toccare i temi che piacciono all’audience globale più fai marketing territoriale. Bene, Renzi ha plasticamente dimostrato di non essere in grado di farlo non avendo il respiro retorico, e nemmeno i ghost-writer, per questo genere di occasioni. Ha usato la diretta mondiale per battibeccare con i compagni di cortile che, secondo lui, gli dicevano che non avrebbe mai finito Expo. Non ci vuole molto a capire che il prodotto Italia si vende in un altro modo. Siccome le tv italiane per Expo sono state, come prevedibile, militarizzate il problema non è uscito fuori. Ma si tratta di atteggiamenti che, alla lunga, pesano. Aspettare per credere: l’immagine globale pesa per gli investitori internazionali, perché catalizza investimenti, Renzi non può vivere a lungo sul simbolico del “giovane leader dinamico”. Deve dire qualcosa al mondo, magari di sensato ed incisivo. E qui ci si rende conto di chiedere troppo a qualcuno che campa di rendita, dal punto di vista comunicativo, solo sul riciclo delle parole d’ordine degli ultimi 20 anni di liberismo.
Nel pomeriggio l’inaugurazione di Expo si è scatenato un riot di protesta, nel centro di Milano, come non se ne vedevano nella città lombarda dal settembre del ’94(all’epoca della rioccupazione del Leoncavallo). Un riot, a nostro avviso, non delle dimensioni dello storico 10 settembre ma sicuramente espressione di un corteo consistente ad alto impatto spettacolare (perché c’è un piano di audience che paga molto di più della fedeltà a “Matteo”: gli incidenti almeno 3 giorni di prime pagine offline e online, e quindi di pubblicità, li fanno mentre Expo con il resti di Napolitano fa mezza giornata). Ora lasciamo, come è naturale che sia, la valutazione più propriamente politica della giornata a chi l’ha organizzata, e vissuta. Inoltre, qualcuno farebbe meglio a rendersi conto, e a volte capire come funziona la vita non è male, che i riot accadono non per delirio ideologico ma perché c’è un qualcosa che è ritenuto veramente insopportabile. In questo caso tutta la vicenda Expo, col suo corollario di corruzione, di esproprio beni pubblici, di sgomberi e di sfruttamento, e il Jobs Act che non ha prodotto posti di lavoro ma solo liquefazione dei diritti e sgravi alle imprese. Del resto la tv, ormai a reti unificate, non si è nemmeno presa lo sforzo di informare, anche superficialmente, sulle ragioni della protesta. Come ormai accade da lustri, e a noi pare un problema di democrazia molto più grosso di una vetrina in frantumi, la rappresentazione delle idee, quelle non concordate tra ceto politico e redazioni di tg, semplicemente non c’è.
Il punto è però che con gli scontri del sabato pomeriggio, il simbolico della giornata, quello da vendere a milioni di persone in prime time, si è rovesciato di significato. L’inaugurazione di Expo, con la trovatina di cambiare le strofe dell’Inno di Mameli, è finita in secondo piano rispetto ad una metropoli straniata dagli incendi e dalla circolazione delle tute nere. In effetti la vera notizia, vera irruzione di novità nella rappresentazione del panico metropolitano in una città che il panico lo percepisce ma lo nega, rispetto al rituale renziano ormai consolidato e metabolizzato dagli stessi media schierati. Qualcosa di diverso rispetto all’inaugurazione della torre della Bce, dove comunque la partecipazione alla protesta è apparsa meno legata all’immaginario del centro città sottratto al governo come nel pomeriggio milanese. Certo, si parla di spettacolo, ma così funziona l’emersione dei contenuti nel 21 secolo. Forse un po’ più di costruzionismo, nel capire come si sedimentano i contenuti, e meno moralismo aiuterebbero a capire come funzionano le nostre società.
Così con i riot Renzi si accorge così che c’è vita oltre Twitter. Che fenomeni indistinti, per lui, e oscuri gli sfuggono. E si inquieta perché non li controlla come se fossero un D’Attorre o un Fassina. Inquietudine che filtra nel comunicato dedicato agli incidenti dove, scompostamente, ha dato dei “vigliacchi” ai manifestanti cercando di ribadire una cosa. L’unica che gli interessa: che la vera immagine della giornata era il coro di bambini che cantavano l’inno di Mameli. Tentativo di ristabilire una gerarchia della percezione delle immagini che, una volta tanto, non andrà a segno. La rottura dei media ritual, come sappiamo, favorisce sempre il protagonismo simbolico di chi la esercita. E ad Expo il media ritual è stato interrotto. Altre volte non è così, per miriadi di motivi, stavolta lo è stato. Questo ovviamente sul piano comunicativo. Poi la politica, come sappiamo, è qualcosa di più articolato fino all’estremamente complesso. E non ce lo viene certamente a raccontare un Pisapia. Del resto Pisapia, nel corso degli anni, ha soccorso Deutsche Bank, ritirando la costituzione di parte civile del comune di Milano sullo scandalo derivati finanziari (fatto gravissimo), ha supportato sgomberi di case e centri sociali. Questo senza soffermarsi al ruolo del comune in Expo. Diciamola in due parole: se la sua elezione doveva rappresentare un compromesso accettabile tra sinistre ha completamente fallito. La sinistra istituzionale in Italia, sapendo che più sinistre sono qualcosa di naturale e persino inevitabile, ha bisogno di economisti critici e innovativi sui territori non dei Pisapia, avvocatesco ceto politico colluso che finisce per accodarsi, in ultima istanza, alle esigenze PD. In modo politicamente corretto s’intende.
Comunque visto che c’è vita oltre Twitter è meglio che questa si organizzi. Il presidente del consiglio, oltre a voler durare, non ha idee precise sul da farsi. Con una situazione economica, nel migliore dei casi, paralizzata questo rappresenta una cattiva notizia come uno stimolo a far, presto, qualcosa di sensato contro l’ultimo, si spera in senso definitivo, degli improbabili al governo del paese.
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Milano. Quello che va detto – Redazione Contropiano
E’ tempo di valutazioni su quanto accaduto a Milano con la manifestazione nazionale No Expo, ma il primo errore da evitare è quello di una valutazione circoscritta ai “fatti” avvenuti durante una manifestazione.
Questa è l’operazione sistematica che il sistema dei media adotta e dunque non può essere il nostro. Una manifestazione nazionale, tra l’altro, non è che un momento di passaggio e di sintesi di un percorso iniziato da tempo e che dovrebbe – anche in questo caso – indicare i passi del percorso successivo.
Il secondo errore è quello di concentrare l’attenzione e dividersi nelle valutazioni sugli e degli scontri avvenuti. Non è la prima e non sarà l’ultima volta che una manifestazione convive con una dualità al proprio interno. Se non possiamo che riaffermare una distanza stellare da azioni che colpiscono allo stesso modo la vetrina di una banca e quella di un normale esercizio commerciale, di un costosissimo Suv e una utilitaria, dobbiamo anche sottolineare come non siano gli incidenti in piazza – più o meno gravi – a “nascondere” le ragioni dei manifestanti quanto, piuttosto, il sistema dei media e dei loro azionisti di riferimento.
Spesso, troppo spesso, proprio l’assenza di incidenti fa sì che manifestazioni pacifiche di migliaia di persone vengano vergognosamente silenziate. Ignorate come se non fossero mai avvenute. Come ebbe a dire un veterano del sindacalismo proprio all’indomani di una manifestazione sindacale a Milano, anche quella ignorata dai media: “la prossima volta rompo una vetrina, così dovranno accorgersi del perché migliaia di lavoratori che sono scesi in piazza”.
Non solo. Da mesi ormai, da quando al potere si è insediato Renzi- quello che Marchionne e soci “hanno messo lì” – nel paese e nelle sue relazioni si è imposta una governance autoritaria che nega ogni possibilità di dialogo o modifica delle decisioni imposte dal governo: dalle leggi contro-costituzionali al jobs act, dalla scuola alla legge elettorale. E allora? Se le manifestazioni pacifiche o le opposizioni parlamentari non hanno la possibilità di incidere sulle scelte, che cosa si pretende?
Milano ha visto scendere in piazza quasi quarantamila persone, in larghissima parte giovani e lavoratori dei settori a rischio, contro l’Expo, ossia contro una costosissima (per noi) vetrina per le multinazionali che ha devastato un intero territorio e le casse pubbliche. Ma soprattutto contro l’”esperimento” politico del lavoro gratuito e del divieto di sciopero per la durata dell’”evento”.
Contro tale progetto sono otto anni che comitati, reti sociali, collettivi si stanno battendo punto su punto. Dunque la mobilitazione No Expo non è nata il 1 maggio a Milano, ma è il risultato di un lungo lavoro. Il governo e i poteri forti hanno spinto il piede sull’acceleratore volendone fare un simbolo, un “pennacchio”, dell’attuale esecutivo. Hanno creato loro stessi l’evento catalizzatore. Il sistema dei mass media ha fatto il resto alimentando per settimane la tensione. Un processo questo che, da un lato vorrebbe allontanare la gente dalle manifestazioni e dall’altro produce l’effetto opposto. Un paradosso? No, proprio perché una manifestazione che possa prevedere scontri di piazza produce l’idea che possa essere una manifestazione più efficace di altre.
Infine, su quanto accaduto in piazza. La partecipazione è stata ampia e con migliaia di persone. Si era capito che l’aria si sarebbe saturata di lacrimogeni e quant’altro, ma nessuno se ne è andato via per questo. Solo alcuni – vedi i soggetti della Coalizione sociale di Landini – se ne sono tenuti alla larga.
La polizia ha adottato una strategia completamente diversa da Genova. Le immagini della macelleria messicana del 2001, anche alla luce della sentenza della Corte Europea, non erano ripetibili. Dunque ha giocato d’anticipo con alcuni blitz, ha chiuso il centro di Milano, ha tenuto a distanza il corteo ed ha ridotto al minimo i danni. Cariche pesanti, lunghe e indiscriminate, avrebbero esteso a macchia d’olio quello che invece è rimasto circoscritto a due punti del percorso. Volendo avrebbe potuto effettuare centinaia di fermi o arresti nel momento in cui la manifestazione si è sciolta perché l’area era completamente circondata. Con molta probabilità agirà nei giorni successivi utilizzando le tecnologie di identificazione e la deterrenza dei capi di accusa (devastazione e saccheggio) come strumento di repressione e ritorsione.
Volendo tirare alcune prime conclusioni, con ancora la stanchezza della manifestazione e del viaggio addosso, ci sembra che la manifestazione di Milano confermi come oggi il conflitto sociale non possa agire dentro contesti che si stano rivelando inefficaci a tutti i livelli – da quello sindacale a quello parlamentare, da quello sociale a quello politico – e che nessuno possa più permettersi di usare i cosiddetti black block come capro espiatorio delle proprie difficoltà. Dall’altra parte occorre intervenire su alcuni pezzi delle nuove generazioni del conflitto per liberarle “dall’edonismo sfasciatutto” che prescinde dal contesto, dalla reazione dei soggetti sociali, dalla possibilità di creare relazioni, amplificare coalizioni e conflitti. Uno spot che dura il tempo di un telegiornale rimane pur sempre uno spot, che si tratti di un innocuo flash mob o di un assalto alla vetrina di una banca.
Il fatto che i mass media parlino di loro, solo di loro e solo in questo modo, non è la soluzione, è parte del problema. Prima lo si capisce meglio è.
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#NoExpo #Milano: l’analisi del giorno dopo – Abbatto i Muri
I media hanno pescato l’aspirante black bloc pronto a dire tutto quel che serve ai media per continuare a fare cassa per un altro po’ di giorni. C’è poi la fascia complottista che inserisce le parole di Cossiga a spiegazione di tutto. Quelli di ieri, dunque, sarebbero stati facilitati utilmente dalla polizia che poi avrebbe così avuto ragione di caricare con tanto di legittimazione della gente. La fascia complottista include chi sostiene che tra i “facinorosi” vi siano infiltrati. Ok. Fin qui nulla di nuovo.
Continua la protesta da parte di chi pensa che i neri abbiano danneggiato una manifestazione pacifica e altre parti di movimento. C’è poi chi sostiene l’operato della polizia che sarebbe stato ineccepibile. Subito pronti, eventualmente, a difendere anche l’uso di lacrimogeni al Cs, vietati dalla convenzione di Ginevra, e anche il lancio di lacrimogeni ad altezza uomo. Dopo Genova ricordo che qualcuno disse che anche i mezzi blindati della polizia lanciati fino ai marciapiedi per inseguire le folle erano una fantastica trovata. Come non pensarci prima.
Ma il punto è che c’è chi vuole la testa dei “ribelli” a qualunque costo, e non per ragionare del senso politico di tutto ma solo per metterli alla gogna, per un implacabile gusto di vendetta che – storicamente – arriva sempre da destra, per processarli pubblicamente e condannarli di fronte a tutta l’opinione pubblica. Così si obbliga chiunque a parteggiare per gli uni e gli altri, in uno schema binario che invisibilizza qualunque complessità, e questo già lo scrivevo ieri, ma ne sono ancora più convinta oggi. Perché quel che si vuole fare è concentrare l’attenzione su quel che è successo dimenticando perché la gente ieri è scesa in piazza.
Faccio presente che quando gente dei forconi è stata accusata o beccata, non so dove, a esprimere un dissenso esasperato, il centro destra è corso in sua difesa, così i legalitaristi che solitamente manderebbero alla forca chiunque. Perciò da qui abbiamo capito che esiste un bisogno di serie A e uno di serie B.
Esiste la fame di chi vota a destra e quella di chi vota a sinistra o non vota proprio per niente. Se ti presenti in piazza con il simbolo di una organizzazione di estrema destra perciò è comprensibile che tu racconti la tua fame di diritti. Se invece ti presenti con i centri sociali, gli anarchici, gli autonomi, le sinistre varie, dall’altro lato ti chiamano “radical chic”, dicono che sei un figlio di papà, perché si sa che a sinistra, ‘sti cazzi, siamo tutti ricchi, la precarietà a noi non si tocca affatto, e mentre da sinistra c’è perfino qualcuno, e ricordo alcune analisi di Infoaut su questo, che tenta di capire le ragioni di chi scende in piazza col rischio di farsi cavalcare dalle destre, dall’altro lato c’è una rigidità identitaria da far spavento.
Un blocco monolitico che difende l’operato della polizia, sempre, anche quando ammazza un manifestante o colpisce con il manganello gente inerme, anche quando ci scappa il morto durante un fermo, ed è lo stesso blocco che ammette la lotta per fame solo se a cavalcarla, per l’appunto è la destra. Così mentre insiste nel raccontare che la fame sta da una parte sola, mentre di qua ci sarebbero soltanto “caste”, la gente come noi continua ad essere chiamata con il nomignolo gentile di zecche o altri epiteti vari ed eventuali.
Fino a ieri tutti ce l’avevano con il governo. Tutti odiano il jobs act. Tutti rivendicano la possibilità di mettere fine all’assenza di reddito, casa, futuro. Però la destra, quando lo fa, nel frattempo ha così tanta energia e tempo a disposizione che stabilisce che reddito e casa prima di tutto devono andare agli “italiani”. Quindi lottano forse per il bene dei poveri ma poi sputano su altri poveri per via della differente cultura ed etnia. Già che ci sono hanno il tempo di mortificare qui e la gay, lesbiche e trans, e non si capisce questo come e perché dovrebbe compensare la fame dei poveri che votano a destra, sono anche antiabortisti, giusto per piazzare bandierine sugli uteri delle donne, e poi perseguono strenuamente la linea che li porta alla difesa della famiglia “naturale”.
Per dire: a me che sono precaria non verrebbe mai in mente di dire “prima io”, perché se siamo precari in tanti il solo fatto che solo io possa scippare un pezzo di pane o un tetto mi farebbe sentire una vera merda. E qui si parla di umanità. Ma tornando a ieri il fatto è che le critiche arrivano anche da chi fa apologia della violenza contro gli immigrati, contro altre fasce deboli, contro quelli e quelle che ritengono responsabili per la propria sorte. C’è chi dichiara di capire l’esasperazione di chi scrive cose orribili, messaggi d’odio, sul web, prendendo di mira ora un ministro, poi una deputata, e l’odio arriva chiaro e forte con un messaggio che fa da cornice a tutto: sono appartenenti alla casta.
Dunque, se il potere, il governo, la gente che chiamate casta vi è così antipatica, com’è che non capite perché un ragazzo abbia voglia di scendere in piazza e spaccare tutto? E tutto non vuol dire proprio tutto, considerando che sfasciare le automobili di qualcuno mi pare una cazzata enorme, ma significa comunque sfasciare gli oggetti, non le teste delle persone. E possiamo essere d’accordo o meno su questo ma davvero non capite qual è il punto in cui ci troviamo? La situazione economica che tutti ci troviamo ad affrontare? Se un gruppo di uomini e donne decide di puntare alle banche, alle agenzia interinali, alle immobiliari, secondo voi il messaggio qual è?
E siccome siamo tutti d’accordo sul fatto che queste cose fanno più danno al movimento che altro, dunque cosa diciamo ai ragazzi e alle ragazze che si sono visti fottere il diritto all’istruzione, con l’università che diventa sempre più meta di privilegiati, e poi il diritto al reddito, alla casa, a qualche opportunità che li faccia muovere dalla condizione nella quale sono incastrati ora. Perché tra la gente che ieri è scesa in piazza sono certa che ci sia chi fa tre lavori, chi dorme in uno sgabuzzino, chi non ha niente e chi ha smesso di sperare in un ascolto realmente democratico.
Vedete quello che succede nel parlamento. Il governo decide una riforma elettorale che consente ai grossi partiti, che poi sono anche più o meno alleati o ammiccano l’un l’altro, di governare in eterno. Il governo decide tutto quello che vuole. Il jobs act che metterà in mezzo alla strada altra gente, perché col cavolo che la precarizzazione del lavoro significa più lavoro per tutti. E di riforma in riforma, incluso il piano casa che comprende quel punto in cui si dice che chi occupa per bisogno, perché non sa dove fare dormire i figli, si vedrà tagliare gas, luce e acqua, tra una decisione e l’altra siamo arrivati al punto che abbiamo consumato anche i risparmi dei padri, le madri, i nonni, e non ci resta più niente. Siamo soli, spaventati, tanta gente massacrata da debiti a combattere quando ricevono le cartelle esattoriali, tante persone che si suicidano per questioni economiche, lo sfruttamento che questa particolare situazione consente, e c’è la privatizzazione dei servizi, il costo dei bisogni che cresce e tra un po’ avremo anche le polizie private e le carceri private, perché anche l’industria della “sicurezza” è diventato un business.
Di fronte a tutto questo, voi, noi, cosa abbiamo da dire di nuovo? Che tipo di battaglia possiamo suggerire? Oltre a stare a lamentarci per la censura dei media, per le mistificazioni, per le cattive decisioni del governo, per il fatto che le elezioni sono solo la legittimazione di un asse di potere che non potremo spodestare, per le cattive azioni di ragazzi e ragazze di nero vestiti. E dunque: che si fa?
Chi sono io per dire a questi ragazzi che sbagliano? Come faccio a dire loro che ci sono altri modi di farsi sentire? Chi può fornirglieli? Se per ogni manifestazione i giornalisti, e già chiamarli così è fargli un complimento, cercano perfino lo scoppio di un pedardo per fare audience, sapendo che una manifestazione pacifica non finisce sui giornali mai, come diciamo loro che si può e si deve comunicare diversamente? Perché se non ragioniamo su questo è pressocché inutile che tutti pretendano di deresponsabilizzarsi e dichiararsi migliori di altri. Parlo degli indignati di bassa lega o delle persone, compagne e compagni, che per un attimo si lasciano convincere che il nemico è quaggiù, all’inferno, invece che lassù, in quello spazio che si vede attraverso la grata con gente che ci lancia in basso pezzi di pane rancido mentre noi ci scanniamo per prenderne un morso.
Concludo con un aneddoto, che non vuol dire nulla perché non si può generalizzare, ma forse vale la pena dirlo: ricordo che tempo fa si fece una manifestazione, pacifica, per decisione di chi aveva organizzato. Attorno a noi c’erano sparuti gruppi di poliziotti. Col casco e il manganello. Faceva caldo, sbuffavano, ci guardavano male perché perfino in quella giornata afosa li obbligavamo a “lavorare”. Non credo proprio avessero voglia di beccarsi fumo di lacrimogeni, correre, sudare. Se non ché ci fu il cazzone di turno, perché ogni tanto lo spaccone c’è e io non saprei chiamarlo diversamente, e parlo di un singolo che non ha alcun obiettivo politico se non quello di urlare un paio di slogan con la bocca impastata d’alcool, dunque a questo ragazzo, appena vide una divisa, gli si accese l’interruttore dello scontro. Normalmente chi fa azioni in piazza non cerca lo scontro fisico. Sta a distanza. Questo invece voleva proprio fare a gara a chi aveva più testosterone. Così punta il dito, lancia la bottiglia vuota contro un cassonetto, e nel frattempo un po’ di file dietro scoppia un pedardo, e noi lì a temere, impreparati, che sarebbe arrivata la carica. In quel caso quelli che organizzavano la manifestazione presero sotto braccio il tizio e lo accompagnarono non so dove. I poliziotti restarono lì a sbadigliare e a sudare, guardando l’orologio. Che voglio dire? Niente più di quello che ho detto. L’alternativa non è tra lasciar fare e la delazione. Forse l’alternativa sta nell’autogestione.
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Expo, buonismo e indignazione un tanto al chilo – errecinque
Premessa: se fai attivismo politico, in qualunque forma, hai una tua idea del mondo e di come debba andare e, giusta o sbagliata che sia, ritieni sia giusta.
Esiste un livello minimo di consapevolezze quando fai politica che non puoi negare mai, che devi tenere sempre presente.
Punto 1: se qualcuno non è con te, è colpa tua perché non sei stato abbastanza bravo a fargli capire perché dovrebbe essere con te.
Punto 2: chi non è d’accordo con te e non è in malafede potrebbe diventare d’accordo con te, per cui devi fare il possibile per fargli capire perché pensi certe cose.
Punto 3: visti i punti 1 e 2, è assolutamente fuori discussione pensare di poter liquidare chi non ti capisce, chi non ti ha capito o chi non ti viene dietro dicendogli che ten’ o tunn’ncap.
Fatte le dovute premesse, quando succedono certe cose, uno ogni tanto deve pure esorcizzare questa necessità impellente di scagliare il cranio ripetutamente contro la parete più vicina, e a questo punto, vada come vada, io certe cose provo a dirle.
Ma veramente non vi rendete conto che non ci sia nulla che vi appartiene?
Le vostre case possono esservi ipotecate, le vostre auto sequestrate, i vostri figli sbattuti in mezzo alla strada. Le vostre vite sono sotto scacco.
Ma non per dire: basta che un giorno uno si svegli e schiocchi le dita e la vostra vita è a puttane, e questo può succedere perché stiamo navigando nella forma più becera di capitalismo. Gli equilibri economici mondiali sono dettati da una struttura talmente evanescente che, se dopodomani la figlia di Douglas Peterson (il presidente di Standard and Poor’s, l’agenzia di rating che valuta le economie dei paesi nei quali vivete) esce incinta e il padre si sceta storto, può buttare nel cesso la vostra economia nazionale e la vostra misera vita.
Ma veramente non vi rendete conto che nulla vi appartiene, nemmeno quello che tenete in testa? Non vi rendete conto che hanno costruito un mondo bomboniera e che siamo vittime del più grande Truman show di tutti i tempi?
Vi dicono che l’esposizione universale è una cosa bella e di altissimo valore e tutti a dire sì, che è una cosa bellissima; e non vi fanno vedere che un operaio è morto in uno dei padiglioni per costruirla; che c’è stato un giro di tangenti e un livello di corruzione tale che è stato indagato pure uno dei commissari che doveva indagare sul giro tangenti e sulla corruzione. Non vi fanno vedere che la grande esposizione universale che doveva parlare di nutrire il pianeta e di energia sostenibile è stata sponsorizzata dalla più grande multinazionale del cibo merda (Mc Donald), responsabile della deforestazione del più grande polmone verde del pianeta (l’Amazzonia), per tenere le coltivazioni intensive dei cereali che utilizza per le produrre le sue salse di merda a buon mercato. Poi c’è la multinazionale per eccellenza, la Coca Cola, quella che in Colombia ha fatto rapire, seviziare e massacrare i sindacalisti che si opponevano a condizioni di lavoro pari a quelle di schiavitù.
Vi dicono che l’esposizione universale è una vetrina internazionale e che dobbiamo fare bella figura e voi ci credete, ma nel frattempo nello stesso paese c’è un pezzo di terra morta per sempre, che non darà mai più frutti, e c’è un altro pezzo di terra che dà frutti avvelenati perché ci hanno seppellito rifiuti tossici. Per vent’anni questa informazione da niente è stata secretata, e nonostante sia venuta fuori con tutta l’irruenza che si è stati in grado di produrre ancora nulla è cambiato.
Di questo non dite niente.
Vi dicono che l’esposizione universale è di tutti, è dell’Italia, e quindi bisogna lavorare tutti per farla funzionare, però non si è capito perché Farinetti deve collaborare aprendo una catena di ristoranti e i giovani devono farlo lavorando a livelli di schiavismo per quattro spiccioli, o addirittura in cambio di un tablet.
Voi non dite niente.
Vi dicono che può essere un volano di sviluppo per il paese, così hanno cementificato mezza periferia di Milano ma anche questo sarà volano solo per chi di quel cemento saprà approfittarsi. Nel frattempo l’edilizia popolare è in condizioni degradate, nel frattempo la gente non sa come avere un tetto sulla testa e occupa le case o resta per strada.
Però il vostro problema è l’accoglienza ai migranti.
E a proposito di migranti: vi dicono che è buonismo essere disgustati dal fatto che novecento persone muoiano in mare, perché non dobbiamo accogliere nessuno, perché teniamo i problemi nostri a cui badare; però poi vi dicono di indignarvi e storcere il naso per due vetrine rotte rispetto alla sagra del capitalismo che si sta tenendo sul vostro pianerottolo di casa.
Il buonismo, in questo caso, vi piace.
I problemi nostri, e lo sponsor a Mc Donald.
I problemi nostri, e lo sponsor a Coca Cola.
I problemi nostri, e vieni a fare volontariato all’Expo.
I problemi nostri, e la ‘ndrangheta.
I problemi nostri, e gli appalti truccati.
Stiamo pieni di problemi, però ci hanno fatto l’Expo e pure se è una cacata, perché l’hanno fatto una cacata, noi dobbiamo essere entusiasti e sorridenti, e magari con la tessera del PD nella tasca.
Questo è l’Expo e l’Italia può essere un grande paese se tutti ci crediamo, se tutti ci lavoriamo.
Chissà perché quelli che da questo lavoro non ci guadagnano niente siamo sempre noi.
A proposito di lavoro: l’hanno inaugurato il 1 maggio. La posso dire una cosa populista? Ma che cazzo si merita un paese che nella festa dei lavoratori inaugura una roba del genere chiedendo alla gente di lavorarci a gratis?
Io più ci penso e più veramente non riesco a spiegarmi come si possa non capire che l’esposizione universale, che tanto ci stanno propinando come l’occasione più importante e la cosa più bella che il nostro paese possa vivere, è l’esatta riproduzione del sistema economico di merda nel quale siamo inseriti. Un sistema in cui le grandi multinazionali diventano sempre più grandi e mangiano e ingrassano alla faccia nostra e del pianeta. Ai giovani è chiesto di collaborare, di aiutare e di farlo col sorriso sulle labbra e con tanto entusiasmo, in cambio di curriculum ed esperienza (e un tablet). I media raccontano la storia di una dimensione di perfetto equilibrio e armonia dove nessuno è scontento se non poche frange di violenti, e l’opinione pubblica è silenziata e consenziente, senza un guizzo, senza un momento di amor proprio o anche solo di dubbio che forse non è tutto laminato e scintillante, che forse dietro alla vetrina c’è il pantano.
Tutti contenti, tutti assuefatti, tutti rassegnati.
Poi arrivano i cortei, arrivano le contestazioni, arrivano le guerriglie pure quelle regolate ad arte – apro una parentesi su questo punto: o ammettiamo insieme che c’è qualcuno che vuole esattamente che succeda quello che è successo oggi a Milano, oppure ammettiamo insieme che c’è un evidente problema di reclutamento delle Forze dell’Ordine e della Magistratura e stann’ sul sciem’ che sequestrano le bottiglie di vodka a pesca ma non riescono a intercettare materiale da guerriglia – quando arrivano le guerriglie, regolate ad arte, come dicevo, sono tutti indignati.
Tutti quanti a criminalizzare, a dire che non si fa così; che vanno bene le ragioni ma quelli sono imbecilli, e tutt’ o riest.
Io una cosa ve la devo dire.
Io forse non sarei stata in quella piazza violenta, forse non sarei stata a fare gli scontri, a dare fuoco alle macchine, ai negozi, alle vetrine e tutto il resto, per il semplice fatto che difficilmente mi metterei a compiere atti, il cui valore politico non sarei in grado di spiegare, banalmente, ai miei familiari.
Però resta un dato.
È intollerabile il livello di buonismo (questo sì, non quello dei cristiani morti affogati) che siete in grado di farvi propinare dai media di regime.
È veramente vergognoso il modo in cui siano in grado di manipolarvi, strumentalizzarvi, farvi pensare esattamente quello che vogliono, farvi indignare per le puttanate e farvi passare sopra le catastrofi abissali.
È veramente plateale il modo in cui siano in grado di farvi stare sempre dalla parte dei più forti.
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“Nessuno Tocchi Milano”: una considerazione laterale – Valeria Pinto
Leggere, su una pagina “amica” frequentata da persone non intellettualmente sprovviste commenti come: “è una tragedia”; “anche solo una macchina bruciata è una tragedia”; “mi sto sentendo male per il proprietario della macchina. A me avrebbero rovinato la vita, davvero”; “a me viene la pelle d’oca. Sono due giorni che ho paura a uscire di casa. Un insulto a tutta la gente che lavora”; “è solo gente disadattata”; “buttagli in testa un calderone di olio bollente” ecc. mi ha fatto davvero molta impressione. Praticamente l’analogo della signora che dalla finestra grida “sparategli in fronte” o poco ci manca. Di sicuro è nulla la distanza dalla peggiore rappresentazione mediatica del fatto. Ma questo, per certi versi, è secondario.
Quello che, di qui, più mi ha dato da pensare è stata l’identificazione della città – e dei suoi cittadini – con il suo circuito finanziario-commerciale. “Hanno devastato Milano”. Eppure non sono stati presi di mira monumenti, architetture, infrastrutture ecc. Sono state bruciate auto, spaccate vetrine di negozi (per lo più di lusso), banche, agenzie, fatte scritte su qualche edificio. Ora è invece un fatto che in questi ultimi decenni le città siano state davvero devastate sotto diversi punti di vista e sotto gli occhi di tutti e senza alcuna indignazione. Lasciando qui da parte la devastazione del tessuto sociale (espulsione dei residenti dai centri storici, processi di gentrification, ecc.) e considerando anche la sola – ma ovviamente connessa – devastazione estetica, che non dovrebbe sfuggire, abbiamo sotto gli occhi brutte insegne commerciali su edifici di straordinario valore architettonico (spesso proprio banche), piazze invase da gazebo di bar e ristoranti e arredi – cioè vasi, transenne, panettoni ecc. – a protezione di monumenti e centri storici sempre più snaturati (e non perché siano vissuti e corrotti, ma anzi proprio perché a volte preservati come bomboniere su un centrino: degenerati in parchi a tema, destinati al consumo e nessun’altra dimensione della vita). Qualche giorno fa richiamavo un articolo sulla devastazione architettonica della stazione Termini, ma potrei parlare di Piazza della Signoria a Firenze, che è ormai una pena guardare. Le denunciate devastazioni di Milano sono davvero nulla a confronto. Tra l’altro lì entro pochi giorni tutto ritornerà come prima.
Ma allora, se i danni reali sono stati in fondo poca cosa, ciò che ha indignato dei gesti di rivolta non sono stati gli effetti ma evidentemente i gesti di rivolta come tali. E qui mi pare un fatto significativo che la reazione generale – anche ripeto di persone non proprio sprovvedute – sia stata il sentire come un oltraggio a loro stesse l’attacco alla vetrina di un concessionario di BMW o a una bella coupé: proprio un’identificazione con la cosa, neppure l’empatia con il proprietario – una piena identificazione che va interamente al di là di ogni difesa di reali interessi materiali. Così il giorno dopo i cittadini si “rimboccano le maniche” e “ripuliscono” la città. “E’ partita sul web la mobilitazione con il nome di “Nessuno tocchi Milano” che domenica 3 maggio dalle ore 16 vuol riappropriarsi della città che tutti noi amiamo”. Uno scenario alla Ballard (sarà che sono fissata con Ballard).
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Una riflessione di un compagna – Zero81 Napoli
Dopo il corteo di ieri a #Milano mi aspettavo la cascata di merda di oggi… e mi sono più volte detta che questa volta avrei scelto il silenzio come risposta… purtroppo non ci riesco… perché ogni parola che leggo è una ferita sul mio corpo, un’altra ferita da aggiungere alle tante collezionate in anni di lotte…
Mi colpisce profondamente l’aggressività con cui oggi ci si scaglia contro studenti e manifestanti.
Mi colpisce profondamente la rabbia che si è manifestata ieri in piazza a Milano.
Mi colpisce profondamente la violenza che tutti i giorni subisco tentando di arrivare a fine mese
Mi colpisce profondamente l’incapacità umana di guardare oltre il proprio naso e l’irrefrenabile desiderio di esprimersi solo quando si devono attaccare le nuove generazioni
Mi colpisce profondamente l’uso di termini individualistici da parte di quelle che oggi vengono definiti “i semplici cittadini”… come se io non lo fossi… l’utilizzo di “la mia macchina” “la mia vetrina” “la mia casa” “il mio lavoro” “i miei soldi” e pure i libri di scuola dicono che noi siamo una cultura che mira alla collettività non all’individualismo
Mi colpisce l’isolamento in cui oggi ci costringono a vivere, o che noi stessi creiamo per vivere, un isolamento che è lacerante, demoralizzante, violento…
Non ho mai visto un’anziana avere così tanta voglia di aggredire verbalmente e fisicamente i politici, che ci opprimo e che fanno leggi per il loro tornaconto, come quella che ho visto oggi scagliarsi contro dei ragazzi che potrebbero essere suoi figli e augurarsene la morte…
Oggi ho visto un paese palesarsi in tutta la sua difficoltà…
Partendo da un corteo che è stato incapace di incanalare la propria rabbia verso obiettivi legittimi e leggibili. Perché sappiamo che questo è il gioco, cercare di essere leggibili agli occhi di un mondo che non vuole leggerci…
Una piazza incapace di mantenere il controllo, direi anzi una piazza che non ha voluto mantenere il controllo, non si può controllare la rabbia. È difficile, forse impossibile. E non si può pretendere che qualcuno lo faccia. Perché chi lotta per non essere controllato dovrebbe poi controllare chi come te decide di sfogare la propria rabbia?
Ho visto il classico gioco dei media mainstrem deviare l’opinione pubblica verso argomenti più futili per non pensare al potenziale politico che era in piazza ieri, li ho visti incanalare l’attenzione su un ragazzetto che in questo mondo non trova identità e la va cercando da chi questa identità ce l’ha già ben formata… lo ha fatto diventare emblema di una protesta per poterla ridicolizzare e il paese è riuscito solo a vedere il ridicolo che c’era in quelle dichiarazioni.
Ma mattia forse non è diverso dagli altri, cerca se stesso in un scenario devastante e distruttivo che viviamo tutti i giorni e non riesce poi a staccarsi dalla dinamica del controllo parentale…
Ho visto i politici di turno parlare dei figli di papà, rimembrane il g8 di Genova ma è troppo semplice citare quelle 4 parole che fanno presa su tutti, che sono i fantasmi più brutti del nostro passato.
Ho visto poi una diffusa opinione pubblica scaldarsi e scagliarsi contro una generazione che, nel giusto o nel torto, è il nostro futuro. Ho visto l’incapacità o anzi la non volontà di capire che su un piatto della bilancia pesano di più i danni fatti dall’expo che quelli fatti dai no expo. Ho visto l’incapacità e la non volontà di provare a capire chi oggi mette in gioco la propria vita. Perché qui non parliamo di cosa è giusto o sbagliato, ma di persone che ogni giorno rischiano la vita per affermare i proprio ideali, e lo fanno da anni, nei modi più diversi, ma nessuno si è mai preoccupato di ascoltarli.
E in mezzo ci sono i movimenti, i black block, gli incappucciati… ci sono persone…
Stanche, incazzate, depresse, frustrate che oggi agiscono nei modi più disparati.
Cosa credete, che a noi piace farci spaccare la testa, andare in galera o farci intossicare con i lacrimogeni? Credete sia un divertimento per noi?
Non ci piace piangere, vomitare, svenire quando ci abboffate di lacrimogeni.
Non ci piace avere i punti di sutura a causa di una manganellata.
Non ci piace perdere i denti o un occhio per un lacrimogeno lanciato ad altezza uomo.
Non ci piace morire nelle piazze…
Non vi chiedete quanto sia preoccupante che una intera generazione metta a rischio la propria vita per i propri ideali?
Non vi chiedete quanto sia preoccupante questo fenomeno sociale? Farsi picchiare per farsi sentire?
Siamo la generazione che non può scegliere…
Non può scegliere quale università fare, che lavoro avere, quali sogni coltivare, che sentimenti provare.
Non può scegliere come protestare, come incazzarsi, come dissentire.
Non può scegliere come agire per colpire tutti quelli che fino a oggi hanno pensato a innaffiare solo il proprio orticello.
PER QUELLO CHE E’ SUCCESSO IERI A MILANO SIAMO TUTTI RESPOSANBILI. NESSUNO SI SENTA ASSOLTO.
Sono responsabili quelli che rimangono a casa dicendo che scenderanno solo quando ci sarà la vera rivoluzione, ma secondo voi chi la fa sta vera rivoluzione? Secondo voi non si costruisce con il tempo, nei collettivi, nei luoghi dell’orizzontalità e non della verticalità? Chi dovrebbe costruire questa rivoluzione per voi? Per permettere anche a voi di raccontare un giorno ai vostri figli che voi c’eravate?
Siete tutti responsabili, voi che pontificate da dietro una tastiera senza toccare il disagio, che dite cosa è giusto e cosa sbagliato, su come noi giovani dovremmo vivere, proprio come fanno i politici dalle loro case sorvegliate.
Siete tutti responsabili, voi che adesso vi svegliate e attaccate una generazione che, nel torto o nel giusto, tutti i giorni si fracassa i coglioni con discussioni, assemblee e ragionamenti su quale potrebbe essere il modo migliore per far rispettare le proprie idee. Perché noi sappiamo di avere ragione, la storia ce lo insegna, le ragioni di una minoranza si scoprono essere giuste solo 50 anni dopo, quando ormai è troppo tardi.
Siete tutti responsabili, voi che guardate la vetrina e non cosa c’è dietro la vetrina, siete quelli dei selfie e della chirurgia plastica, delle città vetrina.
Siete quelli che non leggono il conflitto ma solo l’estetica della piazza.
Sono responsabili i movimenti che non sono riusciti a organizzare una piazza degna della portata politica di quel giorno e di tutte le persone che erano lì…
Ma scusateci se da soli non riusciamo a gestire la rabbia del paese, scusateci se dopo giornate in cui lottiamo per arrivare a fine mese, ci svegliamo all’alba e mangiamo il cibo dell’eurospin, corriamo a lavoro prendendo mezzi che non ci faranno mai arrivare puntuali, e meccanicamente svolgiamo il nostro lavoro sottopagato, poi corriamo a lezione perché ci avete cresciuti inculcandoci che un pezzo di carta ti aiuterà a lavorare, poi corriamo alle assemblee quelle in cui dopo giornate infernali proviamo a ragionare guardando oltre, raccogliendo le forze che ti rimangono, spremendo le meningi e cercando di capire cosa succede in questo mondo alienante e alienato, non pensando alle violenze subite, mettendo da parte la rabbia per trovare il modo mediaticamente migliore per farci ascoltare e far capire al mondo che in realtà abbiamo ragione.
Poi torni a casa, che chiamarla casa è un parolone, una stanza in affitto fredda e mal curata con un boiler da 10 litri per 5 persone e da sola poggi la testa sul cuscino, ed è lì che la tua rabbia cresce quando ti rendi conto della solitudine in cui vivi e del futuro che non vedi di fronte a te…
Solitudine, isolamento, frustrazione che voi tutti contribuite ad accrescere…
Scusateci se a fine giornata ci sentiamo violentati, lacerati, feriti, aggrediti.
Scusateci se la nostra violenza vi balza all’occhio più di quella che subiamo tutti i giorni.
Scusateci se abbiamo ancora la voglia e la forza di lottare.
Scusateci se per noi esiste ancora un noi…
Scusateci se noi cerchiamo un futuro…
Scusateci se a volte non ci riusciamo, se non riusciamo a capire come voi la pensate e come vorreste che scendessimo in piazza.
Scusateci se non abbiamo la palla di vetro, se non capiamo in anticipo che Milano era una trappola per costringerci ancora di più nell’isolamento.
Scusateci se non riusciamo a essere così lungimiranti, così pronti nel prevedere il futuro, così capaci di dare voce anche ai pensieri di chi sta davanti la tv o dietro un pc, di chi non ho mai visto nelle assemblee, scusateci ma ci state dando un po’ troppe responsabilità.
Scusateci se a fine giornata siamo stanchi, fisicamente ed emotivamente…
Scusateci se sappiamo ancora provare sentimenti, se sappiamo ancora essere umani e non automi o supereroi purtroppo batman non esite neanche catwoman, o robin hood.
Siamo noi e siamo quello che siamo, e preferisco di gran lunga essere noi che voi…
Siete così indottrinati, così schiacciati dal potere, che non vi rendete conto che fate lo stesso gioco di chi ci governa, di chi ci cancella il futuro e ci chiude in un isolamento dal quale a fatica, con le unghie e con i denti, ogni giorno si cerca di uscire.
Il nostro è odio mosso d’amore… e se vedete solo odio è perché non ci date la possibilità di esprimere amore…
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Milano e l’EXPO a ferro e fuoco, ovvero la propaganda liberista all’attacco – Francesco Erspamer
I black bloc non hanno lasciato nemmeno uno sgraffio permanente sul volto di Milano e dell’EXPO, come i neri in rivolta non l’hanno lasciato su quello di Baltimora; le oscene cicatrici che vediamo e per sempre le ha fatte la cieca avidità di un sistema che al denaro ha sacrificato il futuro di quei ragazzi.
Bisogna stare attenti a usare le parole, a prescindere dalle proprie convinzioni su un determinato argomento, altrimenti si svuota il linguaggio della sua capacità di imporre coerenza e razionalità ai dibattiti e si accetta la degenerazione della politica in gossip, l’arma vincente del liberismo.
I media sono in questo senso davvero dei cattivi maestri: “Milano a ferro e fuoco” hanno intitolato La Repubblica e quasi tutti i quotidiani. Questa la definizione dell’espressione sul Grande dizionario della lingua italiana: “sterminio e devastazione per mezzo di armi e di incendi”. Applicarla a incidenti che non hanno provocato neanche un ferito e in cui a bruciare sono state solo alcune automobili è puro sensazionalismo, deliberata manipolazione. I giornalisti di un paio di generazioni fa, alla Montanelli, si sarebbero ricordatii di Tito Livio, che nella sua storia di Roma usò varie volte la locuzione, sempre per indicare una rovina totale: “Ferro flammaque omnia absunta”. E avrebbero dunque evitato di inflazionarne e banalizzarne il significato: perché è molto rischioso gridare al lupo quando il lupo non c’è.
Ma oggi i classici non li legge nessuno, tanto meno gli arrampicatori sociali e i venditori di fumo mediatico. E la gente si è abituata a quel fumo. Per molti le uniche emozioni sono a telecomando: di breve durata, non lasciano traccia (non sono vere esperienze ma loro surrogati virtuali, una sorta di pornografia dell’informazione), però possono essere ripetute frequentemente, oggi per una decapitazione in Siria (purché di un occidentale), domani per un’epidemia in Africa (purché ci sia almeno un caso in Europa), ieri era una strage in Ucraina (purché attribuibile ai filorussi). L’empatia si consuma su avvenimenti remoti e non ne resta più per quelli locali e concreti: il precetto evangelico di amare il proprio prossimo (con gli impliciti rischi di costruire un rapporto di solidarietà, addirittura un partito) è stato sostituito dal precetto liberista di amare solo chi sia lontano, a distanza di sicurezza da pericolose forme di aggregazione e responsabilità.
In molti articoli e in moltissimi post ho letto l’accusa ai black bloc milanesi di avere “distrutto la città”. Un’iperbole, ma non sembra che tutti quelli che l’hanno usata se ne rendessero conto: e purtroppo credere alle figure retoriche, trasformarle in dati di fatto, è l’indice del successo della propaganda. Per distruggere una città serve un inferno di fuoco come quello atomico su Hiroshima o quello convenzionale su Dresda; certo non un paio di molotov. Oppure serve, molto più frequentemente, una speculazione edilizia impunita e incontrollata. Al di là della seconda guerra mondiale e di qualche terremoto, gli unici veri, enormi, irreversibili danni subìti dalle città italiane sono stati provocati dal capitalismo, con la sistematica tolleranza per l’abusivismo, con piani urbanistici demenziali o disattesi, con la disneyficazione di alcune aree e l’abbandono di altre. Tutti i cortei, pacifici o accompagnati da scontri, che sono avvenuti nell’ultimo secolo, hanno provocato, nel loro insieme, danni irrilevanti al patrimonio culturale e architettonico e molto limitati alla proprietà pubblica e privata. Niente a che vedere con le gravissime conseguenze della cementificazione, dell’incuria ambientale (pensate solo all’inondazione in Liguria di pochi mesi fa), del degrado di interi quartieri, della canalizzazione delle risorse su progetti di facciata (tipo l’Expo) invece che sulla tutela del territorio.
I black bloc non hanno lasciato nemmeno uno sgraffio permanente sul volto di Milano, come i neri in rivolta non l’hanno lasciato su quello di Baltimora; le oscene cicatrici che vediamo, e che non potranno essere cancellate, le ha fatte la cieca avidità di un sistema che al denaro ha sacrificato le tradizioni, i valori, la storia e il senso di appartenenza e che fa finta di ricordarsene solo quando ragazzi senza passato e senza futuro si ribellano come possono, come sanno.
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C’è un’autostrada tra Baltimora e Milano? – Cinzia Arruzza e Felice Mometti
Non tutti i riot sono uguali. E nemmeno gli eventi di insorgenza degli ultimi anni. Persino a limitarsi al panorama statunitense, ci sono differenze significative tra un evento e l’altro. L’esito della ribellione a Ferguson è stato l’apertura di un nuovo spazio politico con la formazione della coalizione Ferguson Action e l’espansione del movimento Black Lives Matter a gran parte del territorio nazionale. Questo esito non si è prodotto due anni fa a seguito della ribellione a Brooklyn East, dopo l’uccisione di Kimani Grey da parte della polizia di New York. E gli eventi stanno prendendo una piega ancora diversa a Baltimora con l’intervento, promosso e sostenuto dall’amministrazione Obama, delle grandi associazioni afro-americane organizzate nel National Action Network, come strumento di mediazione e moderazione del conflitto. E il tentativo, dall’altro lato, di Nation of Islam di inserirsi in modo autonomo in questo gioco. Si potrebbe dire che la nottola dei riot si leva sempre all’imbrunire. In altre parole, un riot andrebbe valutato e analizzato a partire dagli esiti che produce in termini di percorsi di soggettivazione e di apertura di nuovi spazi politici.
Che a fronte della fine del vecchio movimento operaio e della frammentazione e disorganizzazione della classe ci sia bisogno, in Italia, di una nuova insorgenza in grado di aprire un nuovo spazio politico di auto-organizzazione non si può che essere d’accordo. La domanda che si pone, però, è: c’è un filo diretto tra Baltimora e Milano? La risposta non può che essere negativa, a meno che non si pensi che l’evocazione del riot, attraverso la sua messa in scena in piazza, sia in grado di per sé di produrre una nuova soggettività conflittuale. Sarebbe l’equivalente di pensare che si possa organizzare l’auto-organizzazione. Ci sembra piuttosto che i soggetti che praticano il conflitto contro le politiche neoliberiste e di distruzione del pianeta – ben rappresentate nell’Expo – debbano essere al tempo stesso il presupposto e il prodotto del conflitto. In altri termini quello che è assente nell’ipotesi della rappresentazione scenica del riot è il punto di partenza, il presupposto, quella soggettività che poi attraverso la pratica del conflitto trasforma se stessa. Questa soggettività non può essere prodotta in maniera volontaristica. E certo non può essere prodotta nemmeno mettendosi in cattedra facendo lezioni su un passato che non tornerà più ed «educando» i nuovi giovani ribelli con il manuale del rivoluzionario consapevole.
Un generico consenso mediatico non è e non dovrebbe essere la cartina di tornasole del buon esito di una pratica conflittuale. Ci sarebbe anzi da aprire una riflessione su che cosa voglia dire consenso mediatico, di fronte alle ambiguità di media mainstream che sono pronti a fare l’occhiolino ai riot quando accadono altrove, a Ferguson, a Baltimora, in piazza Taksim, e poi giocano alla spettacolarizzazione negativa quando nel salotto buono della finanzia italiana, a Milano, avviene molto di meno. E tuttavia rimane il problema di valutare una pratica conflittuale non dal punto di vista del consenso mediatico, ma dell’apertura di un nuovo percorso di politicizzazione dello spazio sociale e urbano. L’apertura di un nuovo percorso di politicizzazione dovrebbe essere la creazione di uno spazio, di forme di organizzazione e modalità del conflitto in cui la rabbia sociale diffusa e i soggetti che ne sono portatori possano riconoscersi e attraverso cui possano partecipare e diventare protagonisti. Questo è quello che intendiamo per autorganizzazione: né i vari esperimenti di ricomposizione politico-elettorale di questi anni, affetti da un’impressionante coazione a ripetere, e nemmeno le trappole meccanicistiche dell’evocazione di piazza del riot. È a partire da questa prospettiva, quella dell’autorganizzazione, che si deve porre la questione del consenso, perché il consenso non rimanga un significante vuoto da riempire in modo più o meno strumentale a seconda dei contesti. Il nostro metro di misura non dovrebbe essere solo la capacità o meno di mettere in difficoltà o in crisi lo storytelling renziano, ma quella di gettare le basi per una narrazione diversa, contemporanea, i cui protagonisti siano i soggetti che producono conflitto oggi, e non le icone del passato. Si è aperto o si aprirà questo nuovo percorso dopo la Mayday di Milano? Questa è la domanda che ci si dovrebbe porre.
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L’intelligenza strategica – di Cristina Morini
«Ci avete visto lanciare sassi, oggetti e bottiglie incendiarie. Brandire spranghe e bastoni a mo’ di alabarde. Tendere nervi e muscoli in gesti improbabili e poi scappare, nasconderci, mimetizzarci, uscire dal niente e rientrare nell’ombra. Certo, vi piacerebbe sapere che siamo adolescenti ben pasciuti, pargoli di genitori separati, viziati dal logo e solo per cipiglio passati dall’altro lato della barricata. Vi piacerebbe credere che siamo la punta dell’iceberg di una generazione senza valori. Forse la vostra brutta sociologia vi porterà a vedere solo ciò che vorreste…».
Sono passati quasi 15 anni da quando, nel dicembre 2001, poco dopo Genova, uscì il libro Io sono un black bloc. Poesia pratica della sovversione. Appena conclusa la manifestazione NoExpo Mayday del 1 maggio 2015 la tentazione di molti è stata quella di andare, ancora, proprio a cercare epiteti e definizioni per il cosiddetto “blocco nero”. Tutte sbagliate. Non sono adolescenti frustrati, non sono per forza stranieri, né figlie della borghesia con il rolex al polso (“siamo ciò che distrugge la merce, siamo ciò che volete che siamo”). Catalogarli, quasi a volerli esorcizzare per distanziarli da sé, è scorretto e infattibile. L’esempio più clamoroso di questa tendenza è stato forse l’intervista raccolta dalla solita informazione italiana, priva di stile e di decenza, al disgraziato ragazzo che dichiara di amare “il bordello”. Se vi va, condividetela, ridetene, mettetelo alla berlina.
A Milano noi abbiamo visto una componente del movimento, legittimamente interna al corteo. Ampia (non 30 persone, ma forse 1500), determinata e organizzata. Alle tesi complottiste sugli infiltrati non è il caso di dedicare parole. Ma, effettivamente, dentro a quello stesso corteo, in tanti e tante, (meno giovani e più giovani), in alcuni momenti non siamo stati “con agio”. Questo è un primo dato. Frutto del trauma che ci ha regalato Genova 2001, ma anche del fatto che non esiste un largo tessuto sociale, coeso, in grado di investire completamente su tali pratiche di “rivolta”, assumendosele, né, davanti alle vetrine che saltano o a una macchina che brucia, riesce oggi a esprimersi vero consenso.
Sappiamo benissimo che la “democrazia” è morta e il punto non è affidarsi al meccanismo di una rappresentanza svuotato di senso. Sappiamo ancora meglio come gravi su ciascuno di noi, sempre più precisamente, la radicale violenza degli effetti sociali della crisi perenne neoliberista con i suoi cascami ideologici. Ci dichiariamo infatti fuori dall’ideologia cittadina, quella dei cittadini “buoni” contro i “cattivi” potenziali criminali, che è ideologia della sorveglianza, la quale ieri, infatti, ha messo in onda, a Milano, una manifestazione “civica” per ripulire la città dai resti lasciati dai “violenti”. Detto questo, chiarito tutto questo, il problema politico ci resta. Ci resta da affrontare un nodo politico intorno al quale si gira da tempo, ormai.
Vogliamo guardare davvero, senza romanticismi, alla potenza e all’empasse dei movimenti nelle piazze, a queste eruzioni reiterate ma mai collegate? Come uscire dalla contrapposizione, tra l’affidarsi alle istituzioni da un lato o alla logica dello scontro dall’altro? Come possiamo trovare modalità per condividere pratiche dentro grandi cortei partecipati a livello internazionale e importanti, come era questo del NoExpo Mayday di Milano 2015? Oppure, ancora, altra domanda: queste forme nostrane di riot generano “immaginari” – e quando scrivo immaginari intendo qualcosa che costruisca tensioni che resistano, proiezioni capaci di replicarsi, traiettorie in grado di svilupparsi lungo una qualche strada? Immaginari, cioè, che mettano in moto desideri e si coalizzino intorno a progetti, a un’idea diversa del mondo? Come ben sappiamo, più della rabbia o della rappresentazione, anche gestuale, della sofferenza, è l’immaginazione quella che apre le porte, sempre. In realtà, oggettivamente, questi lampi metropolitani non vanno appiattiti affatto sulla casualità estemporanea del puro sfogo. Ma nemmeno sono capaci di rappresentare una risposta alla nostra collettiva difficoltà nell’incontrare e a organizzare le soggettività. Così, il rischio di marginalizzazione si mantiene elevato, mentre è altrettanto elevato il pericolo di una stretta repressiva che rischia di accompagnare giornate come queste. Perciò, era giusto ed è giusto far notare le difficoltà che potrebbero incontrare la rete NoExpo e il movimento milanese nella sua complessità dopo questo primo di maggio. Non per pavidità, ma per bisogno di concretezza, dentro questa nebbia che si taglia con il coltello, tra fumogeni e lacrimogeni, alla fine, dove andiamo?
Il tema della condivisione, dell’allargamento, della capacità di parlare a settori sempre più ampi della società resta il nostro problema e, con il passare del tempo, sempre maggiori dubbi genera l’idea che la strada giusta sia quella di pestare solo lungo contraddizioni insanabili, tanto meno pare possibile, a questo punto della storia, fare affidamento su un soggetto contrapposto al mondo (l’avanguardia) che lo spinge nella corretta direzione. Si tratta anche di evitare, se possibile, le coazioni a ripetere, perché le cose non si presentano mai sotto la stessa forma che hanno assunto nel passato.
Sul sito urge/urge c’è un testo assai interessante di Amator Savater, una lettura del libro A nuestros amigos del Comité Invisible, dal titolo “Riaprire la questione rivoluzionaria”. Nel finale si legge: “Forzare le cose dall’esterno: le rivoluzioni che si fanno da questo punto di vista finiscono in un disastro e bruciano i rivoluzionari nel volontarismo”.
E allora, “ci sarebbe un altro percorso: imparare ad abitare pienamente, invece che governare, un processo di mutamento. Lasciarsi trasformare dalla realtà, per poterla trasformare a sua volta. Darsi tempo, per imparare i possibili che si aprono in questo o quel momento […] . Il contatto è insieme quel che ci permette di sentire da dove sta circolando la potenza del mondo e di accompagnarla senza forzarla, con attenzione. Di questa sensibilità abbiamo bisogno più che di mille corsi di formazione politica”.
“L’intelligenza strategica nasce dal cuore… incomprensione, negligenza e impazienza: il nemico sta qui”.
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Questioni di prospettiva. Un giudizio politico su Expo, Mayday e dintorni – di ∫connessioni precarie
Il primo maggio è passato, lasciando dietro di sé qualcosa di più delle macchine bruciate, delle vetrine rotte, degli abiti neri abbandonati per strada. Oltre all’Expo trionfalmente aperta, il primo maggio lascia dietro di sé l’immagine plastica di un movimento che, nonostante sia riuscito a mobilitare 30.000 persone per la Mayday, si scopre politicamente impotente.
Alla fine è successo quello che tutti prevedevano, anche se molti avevano detto di volerlo evitare: la logica dell’evento si è imposta su quella del processo, della costruzione, dell’accumulazione e della condivisione di forza. Ora scoprire che i media mainstream si comportano da media mainstream è quanto meno fuori luogo. Ora il botta e risposta contabile sui costi di Expo paragonati ai costi dei danneggiamenti lascia francamente il tempo che trova. Ora risolvere tutto facendo appello alle ragioni della spontaneità arrabbiata è quanto meno insufficiente. Ciò che è successo non può essere risolto grazie a un’estetica del riot che non riesce a coprire i limiti collettivi di progettualità politica, anche perché la definizione corrente di riot si avvicina sempre più pericolosamente a quella di una rivolta magari intensa, ma istantanea e destinata a essere riassorbita senza particolari problemi dall’oggettiva e dispotica supremazia militare e simbolica dello Stato. Se il riot esiste solo nel giorno in cui avviene, a cosa serve il riot?
Sarebbe però limitativo ricondurre i limiti di azione politica che si sono mostrati in piazza solo a ciò che è successo in piazza. Forse vale la pena ripensare l’intero discorso prodotto per l’occasione dell’Expo negli ultimi mesi. A noi pare evidente che se, di fronte allo slogan «Nutrire il pianeta», la risposta è il veganesimo coatto di certi centri sociali, difficilmente si riesce a opporre un discorso globalmente efficace alle chiacchiere edificanti che scorrono e scorreranno attorno all’Expo. Evidente è invece la difficoltà di produrre un discorso politico all’altezza dell’occasione. Il movimento italiano sembra pagare un suo specifico e presuntuoso provincialismo rispetto al quale non è riuscita a stabilire un contrappeso significativo nemmeno la presenza attiva all’interno di reti internazionali, come è stata per molti di noi l’esperienza di Blockupy per la contestazione della Bce a Francoforte. Sarebbe necessario, infatti, cogliere l’occasione dell’Expo, in modo da sollevare e far agire argomenti in grado di opporsi pubblicamente alla celebrazione del cibo come merce globale. Invece non siamo riusciti finora nemmeno a lasciar intravedere un punto di vista precario, migrante e operaio oltre che sullo sfruttamento del lavoro dentro all’Expo, anche su un tema che non riguarda solamente come si mangia in Italia o in Europa, ma anche e soprattutto chi mangia, quanto e quando in molte altre zone del mondo. Sarebbe letale prendere sul serio i proclami altisonanti di Renzi, che vogliono a tutti i costi fare dell’Expo una questione italiana. Abbiamo invece assistito a proposte e dibattiti su come dovrebbe essere Milano in questi sei mesi, su come ci si dovrebbe comportare nel cortile di casa, sulla dieta politicamente più appropriata. Il tema della città è oggi certamente centrale, ma lo è nella sua scala globale, non nel qui ed ora delle singole identità cittadine. Il grande capitale multinazionale costruisce una vetrina mondiale, coloratissima e frequentatissima, per dire che sì, c’è magari qualche problema, ma che a breve darà da mangiare a tutti. Noi, che non abbiamo nemmeno approssimato un discorso realistico sulla questione globale della riproduzione materiale dell’esistenza di alcuni miliardi di poveri, precari, migranti e operai, scambiamo quattro vetrine del centro di Milano per le vetrine «simbolicamente» più rilevanti. Che poi le vetrine prescelte e le azioni compiute siano sempre le stesse da anni, la dice lunga sull’indifferenza per un’occasione che dovrebbe invece essere colta, proprio per la sua complessità e per il suo carattere immediatamente globale.
Non stupisce dunque che ora, dopo la Mayday, ci troviamo a cercare il giusto equilibrio tra conflitto e consenso, in un modo che però rischia implicitamente di separarli. Ci sono alcuni che praticano il conflitto, per una rabbia più profonda o per una maggiore intensità politica, e altri che non lo fanno. Non si capisce bene se questi ultimi si trovino in una sorta di anticamera della lotta, dalla quale possono imparare come ci si dovrebbe comportare, o se invece sono ridotti semplicemente alla platea che dovrebbe approvare i comportamenti altrui. Parlare di consenso e conflitto ha senso nella misura in cui si sovrappongono quotidianamente e non vengono evocati solamente quando riguardano i comportamenti di piazza. Riservare il conflitto allo scontro con la polizia, con le vetrine e con le macchine non restituisce nemmeno lontanamente il livello di violenza e i sordi livelli di conflitto che si dispiegano quotidianamente nei luoghi di lavoro, sulle vie delle migrazioni e nei quartieri. Una violenza e un conflitto che non sono solo subiti passivamente, ma anche praticati con intelligenza e continuità. L’idea che un po’ di violenza di piazza possa servire da innesco a chissà quale presa di coscienza collettiva, così come quella che l’insorgenza di piazza sia l’unica forma possibile di espressione collettiva per le esperienze esistenti, sono semplicemente infantili. Il conflitto nelle piazze non può essere la rappresentazione esemplare di una conflittualità che si considera altrimenti assente o insufficiente. In questo caso saremmo di fronte all’espropriazione della possibilità di azione di massa e anche all’impossibilità pratica di costruire forme di conflittualità condivise.
D’altra parte anche sostenere che chi rompe tutto lo fa per una spontanea e incontrollabile rabbia, senza la pretesa di rappresentare nessuno, non si accorge che una simile individualizzazione dei comportamenti finisce per essere il rovescio, l’opposto simmetrico, dei comportamenti assolutamente individuali che il neoliberalismo pretende da ognuno di noi. Non è forse il caso di rompere con la condizione quotidiana di isolamento, invece di rappresentarla fedelmente anche durante le manifestazioni collettive? Ma già ragionare a partire da questa spontanea individualizzazione non coglie tutta la portata del problema. Qualche mese fa, prima dell’assedio e dei blocchi di Francoforte, è uscito un documento che annunciava il fallimento del movimento no-global e l’inutilità di ogni tentativo di costruire reti organizzative transnazionali, declassate direttamente a «reti solidali», così come chiunque provava a organizzarle era bollato come burocrate e con il marchio d’infamia di voler essere «ceto politico di movimento».
Ecco, secondo noi la differenza sta esattamente qui. Ed è a partire da questa differenza che ognuno deve assumersi le proprie responsabilità politiche. Qui non si tratta di dividere i buoni dai cattivi e nemmeno gli arrabbiati dai pavidi. Qui si tratta di evidenziare, e in caso discutere, una specifica differenza di prospettiva politica. Qui si tratta di dire chiaramente che c’è chi pensa che sia necessario costruire quotidianamente connessioni dentro le lotte e le molteplici figure che in esse si esprimono, anziché replicare attivamente l’individualizzazione altrimenti imposta. Qui si tratta di stabilire collegamenti non tra la propria singolare quotidianità e il riot di un giorno, ma tra le molteplici e disomogenee singolarità che ogni giorno sono costrette dentro e contro il lavoro precario operaio e migrante. Qui si tratta di ribadire che tutto questo non è possibile su un piano locale e che la dimensione europea è il suo minimo piano di sviluppo. Qui non si tratta dell’espressione immediata di un’identità sovversiva, ma dell’assenza di ogni identità consolidata e della difficoltà quotidiana per trovare forme collettive di espressione. Qui non si tratta di far esprimere qualcosa che già c’è, ma di costruire lo spazio per qualcosa che ancora non c’è, proprio perché ancora non riesce a trovare una forma collettiva di espressione. Noi pensiamo che questo sforzo verso il collettivo sia il primo punto all’ordine del giorno. Altri non lo pensano e si comportano di conseguenza. Sarebbe perciò il caso di smetterla con la facile critica dei giornali, con gli opinionisti occasionali che sono bravi quando ti danno ragione e canaglie quando ti danno torto, con il gioco incrociato delle citazioni. Sarebbe il caso di parlare seriamente delle prospettive politiche che si vogliono perseguire. Tutto il resto rischia di essere poco interessante e persino indifferente per i moltissimi che condividono la nostra condizione.
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Dopo la NoExpo MayDay, verso #alterExpo – di Attitudine NoExpo
Nella giornata del primo maggio, nella Milano di Expo 2015, mentre la politica e le multinazionali celebravano l’apertura dell’esposizione, un corteo di oltre 50mila persone ha sfilato per le vie di Milano.
La MayDay parade 2015, il tradizionale I maggio dei precari, è stata declinata quest’anno in una prospettiva di opposizione ad Expo: acceleratore di dinamiche di precarizzazione, rasponsabile di devastazione e saccheggio del territorio, matrice di debito pubblico.
Un corteo composito quello che ha attraversato le vie di Milano: l’internazionale delle bande musicali, i comitati che si oppongono alla predazione del territorio, i lavoratori e le lavoratrici della Rimaflow, la rete di produttori di Genuino Clandestino, i movimenti di lotta per la casa, gli studenti e le studentesse, i precari e le precarie che non hanno rappresentanza, uno spezzone ampio del mondo del lavoro, gli antispecisti, la rete NoExpo Pride, i sindacati di base, le opposizioni all’ interno delle organizzazioni confederali e le sigle della sinistra radicale.
Tutte queste componenti hanno portato a termine il corteo in forma organizzata, attraverso pratiche comunicative per segnalare le nocività di Expo. I sette anni che hanno caratterizzato la storia della Rete non possono essere ridotti alla strumentalizzazione mediatica e politica di alcuni momenti del corteo, che ne hanno sovradeterminato l’impostazione collettiva e che poco hanno a che vedere sia con un’espressione di rabbia spontanea, sia con lo stesso percorso No Expo.
Come abbiamo sempre fatto, ripartiremo dai nostri contenuti: lo abbiamo dimostrato con la pedalata di ieri, 2 maggio, che ha portato gli attivisti a girare attorno al sito Expo, nella penuria dei suoi visitatori, e con il pranzo popolare davanti a Eataly, che ha riempito Piazza XXV Aprile con il cibo di piccoli produttori agricoli, il suono delle bande musicali e la clown army.
Non siamo nè opinionisti nè giudici: di fronte alle dichiarazioni che evocano inasprimenti repressivi fino all’ introduzione di daspo per future manifestazioni, noi possiamo dire con fermezza che nessuno sarà lasciato solo.
Abbiamo aperto una stagione di sei mesi contro ed oltre il grande evento, che passerà dal No Expo Pride del 20 giugno, rivendicando il diritto ad una città femminista, frocia e queer, e dall’ assemblea nazionale prevista per la giornata del 3 maggio che sarà riconvocata a breve.
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Alla ricerca di un (reale) conflitto sociale – di Ri-make/Communia Net
Alla Mayday milanese si è mostrata in piazza una parte importante, determinata e determinante delle soggettività politiche e sociali che si oppongono alle politiche del governo Renzi e alle narrazioni sulle “magnifiche sorti e progressive” che si aprirebbero davanti al nostro paese grazie alla “politica del fare”.
Trentamila persone, dipinte dal Presidente del Consiglio e da media compiacenti come “gufi” fuori e contro la storia, come un pittoresco residuo che non riesce a intendere il cambiamento in atto.
Al contrario i trentamila in piazza hanno compreso bene la direzione del “cambiamento” imposta da questo Governo. E hanno compreso bene come l’evento Expo – per certi versi episodio “marginale” di fronte a quanto succede nel mondo – sia al tempo stesso simbolo e acceleratore (sul piano politico, economico e ideologico) di tali politiche.
La rete milanese NoExpo da sette anni lavora, con tenacia e intelligenza, per demistificare l’evento, rendere chiaro quale sia il suo significato e quali conseguenze sta producendo. Un lavoro che ha prodotto riflessioni, analisi, denunce e che ha provato anche a far circolare proposte alternative, non all’evento in sé, quanto alla narrazione e alle politiche che accelera.
Non si può non vedere però che questo lavoro non è bastato a produrre un allargamento significativo della superficie di contatto con i soggetti colpiti da quelle politiche e che in diversi modi avremmo dovuto coinvolgere in maniera diretta e comprensibile: promuovendo pratiche di opposizione e strumenti per l’autorganizzazione e la partecipazione su obiettivi specifici. Un po’ sul modello di quello che abbiamo visto in Brasile per le mobilitazioni contro le politiche prodotte dal Mondiale di calcio. Ma la dimensione dell’autorganizzazione dei soggetti è stata del tutto assente, o quasi. È questo il primo problema che tutti ci dovremmo porre, antecedente alla dinamica fuoriuscita dalla piazza e che in parte ne spiega anche la difficoltà: come si radica socialmente la lotta contro Expo?
Il corteo – anche uno importante come questo della Mayday – non è mai il momento principale e nemmeno il più importante in cui si pratica il conflitto, ma deve essere un piccolo evento capace di parlare non solo a chi vi partecipa ma anche, in questo caso, di svelare alla città la realtà nascosta dietro la campagna martellante dei media. Per poter poi rilanciare il conflitto e l’autorganizzazione contro le politiche di precarizzazione, cementificazione e debito imposte da Expo.
Tale rilancio dalla may day è stato evidentemente reso più difficile dalle scelte di una soggettività politica organizzata che ha voluto fare di quel corteo un momento di estetica del riot, imponendo una pratica di piazza dentro e contro la volontà della maggior parte delle donne e degli uomini che partecipavano.
Non prendiamoci in giro. Ciò che si è visto a Milano non è stata una rivolta spontanea di un conflitto reale, ma la semplice rappresentazione scenica della rivolta, la manifestazione di una forza organizzata che ha voluto spezzare il ritmo e il consenso che in questi anni la rete NoExpo ha cercato di costruire in maniera aperta alle diverse soggettività. Un modo come un altro per mettere il “cappello” ad una manifestazione, in maniera ormai piuttosto vecchia e scontata. Noiosa.
Si, noiosa, perché i riot visti a Milano non hanno nulla a che vedere con quanto accade a Baltimora. Un conto è l’espressione di una rabbia diretta, autorganizzata e rivolta direttamente contro ciò che si contesta, altro è una pratica organizzata da una precisa soggettività politica, per di più senza un obiettivo comprensibile.
Non ci interessa alcun discorso moralista sentito in questi giorni, né l’idea di dover educare a una presunta “giusta pratica rivoluzionaria”. Così come non ci interessano le tante sciocchezze sentite riguardo a infiltrazioni di vario tipo. A noi interessa l’autorganizzazione dei soggetti sociali, e la democrazia dei movimenti, e sono proprio queste le dinamiche del tutto assenti nei fatti della may day.
L’autorganizzazione non si organizza, produce le sue forme nelle dinamiche del conflitto, ma in una fase in cui il conflitto reale va ancora costruito le soggettività sociali e politiche devono sapersi coalizzare, mettersi in rete rispettandosi e arricchendosi l’un l’altra. Specie in una fase ben diversa da quella di 10 o 15 anni fa, in cui qualche soggetto, partito o area politica poteva dirsi egemone rispetto ad altre.
Non ci interessa separare i buoni dai cattivi, questo giochino lo lasciamo ad altri. A noi interessa avere corrette relazioni nel movimento in grado di rispettarne l’eterogeneità, unico modo in questa fase per costruire reti di opposizione sociale e politiche più larghe e inclusive, in grado di saper allargare la partecipazione conflittuale.
Intendiamoci. La scelta della stampa di concentrare tutta l’attenzione sugli eventi e gli “scontri” – già presa nei giorni precedenti inventando inesistenti “assalti” a banche e ritrovamenti di fantasiosi armamentari – è volutamente strabica. Parlare di una città “devastata” e di Milano a “ferro e fuoco” per danni limitati ad un triangolo di vie, fa parte della narrazione tossica che volevano cucire sopra i no Expo, fomentando un’indignazione del tutto sproporzionata e fuori luogo sulla città “violata”. La manifestazione organizzata da PD e maggioranza arancione ha messo in campo un proposta moralistica del tutto ipocrita. Si fomenta l’indignazione per danni economici circoscritti e contenuti nei costi, senza aver provato invece la minima indignazione per i miliardi di euro sprecati da Expo, per quelli finiti in tangenti e corruzione, e senza aver sprecato nemmeno un commento per chi è morto nel cantiere dell’Expo lavorando in condizioni infernali pur di renderlo “fruibile” il primo maggio. Un’ipocrisia che serve solo a contrapporre una presunta “Milano città aperta e solidale” alla possibilità del dissenso, presentandosi di fatto come il solo cambiamento possibile.
Così come ci fanno venire l’orticaria le richieste di “condanne esemplari” e l’insistenza sul reato di “devastazione e saccheggio” (con pene che arrivano fino a 15 anni!), dispositivo letale reintrodotto per reprimere i fatti di Genova 2001 e da allora sventolato ad ogni manifestazione con scontri di piazza per criminalizzare il movimento intero, colpendo singole persone e tentando di affrontare una questione politica e sociale sul piano penale.
Noi rivendichiamo fino in fondo di aver partecipato all’organizzazione della Mayday e la nostra internità alla rete Attitudine No Expo (che è chiamata ad una difficile e importante discussione, che comincia con il comunicato uscito ieri). Rivendichiamo la scelta di stare in un corteo difficile, per il quale segnali di possibili episodi che non avremmo condiviso c’erano tutti, ma pensiamo sia stata sbagliata la scelta di alcuni di porsi fuori, di subire il ricatto delle possibili “violenze”, di non tentare e inventare pratiche autonome, democratiche ed efficaci.
Oggi però si impone una riflessione sulle pratiche e sulla capacità di proteggerne il senso collettivo e la possibilità reale di raggiungere gli obiettivi che ci si è dati collettivamente – senza cadere nella scorciatoia (peraltro impossibile da realizzare) della costruzione di servizi d’ordine capaci di risolvere le questioni sul piano “militare”. La questione è politica e politicamente va risolta.
Una riflessione sulle pratiche che investa i modi con cui si esprime conflitto in un corteo, ma che sappia andare anche al di là interrogando la quotidianità dell’impegno sociale e politico, fatta di riappropriazione, percorsi politici capaci di essere credibili e aperti, relazioni dal basso e conflitto – per radicare socialmente le lotte e ottenere risultati, pur in un contesto non facile.
Per questo vogliamo valorizzare quanto la rete ha fatto in questi giorni, oltre al corteo. Stiamo parlando del nostro contributo alla realizzazione della “tavolata popolare” davanti Eataly, insieme allo spazio Fuorimercato e Genuino Clandestino – momento che ha mostrato le alternative che esistono e che vanno costruite ogni giorno. Parliamo delle iniziative della e alla RiMaflow. Parliamo della nostra presenza nella rete NoExpoPride e così via…
Pratiche volte a promuovere, salvaguardare e consolidare percorsi sociali, con l’obiettivo di una politicizzazione collettiva. Ogni “coalizione sociale” può essere un terreno dove sperimentare e costruire questa politicizzazione collettiva, se è capace di produrre iniziativa e di includere conflitti, vertenze, pratiche dal basso.
I prossimi sei mesi la sfida sarà riuscire a manifestare la nostra opposizione a Expo e a quello che rappresenta oltre la forma corteo e oltre la risposta ad ogni evento. E’ la sfida di saper costruire un conflitto sociale reale.
Quello che vogliamo e dobbiamo fare è consolidare le reti esistenti, allargare la superficie di contatto con chi è colpito dalle politiche renziane, costruendo spazi per la loro autorganizzazione e insieme capire davvero come quelle politiche incidono sulle nostre vite.
Expo esiste e continuerà a esprimere narrazione tossica, ideologia, circuiti di relazioni per il rilancio dei profitti. Noi dobbiamo essere in grado non solo di costruire una diversa narrazione, ma di saperla comunicare; non solo di costruire spazi di riappropriazione, ma di saperli aprire e rendere attraversabili; non solo denunciare le nuove schiavitù e sfruttamento del lavoro, ma di intercettare i soggetti reali favorendone l’autorganizzazione realmente conflittuale.
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La ragione e l’odio: NoExpo MayDay 2015 – di Cock Sparrer
Expo è iniziato, e le tanto attese cinque giornate, le prime a cancelli aperti, No Expo sono finite.
La complessità di quel che accaduto va molto oltre la cronaca spiccia di qualche ora del corteo NoExpo MayDay. Il segno resta e rimane, l’impressionante dispositivo mediatico che ha cancellato qualsiasi altra cosa che non siano stati gli “scontri” ha fornito a speculatori della politica l’assist perfetto per organizzare una triste e grottesca parata benpensate di “ripulitura” dei danni e delle scritte lungo il percorso del corteo del primo maggio. Triste e grottesca, ma allo stesso tempo reale.
Reale quanto la presenza di una modalità di concepire la manifestazione politica che giornalisticamente parlando ha preso il nome di “black bloc”. Che piaccia o non piaccia la componente “nera” non è solo reale ma è anche in crescita. Bisogna farne i conti. E’ una modalità di stare in piazza. Chi prova a derubricarla in “infiltrati” non ha capito nulla. Esiste, e si esprime in molte delle grandi occasioni di piazza in Italia e in Europa. Certo quello che è accaduto a Milano non è riot, non è rabbia spontanea. E’ però una nuova esplicitazione di una presenza anche importante, che comunque ha anche a che fare con un senso di rabbia generalizzato e rifiuto generalizzato. Non solo dei simboli del capitalismo, ma anche delle strutture e degli spazi politici. Non rispetta niente e nessuno. Modalità di stare in piazza e di espressione politica che diventa immediatamente mediatico e soprattutto immediatamente egemonico. Istanbul, Baltimore, Atene o le banliues francesi non c’entrano assolutamente nulla con quello che è accaduto il primo maggio a Milano. Quel che è successo nelle vie di Milano è accaduto lungo il percorso autorizzato dalla questura, cioè negli spazi “concessi” al corteo. Nessuno spazio guadagnato con le azioni. Alcune centinaia di persone hanno monopolizzato l’attenzione mediatica, tolto spazio a decine di migliaia di persone e spostato l’asse del discorso costruito in tanti anni di lavoro dalla rete Attitudine No Expo. Insomma una sorta di complessa rappresentazione del conflitto, non conflitto reale. Come scrive la stessa rete “i sette anni che hanno caratterizzato la storia della Rete non possono essere ridotti alla strumentalizzazione mediatica e politica di alcuni momenti del corteo, che ne hanno sovra determinato l’impostazione collettiva e che poco hanno a che vedere sia con un’espressione di rabbia spontanea, sia con lo stesso percorso No Expo” come invece si è cercato di fare. Non solo il primo maggio ma anche il giorno seguente quando lo stile, le scelte, e le modalità dell’agire politico della rete No Expo sono scese nuovamente in piazza con una critical mass che ha raggiunto i cancelli del sito espositivo e con un pranzo sociale davanti a Eataly per raccontare come cibo e food siano concetti diversi, conflittuali e nemici. E’ difficile parlare di contenuti. Mostrare macchine in fiamme da una parte fa vendere i giornali dall’altra rende meno legittima la voce oppositiva al grande evento a cui il premier Renzi s’appoggia per lanciare e rilanciare la sua idea d’Italia. Le regole dei media le conosciamo tutti, anche chi ha deciso di avere un estetica e un colore diverso da un corteo ampio, moltitudinario, creativo e radicale.
Il primo maggio alla NoExpo MayDay c’erano oltre 50.000 persone, un numero importante di uomini e donne che hanno deciso di dire no ad Expo in tante maniere differenti. Reti di cittadini, comitati, centri sociali, collettivi studenteschi, cittadine e cittadini, lavoratori, precarie, migranti, sound-system, hanno portato in piazza lotte e resistenze, alternative e conflitti. Questo è il dato reale della manifestazione. Attorno al grido “No Expo!” si sono riconosciuti una molteplicità di soggetti che ogni giorno lottano per un mondo diverso.A quello spazio politico costruito per sette lunghi anni hanno partecipato tanti soggetti, anche quelli che non solo non si sono confrontati con la rete Attitudine No Expo, ma anche non erano interessati alla storia e al futuro di quel percorso ma solo alla piazza. Expo è paradigma del neoliberismo, quindi il No Expo è il paradigma dell’alternativa. Questo grido faceva e fa paura. Oltre alle speculazione mediatica così è arrivata anche quella politica.
L’operazione politica e culturale promossa da giunta Pisapia e PD di ieri, domenica 3 maggio, ovvero una sorta di pulitura collettiva dei danni generati da una parte del corteo, è grave e vergognosa. Cittadini benpensati che riparano i danni di una città offesa dalla “violenza politica” di un corteo rimarcando che l’unica modalità di manifestazione sia quella pacifica. Le grandi democrazie sono nate dai grandi tumulti, è giusto ricordarlo. Certo tumulti, rivolte e rivoluzioni sono una cosa seria. Hanno a che fare con gli obiettivi prima che con le pratiche. Divisione in buoni e cattivi, spostare l’attenzione dalla catastrofe Expo 2015 agli scontri del primo maggio è ad oggi uno dei risultati tangibili della mayday. Dove i cattivi sono i “noexpo”. Furti, sistemi di potere che legano politica ed economia, malavita organizzata, eventi nocivi e dannosi per la città hanno generato meno indignazione. Quasi come ci fossero endemicamente anticorpi ai grandi scippi del capitale vissuti con una normalità disarmante.
Il corteo del buonismo così va ad indicare l’opzione No Expo come nemica della democrazia e della convivenza, prova a tratteggiare i confini della protesta possibile e attacca l’organizzazione dal basso difendendo quindi lo status quo.
Non condividere alcuni episodi del corteo non significa che il conflitto e la sua pratica siano nemici dei movimenti e delle lotte sociali.
Ripartire da alcuni punti fermi è quindi necessario per guadagnare nuovamente spazi di legittimità e forza, denunciare con nettezza e decisione lo sciacallaggio mediatico così come le speculazioni politiche di caste,ceti politici (anche di movimento), sistemi di potere, una certezza e necessità.
I processi costituenti di una alternativa reale vivono, oggi schiacciati, tra le polarizzazioni del “riot per il riot” e della politica istituzionale nella ricerca e pratica di un’autonomia dal capitalismo fatta di conflitti e consenso. La rete No Expo non è morta, non è stata seppellita, sicuramente è più debole del 30 aprile.
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Guardando l’incendio di Milano dal Bronx – di Degage
Il Bronx è un quadrato di terra a Roma in fondo alla via Torrevecchia, due file parallele di palazzi grigi tagliate da una terza fila perpendicolare.
Il quartiere guarda Primavalle, della borgata è un figlio, un satellite, negli anni 70 fu costruito per accogliere i figli e i baraccati che nella vecchia borgata non trovavano più posto. Fu costruito anche per cercare di allentare la tensione sulla questione dell’abitazione dopo la rivolta di San Basilio.
Il Bronx è uno dei così detti P.E.E.P, come Tor Sapienza, Laurentino 38, Vigne Nuove omaggio tardivo dell’architettura nostrana all’unité d’habitation di le Corbusier.
E per il contrappasso che a volte punisce i potenti le architetture pensate come antidoto alla rivoluzione di ieri divengono alleati dell’insubordinazione di oggi. I cortili stretti, i passaggi pedonali sopraelevati, l’alta densità abitativa costituiscono un campo di battaglia più favorevole ai residenti che alle forze dell’ordine.
Questa mattina in decine hanno affollato i balconi e i tetti, le strade e i cortili per impedire uno sgombero.
Mentre la concitazione animava gli assembramenti spontanei tra cassonetti da spostare e da incendiare e sassi da raccogliere in tanti ci hanno chiesto di Milano, dei black bloc (o bloc busters come qualcuno li chiama) della determinazione di chi ha sfidato la polizia lontano da casa propria, nel ventre della bestia, al centro della città nel giorno di festa del capitalismo italiota.
Mentre ci riposavamo e aspettavamo notizie nei momenti di stallo abbiamo letto arguti analisti politici spiegare che Milano non è comprensibile alla gente.
Di quello che è successo questa mattina al Bronx, di quello che è successo a Milano venerdì non ci interessa farne un mito.
Non in tutto ci riconosciamo: al Bronx il razzismo è un discorso strisciante a Milano per alcuni tratti si è rischiato l’autolesionismo, in entrambi i casi un’ampia dose di individualismo ha rischiato di inficiare il tutto.
Ma in entrambi i casi pensiamo siano “fatti nostri”, situazioni che ci riguardano, che ci chiamano alla presenza. Lasciamo ad altri volentieri il compito di puntare l’indice, invocare le forche, prendere le distanze.
Che sia chi si appassiona a queste discussioni a decidere se il Bronx assomiglia più a Milano, a Baltimora o a Tor Sapienza.
Noi sappiamo da che parte stare…per le strade!
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Expo, violenze e… quello che nessuno dice – di Francesco Della Croce
La violenza scatenata a Milano è da condannare, non solo perchè nei fatti danneggia un movimento di contestazione sociale legittimo e serio, che in questi mesi si è strutturato ed ha avanzato una critica profonda a quello che l’Expo milanese ha finito per rappresentare (una vetrina d’immagine di un’Italia che non esiste), ma anche perché chi sinceramente ha contestato in questi mesi i lavori dell’Expo non può in alcun modo accettare le finalità di questa violenza urbana che altri non danneggia se non lavoratori, negozianti e piccoli artigiani. Di sicuro nessuno tra i potenti manovratori delle speculazioni dell’Expo. Ma non possiamo limitarci a questo, c’è molto altro da capire. In questi giorni stanno succedendo fatti importanti nel nostro Paese, si sta approvando, per esempio, una legge elettorale che nei fatti cancella ogni dialettica conflittuale nel Parlamento: le Camere da luogo di conflitto e mediazione di interessi contrapposti presenti nella nostra società, da specchio del Paese come le definì Palmiro Togliatti, diventano ufficialmente Istituzioni serventi nei confronti di un governo espressione di una minoranza (fateci caso, in Italia il 10% della popolazione detiene il 46% della ricchezza, è facile immaginare allora di chi è di quali interessi sarà espressione il governo di minoranza a cui saremo condannati con questa legge elettorale). Il tutto reso possibile da un premio di maggioranza assegnato ad una minoranza ed un meccanismo di ballottaggio che altererà la rappresentanza parlamentare.
Non bastasse questo, la fretta cieca di cambiare legge elettorale tradisce le intenzioni; infatti, una legge elettorale diversa dal Porcellum plasmata dalla Consulta con la sua sentenza 01/2014: un proporzionale con preferenze. Evidentemente è inaccettabile per chi governa pensare che il voto di tutti i cittadini possa essere ugualmente rappresentato nelle camere legislative, è probabilmente da rottamare questa aspirazione che data alla Rivoluzione francese. E’ una torsione autoritaria che ricalca molto il modello americano. Già, l’America. E’ proprio da lì che deve continuare questo ragionamento. In questi giorni soprattutto (ma da molti anni potremmo legittimamente affermare) esplode in quel paese un movimento di protesta popolare forte, violento che non ce la fa più a sopportare quel modello sociale, senza diritti, senza dignità, che crea deserti e periferie umane degradate e alienate rispetto a centri opulenti e “civili”. E’ una protesta senza coscienza, non organizzata, e lì diventa una questione di ordine pubblico, per cui l’unica istituzione chiamata in causa è la polizia, visto che questo malessere non ha cittadinanza nel Congresso americano, dove non da oggi i pensieri critici non sono accettati ed in passato sono stati anche perseguitati (come nel caso del partito comunista, “maccartismo” fu chiamata la caccia alle streghe contro i comunisti in USA). Non si tratta di un’esagerazione: il noto economista Stiglitz informa che gli Usa, con circa il 5% della popolazione mondiale, hanno intorno al 25% dei detenuti nel mondo nei loro confini nazionali. Lo smantellamento dell stato sociale produce in quella società miseria diffusa e la protesta contro questa condizione diventa semplicemente una questione d’ordine pubblico, per una società impermeabile al conflitto sociale e alla sua trasposizione nelle istituzioni. Istituzioni elette da un ristretto numero di cittadini (meno della metà dei cittadini americani si reca alle urne) e nelle mani salde di interessi conosciuti e incontrastati.
Ecco il rischio più grande che corriamo dunque. Il nostro Paese sta per vedere un mutamento qualitativo delle sue Istituzioni: con l’Italicum (e la riforma elettorale in discussione) si sancisce la cacciata dalle istituzioni del pensiero critico, delle organizzazione popolari rivoluzionarie che sono capaci di tradurre la mera protesta in una visione del mondo e della società differente dall’attuale, dallo stato di cose esistenti. Fa paura tutto questo infatti, fa paura che vaste fasce di popolo ritrovino coscienza e sappiano per cosa lottare e si dotino dello strumento finora più efficace sul piano della lotta politica: un partito di riferimento, un partito di classe.
Negli anni a venire, si correrà il rischio che con l’estromissione dal Parlamento di ogni rappresentanza degli interessi antagonisti a quelli dell’establishment e delle classi dominanti, la protesta si trasformi o in astensione dalla vita pubblica (l’alienazione sociale a cui ad esempio i social network stanno portando dovrebbe allarmarci molto in tal senso, sono incubatrice di solitudini), o in un mero voto di protesta senza nessuna coscienza (in questa ipotesi rientra, a giudizio di chi scrive, gran parte dell’elettorato 5 stelle, un movimento declinante e compatibilista, l’altra faccia della medaglia rappresentata da questo modello di società), oppure in uno sfogo violento, in un conflitto che si concentra nell’estetica del gesto, in una furia cieca distruttrice che trasforma la questione dell’ingiustizia sociale in un mero problema di ordine pubblico (pensate all’incarcerazione americana come fatto di massa utilizzato per risolvere queste tensioni e per garantire la “pace sociale”).
Nessuna giustificazione per i black bloc allora (ricordiamoci che però nel nostro Paese c’è una legge che impedisce di circolare con volto nascosto da passamontagna e altri simili “accessori”, non si riesce a capire facilmente, quindi, la difficoltà nel prevenire sul nascere questi fenomeni, visto che attraverso le nuove tecnologie è sufficientemente semplice intercettare e anticipare le mosse di centinaia di soggetti che probabilmente utilizzano la rete per organizzare le loro devastazioni, qualche dubbio sembra legittimo farselo venire).
Il rischio è grande, grandissimo. Condanniamo ma riflettiamo e, soprattutto, rispondiamo.
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Milano: la marcia dei 20.000 è la nuova Vandea – di Sergio Bellavita
Dovranno lavorare sodo le centinaia di uomini e donne che hanno raccolto l’invito di Pisapia a manifestare in difesa di Milano per la semplice ragione che sotto la vernice c’è uno sporco ben più pervasivo e corrosivo che non si cancella con detersivi e solventi. Corruzione, devastazione ambientale e sfruttamento intensivo del lavoro non si lavano con spugne e ramazze. È stupefacente come il ceto politico milanese abbia chiamato alla rivolta sulla parola d’ordine “nessuno tocchi Milano” non su una grande questione sociale, non sul sistema di potere e malaffare che continua a socializzare costi assurdi ed alimentare il privilegio e l’arbitrio di pochi. Non sulle malefatte di multinazionali che pretendono di raccontare come si combatte la fame nel mondo utilizzando la vetrina di Expo mentre depredano il pianeta e intere popolazioni. Se la marcia dei 40.000 a Torino su Fiat (che poi non erano più di diecimila ma la storia la fa chi vince come sappiamo) ha segnato una sconfitta durissima per il movimento operaio così la manifestazione di Pisapia ha il sapore amaro di una nuova Vandea ammantata di perbenismo. Ordine, pulizia e disciplina non sono le nuove parole d’ordine della sinistra del ventunesimo secolo ma lo stesso vecchio ciarpame di sempre appena abbellito dalla retorica dei buoni sentimenti. Talmente buoni che rimuovono ogni aspetto della enorme questione sociale aperta in questo paese. L’ingiustizia, lo sfruttamento, la diseguaglianza crescente, tutto è travolto dalla furia di ramazza e spazzole. Il mondo è così diviso in due: c’è chi sporca e chi pulisce. Non abbiamo alcuna simpatia per le auto danneggiate o per le vetrine in frantumi e non ci piace l’estetica del conflitto che non si rapporta al consenso di chi vuol rappresentare ma certo colpisce che tanta parte della cosiddetta intellettualità mostri attenzione e interesse per le manifestazioni della rabbia sociale in giro per il mondo mentre quando accade da noi tutto si riduce al teppismo e alle idiozie sull’esistenza dell’internazionale della violenza.
Così come colpisce la doppia morale sulla violenza. Quella del potere che certo ha metodi ben più raffinati, seduttivi e colti rispetto alla barbarica violenza agita con pietre e cartelli stradali. Una è politicamente ammessa, persino legittimata. A ingegneri, commercialisti, imprenditori ,consulenti e faccendieri vari mai nessuno imputerà il reato di devastazione e saccheggio invocato per i manifestanti in maniera criminale anche a sinistra. Per gli altri c’è appunto la gogna mediatica e il processo si è già chiuso con sentenza definitiva. Cosa sarebbe accaduto se la manifestazione della Milano che si ripulisce dagli “untori” fosse stata organizzata da una amministrazione di destra, Vandea? Certamente ci sarebbe stata una contro manifestazione del popolo che non ha sotterrato le armi della battaglia politica e sociale per un mondo diverso, più uguale e giusto. Vale anche per l’Italicum che oggi diverrà legge dello Stato. Se fosse stato Berlusconi a imporre la fiducia su un sistema elettorale profondamente autoritario ci sarebbe stata una sommossa di piazza.
Ancora una volta il nemico cammina nelle nostre di scarpe e ancora una volta lascia spazio alle peggiori pulsioni reazionarie che prima o poi, se non succede nulla a sinistra, troveranno, ahi noi, una rappresentanza pericolosa.
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Il mondo nuovo che avanza – di Giorgio Cremaschi
Le reazioni delle istituzioni, dei mass media e della opinione pubblica agli incidenti di Milano, hanno mostrato quanto sia oramai devastato lo spirito democratico in questo paese. È ovviamente comprensibile la rabbia delle 50 persone a cui è stata distrutta l’automobile, o dei quindici negozianti che hanno avuto le vetrine infrante. In effetti essi non c’entrano e colpire i loro beni per me è ingiusto . Tuttavia quanto è avvenuto non è minimamente paragonabile ai disordini nelle città europee in qualcuno degli ultimi grandi eventi . A Francoforte in occasione della inaugurazione della nuova sede BCE è successo molto di peggio. Per non parlare di quello che capita normalmente oramai negli StatiUniti o della rivolta nelle strade di Rio alla vigilia dei mondiali di calcio. In tutti questi casi da noi si sono sprecate analisi comprensive e compassionevoli sul disagio. Ma appena questo disagio è comparso in casa nostra, i più moderati tra i commentatori di palazzo hanno chiesto la legge marziale.
Il peggiore mi è apparso il sindaco di Milano. Il grido di sapore biblico da lui lanciato, nessuno tocchi Milano, che cosa vuol dire, che altrove si può? E quando la città è stata devastata da ruberie, tangenti, mafie, disoccupazione, devastazioni ambientali, vetrine a migliaia chiuse in periferia per lo strangolamento della crisi e delle banche, non è stata toccata allora Milano? Certo scendere in piazza in quei frangenti era più duro e rischioso, magari si sarebbero pestati i piedi a qualche potere forte, per puro sbaglio naturalmente.
Ma la vera indignazione è stata in realtà per l’immagine dell’Expo offuscata dai disordini. L’Expo dà lavoro ha detto rabbioso uno dei pulitori volontari, rivolto ad una ragazza coraggiosa, che ha tutta la mia ammirazione e che da sola ha provato a discutere con i cittadini indignati.
Modello Expo si disse da destra e sinistra quando la Confindustria, le istituzioni e CGlL CISL UIL firmarono l’accordo che autorizzava poco lavoro sottopagato e tanto gratuito. Modello Expo si aggiunge ora, quando gli ipocriti della sinistra ben pensante e ancora meglio retribuita hanno presentato la fiera come una specie di Social Forum di sei mesi, impegnato a trovare e ricette contro la fame nel mondo.
Modello Expo ha chiarito Renzi, celebrando la fiera come occasione di grandi affarii, proprio per questo appaltata a quelle multinazionali che, dice Vandana Shiva, affamano il pianeta.
Expo è una fiera che serve a mostrare quanto è vendibile il nostro paese, il suo ambiente, il suo lavoro. L’Italia è sul mercato e Expo ne è la vetrina. Questa è la vera risposta alla crisi che Renzi propone e sulla quale, assieme a tutto il potere economico che lo sostiene, gioca la partita del consenso. Basta con i vecchi scrupoli, i lacci e lacciuoli che frenano lo sviluppo. Basta con l’articolo 18 e con i vincoli ambientali, ha promesso Renzi alla Borsa. Basta con i diritti, rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci al lavoro e chi pone ostacoli è contro la nazione.
Questo messaggio reazionario di massa ha conquistato un PD sconfitto e rassegnato nei suoi valori, sottomesso al capitalismo globalizzato e alla ricchezza, ma abbarbicato al potere. Renzi è la sintesi perfetta di questa storia politica e per questo ridicolizza ogni opposizione interna, così come rende oramai inutile la vecchia destra berlusconiana.
Con il jobsact, la buona scuola, l’italicum il governo ha devastato ciò che restava dei principi e delle regole fondanti la nostra Costituzione. Resta solo da cambiare l’articolo uno, sostituendo lavoro con mercato e popolo con leader e poi tutto è fatto.
Questa Italia sul mercato è quella che ha assunto l’Expo come bandiera. La maggioranza del paese è d’accordo? Può essere, ma essa non è tutto e chi è contro non è piccola cosa. Solo che chi non accetta questo modello sociale e politico non ha diritto a veder riconosciute le proprie posizioni. La controriforma costituzionale di Renzi afferma la dittatura della maggioranza, anzi della più grossa minoranza. E sopra questo governo neoautoritario sta il potere delle Troika finanziaria e burocratica che comanda in Europa. La Grecia non può decidere liberamente di non far morire di fame i disoccupati, perché come si diceva una volta, è un paese a sovranità limitata. Un potere sempre più chiuso e autoritario è poi sostenuto da un sistema mediatico embedded, come la stampa che seguiva sui carri armati le guerre di Bush . Che gli incidenti abbiano oscurato le ragioni dei manifestanti della Mayday di Milano non è vero.
Il 28 febbraio in diecimila abbiamo manifestato a Milano contro il jobsact e il lavoro gratuito per Expo. Eravamo in gran parte militanti del sindacalismo di base e della corrente di opposizione in Cgil, moltissimi erano i migranti. È stata una manifestazione serena e viva che si è conclusa con una assemblea popolare in Piazza S.Babila. Non abbiamo lasciato per terra neppure le carte delle caramelle e siamo stati semplicemente ignorati dal circuito dei mass media. D’altra parte dove ci sono stati pubblici confronti sulle ragioni dei Noexpo, dove si son potute liberamente confrontare le due diverse posizioni? Non facciamo gli ipocriti, chi è contro il dominio di imprese e mercato nell’Italia di oggi é sostanzialmente clandestino e se prova a metter fuori la testa c’è chi minaccia di tagliargliela. I tranvieri di Milano hanno scioperato il 28 aprile contro i turni gravosi e pericolosi imposti per Expo. Apriti cielo, ministri della Repubblica han chiesto di liquidare il diritto di sciopero e i più moderati hanno aggiunto: solo durante le fiere. In questi giorni in Germania i macchinisti dei treni scioperano per sei giorni di seguito bloccando il paese, ma nessun governante chiede leggi speciali. Da noi avremmo talkshaw ove tra gli applausi si invocherebbe la galera. Subito dopo i fatti di Milano Renzi è stato contestato pacificamente a Bologna, ma non uno dei telegiornali ha fatto vedere gli insegnanti precari bastonati duramente dalla polizia
C’è una sordità ed una prepotenza del potere che porta naturalmente alla ribellione di chi non ci sta. E chi si ribella lo fa nei modi che questa società stessa offre. Certo Manpower e un’automobile non sono la stessa cosa. Certo le azioni dirette non sono gesto fine a sé stesso, devono comunque essere parte di un conflitto più vasto e riconosciuto da chi lo pratica. Ma il tempo delle dissociazioni, della distinzione in buoni e cattivi è finito. Certo che ci sono azioni sbagliate, ma sarà chi lotta a giudicarle. Bisogna che si capisca che non si può distruggere la Costituzione nata dalla Resistenza, ridurre tutto a merce e mercato e poi usare il linguaggio della prima repubblica quando si spaccano le vetrine. Per me la distruzione del mondo dei partiti di massa, del potere sindacale, dei diritti certi e dello stato sociale è stata una catastrofe. Per chi governa oggi invece questo è il progresso. Di questo progresso i fatti di Milano sono inevitabile conseguenza. Per questo sto con tutti quelli che sono scesi in piazza il 1 maggio, anche con coloro che han fatto azioni che non condivido.
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Primo maggio a Milano. Quella rabbia incontrollabile che fa paura alla sinistra italiana ed al cittadino comune – Collettivo Exit
Tra le tante certezze di chi la piazza l’ha vissuta con gli occhi dei professionisti della legalità, che paradossalmente difendono uno dei più grandi simboli del malaffare e della corruzione del dopoguerra, vorrei riportare due o tre frasi ovvie a partire da ciò che ho realmente visto tra le strade di Milano. Sicuramente queste righe non avranno la capacità di analisi espressa in qualche tweet da parte di esponenti di una sinistra decadente o degli articoli e video dei media main stream i cui giornalisti, in un caso più unico che raro, decidono addirittura di non farsi fare il dettato dalla questura per inventare favole più dannose di qualsiasi fantasiosa ricostruzione poliziesca. Come in tutte le favole che si rispettino, poi, ci sono addirittura i buoni e i cattivi nelle persone del manifestante pacifico e del black bloc. Ma veniamo ai fatti.
Quella del primo maggio a Milano è stata sicuramente una giornata ricca di contraddizioni con molteplici aspetti sui quali bisognerà lavorare dall’interno del Movimento ed altri sicuramente positivi. Rispondendo alle critiche mosse finora va innanzi tutto chiarito che la distinzione tra pacifici e violenti non esiste. Volendo partire dall’abc il più delle volte non è mai esistita. Quello del tentativo, del tutto fallimentare, di mettere pezzi di un movimento gli uni contro gli altri è forse un chiaro segnale della paura generata dall’incontrollabilità di questa massa informe che da anni porta avanti pratiche di autonomia e conflitto, ciascuno nei propri territori. In Val di Susa, nei giorni seguenti al corteo del 3 luglio 2011, qualcuno, rigorosamente dall’esterno, chiedeva di isolare i violenti. La risposta delle comunità e del Movimento NoTAV tutto fu chiara e compatta. Non c’erano violenti e pacifici e questo concetto è stato ribadito negli anni con le varie iniziative di solidarietà nei confronti di chi ha pagato sulla propria pelle il prezzo della repressione come forma di consenso nei governi democratici.
A Milano probabilmente il tentativo di divisione si è arricchito di un nuovo elemento, la rabbia diffusa, che per molti è inaccettabile in quanto emblema di un fallimento delle proprie strutture politiche di riferimento. Non è un caso che le stroncature ed i giudizi più pesanti nei confronti delle pratiche di lotta espresse in piazza a Milano vengano proprio da “sinistra”. Una sinistra in perenne crisi di identità e largamente contagiata dalla piaga del savianopensiero che, in linea con una pluridecennale tradizione socialdemocratica, da del fascista a chiunque abbia idee e pratiche diverse dalle sue larghissime vedute. A giudicare da alcuni commenti o pareri che si possono leggere qua e là sembra che sia inaccettabile per loro l’esistenza stessa di quella rabbia diffusa, sopra citata, ed il fatto che stia cercando di emergere in maniera del tutto autonoma in un blocco anticapitalista sempre più compatto e numeroso. Una nuova soggettività collettiva che renderebbe inutile ed invendibile qualsiasi favoletta elettorale.
Provando ad analizzare dall’interno la giornata del primo maggio a Milano sicuramente, come già detto, ci sono dei punti critici sui quali bisognerà lavorare. Come sempre non mancano gli inviti a dissociarsi dai danneggiamenti e dagli atti di teppismo. Sembra quasi che qualche auto in fiamme o vetrina rotta siano un danno maggiore rispetto a quello prodotto da Expo, con i suoi costi/sprechi che gravano su tutti i cittadini. Analogamente la violenza che ogni giorno si abbatte sulle nostre vite, sulle vite delle migliaia di giovani che lavoreranno gratuitamente per i sei mesi di Expo e sulle vite di tutti quei cittadini modello che si dicono indignati è ritenuta meno grave di una legittima manifestazione di rabbia. Sia chiaro, qui non si intende affermare che l’incendio di un auto possa ribaltare un intero modello di sviluppo basato su sfruttamento e precarizzazione del mondo del lavoro (ormai sinonimo di schiavitù). La violenza, se proprio la si vuole chiamare così, non è un fine, semmai un mezzo. Un mezzo per sopravvivere e rispondere alle violenze (quelle vere) quotidiane che ti spingono ad occupare una casa e provare ad emanciparti da un precariato esistenziale a tempo indeterminato spingendoti anche al di fuori del recinto della legalità. Detto ciò, il punto su cui bisognerà lavorare sarà proprio la comunicazione, all’interno e verso il mondo esterno. Qualcuno afferma che il rischio è quello che passino in secondo piano mesi di studio e lavoro di preparazione alla contestazione di Expo, anche se in realtà è almeno dal 2009 che è in moto una macchina che giorno per giorno ha prodotto informazione contro tutto ciò che girava intorno al grande evento. E bisognerà lavorare ancora tanto per tenere al centro del dibattito queste rivendicazioni. Ma il punto di partenza fondamentale sarà far capire al cittadino modello che non è la rabbia il problema, ma chi negli anni l’ha generata. Che sarebbe miope cercare di combatterla quella rabbia perché, ammesso che questo porti a liberarsi da essa, vivremo comunque tutti in una condizione di sfruttamento perenne. E questo lavoro può essere fatto soltanto rispedendo al mittente i vari inviti a dissociarsi, promossi da coloro che hanno discutibili alleati di governo in Parlamento come nelle pubbliche amministrazioni. Non cercando, dall’interno del nostro mondo, di spegnere o tenere sotto controllo quel sentimento umano che ti spinge ad azioni forti. Chiudere in uno spezzone o in una linea dettata dall’alto chi, giustamente, avrebbe voluto prendere parte alle azioni diffuse per le strade di Milano non è molto differente dalla politica che quotidianamente combattiamo con le nostre pratiche di autogestione. Prendere le distanze per tenere al sicuro le battaglie all’interno delle proprie micro realtà produce leaderismo ed autoreferenzialità. Logiche del tutto estranee al mondo dei movimenti. Sicuramente è giusto far presente che l’azione simbolica priva di un obbiettivo politico è fine a se stessa, diventa “danneggiamento” o “teppismo” per i più. Altro significato avrebbe avuto di certo provare a violare la zona rossa. Ma le spaccature per evitare di “cadere nel trappolone mediatico” non hanno senso. Risulta, inoltre, chiarissimo che ci sia stata una gestione dell’ordine pubblico studiata a regola d’arte per sbattere il mostro in prima pagina. Ma parliamoci chiaro, quando mai è successo che una sfilata colorata e pacifica abbia attratto l’attenzione dei media? Quando abbiamo deciso che fosse necessario risultare simpatici ai complici delle stesse strutture di potere che ogni giorno combattiamo? E, soprattutto, in quale occasione precisamente la stampa servile ha dato risalto alle nostre giuste rivendicazioni ed ai nostri lavori di studio per contestare grandi eventi e grandi opere inutili?
A Milano non si è trattato di “qualche violento”, ma di un intero blocco che ha resistito simbolicamente ed attuato pratiche di lotta diffuse nelle strade della città, di una piazza eterogenea in cui trovavano posto le varie istanze di lotta territoriali e l’esasperazione di chi vive la precarietà quotidiana come un lento ed inesorabile soffocamento. A Milano non si è combattuta la battaglia campale tra i movimenti e ed uno stato di cose inaccettabili, ma Milano dev’essere un punto di partenza, soprattutto, con tutte le sue criticità e cercando di non cancellare i pochi punti di forza a causa di una lettura miope della realtà.
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1° maggio No Expo – “Un po’ di possibile, altrimenti soffochiamo…”
Milano, corteo no-expo del 1 maggio.
Benvenuti nel deserto del reale… o meglio, benvenuti nella desertica realtà che viviamo ogni giorno. Qualche tempo fa in giro per l’Europa, e ieri a Milano vi abbiamo fatto assaggiare un po’ di quella devastazione con cui la maggior parte di noi è costretta a convivere ogni giorno. Vi abbiamo fatto vedere un po’ di quella rabbia che molto probabilmente anche molti e molte di voi covano sotto la coltre di una vita da miseria. Vi abbiamo sbattuto in faccia quella guerra in cui siamo ingaggiati ogni giorno nei nostri quartieri e nelle città in cui viviamo. Quella guerra che vi ostinate a non voler vedere, quella guerra nascosta sotto i veli mediatici della pace occidentale, minacciata, a quanto ci dicono, solo dai cataclismi e dai cosiddetti terrorismi…
E ora di nuovo riascolteremo il coro dell’indignazione civica: la violenza degli antagonisti, la cieca follia dei devastatori. Ma siete davvero così rincoglioniti? Fermatevi un secondo e provate a guardare con più attenzione tutto quello che la stampa e la tv hanno prodotto in questi giorni… poi scendete in strada e confrontatelo con quello che vedono i vostri occhi, con quello che sentono le vostre orecchie e la vostra pancia, con la paura che avete di perdere tutto, con quella voglia di farvi gli affari vostri che vi assale perché vi sentite ridotti all’impotenza e pensate che qualsiasi cosa facciate tanto tutto resta uguale. Provate a mettervi in gioco e all’ascolto e forse riuscirete a capire…
Riuscirete a capire che vivete davvero una vita di merda. E che molto spesso dite che non c’è niente da fare. Ma così parlano solo i cadaveri. E forse visto che intorno a voi c’è solo morte parlate proprio come dei vecchi che stanno per morire. E questo è il paese di merda in cui vivete, un paese di vecchi. Vecchio nella mente, vecchio nelle ossa. Qui da noi i “giovani politicizzati” sono più vecchi dei vecchi e la politica è l’abitudine più vecchia di sempre. Ecco perché non ci stupiremo nell’ascoltare, ancora una volta, le litanie di “movimento”: si dirà che giornate come queste possono dividerlo, il “movimento”, che i riot fini a se stessi non sono valorizzabili su un piano politico, e che gli obiettivi colpiti erano casuali e “capisco la banca ma le macchine non bisognava toccarle”… Chi utilizza questi argomenti come critica forse dovrebbe cominciare a chiedersi veramente cosa vogliono dire giornate come queste.
Cominciamo dal “movimento”…quella strana cosa che collega l’impolitico del popolo con il politico dello stato. Quella malattia tutta italiana che spesso affossa e ha affossato la spinta rivoluzionaria. E forse risentiremo anche i suoi teorici avventurarsi in complesse analisi politiche, parlare del ’77, dell’autonomia, diffusa, operaia e stronzate varie. Vi siete mai chiesti perché la figlia di uno dei peggiori partiti comunisti d’Europa abbia fallito così miseramente? Perché la grande spinta rivoluzionaria degli anni ‘70 si sia frammentata in cosi tante sigle e siglette, lasciandoci in eredità tante teorie e troppa rassegnazione? Ecco, questa “internazionale” di compagni e compagne che lottano quotidianamente sui territori, che si incontrano in giro per l’Europa e sulle barricate, vuole sbarazzarsi proprio di tutta questa melma politica. E speriamo dunque che la giornata di Milano metta a tacere anche tutti quegli scazzi che finché restano su questioni di principio e non si misurano con la lotta nelle strade, con il respiro del compagno e della compagna che ti è accanto e rischia con te, fa il gioco di tutti quei politicanti che si nascondono più o meno dietro le loro pre-confezionate identità.
E così, tutti quelli che erano in piazza a Milano, determinati ad abbellire un degradato arredo urbano e pronti a scontrarsi con la polizia (autonomi o anarchici che siano) dovrebbero aver capito di essere in questo momento l’unica forza reale, radicale e dirompente in questo paese di fascisti, infami, delatori e democristiani. E non parliamo delle aree, quelle resteranno sempre separate, ma dei compagni e delle compagne che per l’ennesima volta si sono ritrovati insieme per le strade. E le relazioni, che in questa “internazionale” sono tutto, condensano anni e anni di lotte comuni. Lotte in cui la posta in gioco è la vita, lotte che combattano quel capitalismo che ha devastato e saccheggiato il pianeta e i suoi abitanti umani e non umani.
E così quello che è successo ieri a Milano era davvero l’unica opzione possibile. Di fronte ai salamelecchi dei soliti noti, di fronte alla paura dei soliti gruppetti e di fronte alla clamorosa ed evidente presa per il culo che rappresenta l’expo non si poteva fare diversamente. Anzi non si poteva non fare. Sarebbe disonesto dire che non ci piace infierire su un mondo di vetro e acciaio ma questa volta l’occasione richiedeva proprio una bella spallata distruttiva. E a chi cercherà di dare un significato politico al corteo no expo risponderemo con un ghigno. La verità è che giornate così non possono essere capitalizzate politicamente, non esprimono la rabbia dei precari o della plebe (o come la si voglia chiamare), non esibiscono nessuna potenza, non producono e non vengono da un preciso soggetto politico. Per noi, giornate come queste esprimono solo un possibile, sono, per chi combatte tutti i giorni e in diverse forme una guerra sotterranea al capitalismo, una boccata d’aria fresca.
E chi ci verrà a parlare dei motivi della protesta contro expo diciamo solo una cosa: a noi di expo ce ne frega poco o niente. Dovremmo davvero interessarci ad una pagliacciata di tali dimensioni? Una esposizione universale del nulla, che parla di fame nel mondo, di capitalismo verde dal volto umano? Il corteo no expo era un’occasione, domani sarà un’altra. Ma solo se sapremo o proveremo a ritentare la magia. Perché è vero, anche con tutta l’organizzazione del mondo ci sono troppe varianti impossibili da prevedere e solo insieme, tutti e tutte insieme si può tentare, ogni volta, l’impossibile. Quella magica alchimia di coraggio, determinazione e, perché no, di incoscienza che ci fa sentire vivi. Proprio così, come si leggeva sui muri di Roma il 15 Ottobre 2011, a Milano “abbiamo vissuto”.
E cosi Milano è uguale a Francoforte, alla valle di Susa o alla Zad, le sue strade sono quelle di Barcellona come quelle di Atene o di Istanbul. E i riot inglesi, di Baltimora, di Stoccolma, del mediterraneo risuonano come melodie di una stessa musica. Una musica che dice senza mezzi termini che ci avete stufato. Che non smetteremo di disturbare i vostri sonni pieni di incubi, di sabotare le vostre misere vite piene di fragilissime sicurezze, di rovesciare le vostre paure da cittadino attivo. Siamo tanti e tante, e forse è il caso di iniziare a capire da che parte stare.
E poche cose in questo mondo ci fanno ridere così tanto come la scena di tutti quei cittadini milanesi che scendono in strada per ripulire, o come una ragazza che si fa un selfie con una macchina bruciata… ma ogni epoca ha il suo ridicolo, questo il nostro…
Insomma avete voluto la vostra festa? La vostra bella inaugurazione? Beh…anche noi.
Alla faccia di tutti quelli che si riempiono la bocca di democrazia, infiltrati e violenza. E qui non serve entrare nello specifico. Ancora credete che ci siano gli infiltrati? Ancora credete che questo mondo vada solo sistemato? La democrazia è questa, e prima o poi ci soffocherete dentro.
E chi crede che ce ne sia una migliore è ancora più sognatore di chi invece vuole l’insurrezione.
Ci vediamo sulle prossime barricate…
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Il movimento è finito, viva il movimento! –BiosLab, FuXia Block, Di.S.C
Siamo abituati a guardarci indietro solo e soltanto per trovare nuove traiettorie future e così vogliamo fare anche per quanto riguarda quello che è accaduto in piazza il primo maggio.
Per noi Milano rappresenta un punto di rottura che ci fa interrogare complessivamente su cosa voglia dire essere e fare “movimento” in Italia e nel farlo non possiamo che andare oltre all’analisi di singoli fatti. Non è certo qualche auto bruciata a turbarci, in ballo c’è qualcosa di molto più complesso e importante. Alcuni mesi fa, intorno a un ricco dibattito sui rapporti tra i movimenti e l’ipotesi di una possibile proiezione “verticale” delle istanze, qualcuno sottolineava la crisi o addirittura la fine dei movimenti per come li abbiamo conosciuti negli ultimi 15 anni. Sapevamo che la May Day ci avrebbe dato dei segnali in questo senso. I segnali sono arrivati, e ci sembrano inequivocabili. Crediamo che il movimento, per come lo abbiamo immaginato negli ultimi anni, con quella fisionomia a cui ci eravamo tanto abituati, abbia cessato di esistere. A comunicarci questo intervengono almeno tre livelli di ragionamento.
Il primo ha a che fare con la preparazione dell’appuntamento.
Siamo arrivati alla piazza di Milano senza un percorso politico di sufficiente condivisione tra le varie componenti del “movimento”, questo ci sembra davvero innegabile. Premettiamo, ci teniamo davvero a farlo, che i compagni e le compagne di “attitudine no expo” hanno svolto un generoso e difficile lavoro di preparazione che poneva delle buone basi politiche e organizzative. Cerchiamo di essere molto essenziali su questo punto, le componenti militanti di quella piazza non hanno una reale tensione a interloquire, a parlarsi, a trovare i minimi margini per mettere in scena azioni coordinate o condivise. Ognuno per sé insomma, nell’attesa, a tratti irreale, di vedere cosa sarebbe successo una volta lì nella strada. Con la differenza che noi, con lo spezzone di apertura “scioperiamo expo”, abbiamo detto in modo trasparente quello che avremmo fatto e nel farlo abbiamo dato la priorità a non mettere 30.000 persone in balia delle nostre scelte. Questo non è stato fatto da altri che hanno secondo noi tracciato un solco tra pratiche di piazza autoreferenziali e “sovra-determinanti” e le soggettività che quella piazza l’hanno riempita. Il tutto è stato poi tendenzialmente rivendicato, nascondendo quello che per noi non è altro che autoreferenzialità, dietro l’argomentazione insostenibile di una rabbia sociale che in quel frangente si sarebbe espressa.
Noi abbiamo animato uno spezzone mosso dall’intento di indicare il luogo simbolico del distaccamento della commissione europea come coerente obiettivo sensibile e poi ci siamo preoccupati di tutelare le migliaia di persone che erano con noi da quello che stava succedendo dietro. Lo abbiamo fatto e lo faremmo altre mille volte.
Il secondo livello, quello che ci interessa di più, ha a che fare con quello che da tempo definiamo “tensione maggioritaria del conflitto”.
Qui siamo davvero all’anno zero. Per rispetto della nostra intelligenza politica non ci soffermiamo a commentare il tentativo di accostare i riot di Milano con i fatti di Ferguson, Baltimora e piazza Taksim, oppure quello di individuare il “pirla” di turno come soggetto emblematico di una ricomposizione possibile. Fuori da ogni stucchevole moralismo che lasciamo volentieri a Saviano e soci, quella modalità di scontro si presenta per noi poco comprensibile per quelle soggettività che vivono ogni giorni, sulle loro vite, i segni violenti di un modello di sviluppo che sta impoverendo a vari i livelli le vite delle persone. La soluzione proposta ci sembra non soltanto dannosa per una moltiplicazione dei conflitti, ma la più semplice: nell’incapacità manifesta, di tutti lo precisiamo, di evocare fenomeni di autorganizzazione e rivolta moltitudinanria, deleghiamo la rappresentazione, tutta simbolica ed estetica, del conflitto, a gruppi militanti appagati del fatto che il day after tutti certamente parleranno di loro. Che sia chiaro gli scontri li abbiamo fatti tutti nelle nostre storie, non ci siamo mai tirati indietro, ma lo abbiamo fatto in modo virtuoso e produttivo soltanto quando sono stati connessi con una composizione sociale che come minimo era in grado di comprenderli, di individuarli come la giusta risposta verso l’attacco alla vita che il capitale mette costantemente in atto. A proposito di scontri e della immancabile violenza della polizia e dell’apparato della giustizia penale, chiediamo a gran voce la liberazione di tutti i compagni arrestati in quella giornata. La battaglia per la libertà di movimento e la denuncia dei dispositivi repressivi è per noi un terreno comune che va al di là di ogni tensione critica su discorsi, pratiche e strategie.
Il terzo elemento rispetto al quale i posizionamenti sul campo sono molto diversi ha a che fare con il senso stesso della militanza, con il senso stesso di fare politica a partire dall’autorganizzazione dal basso. Il senso stesso del fare movimento dunque.
Cambiano le strategie di governance del capitale e le forme di sfruttamento, cambiano le necessità, i bisogni e i desideri dei soggetti, cambia la strutturazione delle nostre città e dei rapporti di forza che le innervano e noi rischiamo di riprodurre noi stessi dentro cornici identitarie invece di essere all’altezza delle trasformazioni in atto. Incapaci troppo spesso di prendere parola in tanti, muoverci, cioè “fare movimento” dentro la società, riprenderci la scena e mettere al centro il tema della vittoria. Non è certo la giornata di Milano che introduce questo tema, ne stiamo parlando da molti mesi e, dentro ambiti come lo “strike meeting”, stiamo già sperimentando uno stile di militanza, un modo di fare movimento radicalmente in discontinuità col passato.
Parliamo di una nuova metodologia che sappia rifuggire ogni spinta resistenziale o di “trincea”, che ci faccia definitivamente uscire da quel blocco che da anni trasmette l’idea che ci si debba affidare soltanto alle “aree”, alle “strutture” e alle “famiglie” e, nella migliore delle ipotesi, ad accordi e negoziazioni tra queste.
Dobbiamo andare oltre a noi stessi per come ci siamo immaginati finora, strapparci con coraggio a tutte le nostre derive identitarie che garantiscono al massimo l’autoconservazione e la sopravvivenza e in questo sapere parlare e costruire azione politica con gruppi e soggettività diverse ( non soltanto italiane, ma anche europee) mettendo al centro la tensione forte alla condivisione dei percorsi.
In questo senso quella della costituzione di coalizioni sociali ampie, anche con alcuni componenti sindacali più virtuose e radicali, non può non essere un’importante ipotesi sul campo.
Certo tutto questo, anche la ricerca di una “verticalità” che sappia dare più peso alle nostre istanze, lo facciamo, come abbiamo scritto in un editoriale alcuni mesi fa, sempre e comunque ripartendo da noi: http://www.bioslab.org/il-basso-lalto-e-lobliquo/
Le giornate di Milano ci indicano insomma la presenza di diversi sguardi sulla realtà che ci circonda, diverse attitudini nel fare movimento che faticano a essere ricomposti oggi in un terreno comune. Di certo, in comune, viste le condizioni attuali, sarà difficile immaginare di condividere delle piazze. Per scrupolo ribadiamo ancora che siamo del tutto disinteressati a giudicare singoli episodi in sé, poco stimolati a cercare di capire se sia più politicamente utile spaccare le vetrate di una banca o di un comune negozio, non può essere questo il punto. Più in generale non ci appartiene il fatto di giudicare le scelte altrui, non è sulla legittimità di queste che ci vogliamo soffermare. Le prese di posizione di questi giorni riaffermano e purtroppo cristallizzano però una spaccatura di cui bisogna, anche serenamente, dare atto e da cui bisogna ripartire.
Da un punto di vista più generale, è intorno alla tensione tra “processo” ed “evento” che si consuma questa incapacità di parlarsi, intendersi, e organizzarsi insieme.
Quando gli eventi in cui si esprimono forme radicali di scontro e conflittualità e i processi di cooperazione e di composizione tra soggettività diverse smettono di intrecciarsi e coesistere, allora sentiamo l’irriducibile urgenza di fermarci e di mettere sul tavolo la necessità di percorre strade nuove, di gettare via dispositivi organizzativi inefficaci e sperimentare nuove strade.
Se la prospettiva è la trasformazione profonda dell’esistente, se l’intenzione è quella di favorire l’organizzazione politica delle espressioni frammentate di rabbia sociale, animati dalla ricerca di una “rottura costituente” capace di lasciare il segno, gli eventi non possono che essere espressione, punto di precipitazione, di processi ampi e condivisi. I processi di lotta, attraverso confronti, discussioni, negoziazioni, contaminazioni e mediazioni tendono a produrre immaginari, discorsi e narrazioni comuni e l’evento, a questo punto importa poco quanto “radicale” dal punto di vista delle specifiche strategie di piazza, deve appunto esprimere le diverse sfaccettature di questi processi ampi e articolati intorno all’individuazione di obiettivi comuni. L’evento deve scuotere lo spazio pubblico con forza e permetterci di riprendere la scena, ma deve, già mentre avviene, proiettarci verso nuove traiettorie di lotta, aprire nuovi processi ancora più avanzati dal punto di vista dei discorsi, delle pratiche e dell’organizzazione.
L’evento senza processo costituente è pura estetica del conflitto, facile scorciatoia per chi si rassegna alla sconfitta. Il processo non sostanziato negli eventi e non organizzato è altrettanto sterile perché si consegna a un pericoloso determinismo che vede i frammentati processi di soggettivazione che innervano silenziosamente la società come autosufficienti nel produrre trasformazione e rottura.
Capiamoci, non è criticando in se, gli scontri e le fiamme che possiamo garantirci quelle forme di legittimazione larga che posizionano alla giusta altezza la barra che oscilla tra consenso e conflitto. Quello che chiamiamo appunto “tensione maggioritaria del conflitto” può materializzarsi soltanto grazie all’intreccio tra evento e processo, soltanto attraverso l’invenzione di nuove formule capaci di essere immediatamente decifrabili e comprensibili, anche nel “riot”, da quella rabbia latente e da quelle soggettività precarizzate e impoverite di cui tanto parliamo.
Una macchina bruciata il 14 dicembre a Roma o una bruciata il 1 maggio a Milano non si può in nessun modo rappresentare politicamente nello stesso modo. Quel giorno c’eravamo tutti quindi sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Evitiamo però di guardarci troppo indietro. Oggi abbiamo sensibilità diverse su come si possa ricominciare a fare movimento.
Noi abbiamo più domande che soluzioni, ma sappiamo bene come ripartire.
Ripartiamo dallo “strike meeting” e dai Laboratori per lo sciopero sociale, dalla capacità di quei percorsi di mettere al centro uno sguardo sulla realtà all’altezza delle sfide che oggi il capitale ci lancia e di sperimentare nuove traiettorie di lotta allargate che mettono al centro il tema della precarietà e della messa a valore delle nostre vite. Ripartiamo immaginando che intorno al concetto e alle pratiche del cosiddetto “sindacalismo sociale” si possa fare un salto di qualità nella battaglia decisiva, appunto quella contro le nuove forme di sfruttamento del lavoro vivo. Ripartiamo dalla convinzione che ci sia la necessità di connettere tra territori diversi lotte come quelle per l’autodeterminazione, per il reddito, per il diritto alla città e per un nuovo welfare, ma che tutte questi claim debbano necessariamente posizionarsi in una prospettiva europea e transnazionale.
Ripartiamo infine da Milano. Lo spezzone “scioperiamo expo”, che abbiamo animato insieme a centinaia di persone e che ricordiamo era uno spezzone europeo, ha saputo muoversi bene dentro la confusione di una piazza complicata, ha saputo individuare un messaggio politico che lo contraddistingueva e, cosa per noi molto importante, ha saputo, anche quando ha deviato verso la Commissione Europea, mantenersi connesso con il resto delle persone che stavano alla testa del corteo, è risultato decifrabile dagli altri nei discorsi e nelle pratiche adottate. È anche a partire da quello spezzone che vorremmo ricominciare il nostro cammino rimettendoci in discussione, come sempre, nella ricerca delle traiettorie migliori per allargare i fronti del conflitto sociale contro l’austerity e la governance europea della crisi.
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L’Expo e l’Internazionale senza nome – Per l’autonomia diffusa mondiale
Il carattere distruttivo conosce solo una parola d’ordine: creare spazio […] L’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso. (Walter Benjamin)
L’Esposizione Universale, come dice la parola stessa, ha una vocazione globale: espone lo stato del mondo dal punto di vista del capitalismo. Tutto quello che accade attorno al suo evento ha dunque buone possibilità di raggiungere un identico piano di visibilità e di consistenza. Circa due secoli fa, a Londra, nei suoi paraggi si tenne a battesimo la costituzione della Prima Internazionale, tanto per dire. Un movimento che ha ambizione di essere all’altezza del suo tempo è obbligato in questo senso a confrontarsi con quello che è lo stato del mondo dal punto di vista della rivolta e a esporne a sua volta la consistenza.
Il flic-giornalista del Manifesto a un certo punto se ne rende conto, che la rivolta milanese risuona con una certa prassi comune a tutti gli appuntamenti significativi che negli ultimi tempi hanno attraversato l’Europa, e cerca disperatamente di dissociarsene invitando tutte “le realtà di movimento” a fare altrettanto.
Ma la verità è che se è facile e comodo dissociarsi da una manifestazione è molto più difficile farlo con la realtà; anche da qui viene tutto l’isterismo che scorre a fiotti sui giornali e sui social media e che sospettiamo frantumi la serenità di molte collettività politiche in questi giorni. Fortunatamente vi sono altrettanti compagni e compagne che invece di rimuovere il reale cercano di starci dentro o come minimo di ragionarci su.
Per anni, guardando a quello che accadeva in altri paesi d’Europa e del mondo, molti di quelli che oggi si indignano chiedevano con sconforto come mai in Italia non scoppiasse una rivolta contro la bulimia del potere capitalistico. Adesso che è arrivata sperano che la polizia e la magistratura, corroborata da fantasmatici servizi d’ordine, la faccia scomparire al più presto. Esponendo così la tradizionale vigliaccheria delatoria della sinistra nostrana.
È una banalità oggi dire che qualsiasi gesto politico è obbligato a confrontarsi con lo Spettacolo, meno scontato è assumerlo come uno dei piani del conflitto, come uno dei suoi terreni più aspri. Ogni rivolta contemporanea deve simultaneamente agire su più livelli di percezione, deve creare le proprie immagini e destituire quelle nemiche. Con ragione Bifo scrive che se non fosse stato per l’azione dei “teppisti” l’infosfera sarebbe stata saturata dalle immagini trionfaliste del governo e dei suoi lacchè, e per questo gli è grato. O qualcuno pensa davvero che televisioni e giornali avrebbero dedicato più di un trafiletto a una pacifica marcetta di protesta per i diritti e la democrazia?
A noi pare in ogni caso che coloro che nel movimento si lamentano e magari accusano i “teppisti” di cercare la visibilità mediatica a ogni costo lo facciano perchè speravano di averla loro. A costoro non possiamo che suggerire che anche le immagini si “conquistano a spinta”.
La rivolta milanese si iscrive in una costellazione che per quanto riguarda l’Europa ha cominciato a formarsi immediatamente dopo il riflusso del movimento delle Acampades. Una volta terminata la storia degli Indignados e delle piazze occupate in molti hanno scelto di organizzarsi nei quartieri delle metropoli, di creare delle nuove basi per vivere e lottare, cercando di far esistere materialmente quel “comune” di cui tanto si è parlato negli ultimi anni. Ci si è cominciato a difendere. La rivolta di Gamonal contro la gentrificazione, poi la resistenza a Barcellona contro lo sgombero di Can Vies, l’ondata di émeutes all’indomani dell’assassinio di Rémi Fraisse in Francia, ucciso dalla polizia mentre con altri difendeva dei terreni contro le solite Grandi Opere, l’organizzazione in molte città italiane di reti di mutuo soccorso contro gli sfratti. Poi si è passato al contrattacco. La freccia distruttiva che ha attraversato Francoforte il giorno dell’inaugurazione della BCE e poi Milano per quella dell’Expo fa parte di questo movimento che, ad oggi, è l’unica ipotesi di movimento rivoluzionario in campo. Invitiamo chi, anche in buona fede, non riesce a vedere una “strategia politica” nella sequenza dei riot europei a decentrarsi e a cercare di guardare quello che accade da questo angolo visuale, da questo parziale punto di vista. Crediamo che molte cose gli appariranno più chiare. A differenza di quanto si dice in giro a proposito della “ poca comprensibilità” delle pratiche, presumiamo che a chi la crisi l’ha pagata per davvero il tutto sia stato così tanto comprensibile da non aver bisogno dei sottotitoli. Con tutta evidenza si tratta di un tentativo di ritorcere la crisi contro se stessa, di iniziare a far pagare caro coloro che negli scorsi anni si sono organizzati per devastare le vite di milioni di persone. Di impedire che i festeggiamenti di governi e padroni suggellassero il compimento della loro missione e di riaprire la questione. E la questione da riaprire è quella rivoluzionaria. Sono le lotte, i conflitti, le insurrezioni che producono il “popolo che manca”e non il contrario.
Probabilmente bisogna rovesciare il punto di vista anche rispetto alle dinamiche di ciò che è avvenuto a Milano e smetterla di pensare solamente a come è stato organizzato il dispositivo dell’ordine pubblico. La rivolta ha cercato e praticato i suoi obiettivi tra i quali, certamente, vi era la ridefinizione dell’arredo urbano ma anche quello di tenere a distanza la polizia e si è organizzata conseguentemente. Chiunque guardi con un po’ di attenzione le decine di video in circolazione può rendersi facilmente conto della tattica rigorosamente asimmetrica praticata dai rivoltosi. E crediamo che molti acconsentiranno che seppure le auto incendiate non sono dei grandi obiettivi da praticare sono preferibili alle decine di teste spaccate che avrebbe provocato un impatto frontale. Che un uso determinato della forza riesca ad evitare il massacro d’altra parte è una vecchia regola ben conosciuta dai movimenti autonomi del passato.
La rivolta, quando arriva, mette in crisi il legame sociale, quello che lo Stato vieta di sciogliere, e porta le identità politiche e sociali a un punto di indistinzione. Non esiste un “soggetto sociale di riferimento” della rivolta e tutti, volenti o nolenti, vengono interpellati dall’interruzione che essa imprime nel tempo e nello spazio: le “pratiche” sono un invito rivolto a chiunque a prendere posizione.
Ora a noi pare che allo stato attuale delle cose in Europa vi siano solamente due possibilità a questo proposito. O si pensa che bisogna puntare al governo, è l’ipotesi Podemos/Syriza, oppure che valga la pena tentare una diversa “verticalizzazione” delle lotte, cioè organizzarle in un movimento rivoluzionario. Le due possibilità non sono compatibili e a ben guardare nemmeno alternative tra loro: sono nemiche. Per questo, ancora una volta, l’ostacolo più ingombrante che i rivoluzionari si trovano davanti è il ceto politico della sinistra dentro e fuori del movimento. Per il momento molti tacciano, chi per imbarazzo chi per calcolo.
La battaglia è appena cominciata.
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Marxpedia.org
Calato il nuvolone di analisi, editoriali, post, indignazioni, dissociazioni, provocazioni sui fatti del primo maggio a Milano, ci limitiamo a rilevare il nodo completamente ignorato e rimosso da qualsiasi dibattito. Piaccia o non piaccia, il punto più alto dei processi rivoluzionari contemporanei è stato la rivoluzione venezuelana. E i rivoluzionari dovrebbero di solito trarre esperienza e generalizzazioni a partire dai punti più alti della storia, non dai suoi episodi secondari. La rivoluzione venezuelana nel suo sviluppo ha dovuto fare i conti con i mass media come punto d’attacco fondamentale della classe dominante. I partiti cosiddetti borghesi si erano dissolti, erano leggeri, privi di iniziativa e struttura. Essi continuavano ad esistere come propaggini del sistema mediatico dominante. Nel suo sviluppo la rivoluzione ha dato vita a radio e televisioni comunitarie, corsi di massa per “decodificare” il messaggio dei media dominanti. Senza questo approccio, la rivoluzione non avrebbe superato probabilmente il colpo di Stato del 2002. Nei fatti di Milano la sinistra politica e antagonista di questo paese dimostra la propria arretratezza proprio su questo punto. Tutta l’azione, il dibattito, l’opinione ruota attorno ai media borghesi. Che si sia trattato di provocazioni preparate ad arte dalle forze dell’ordine, di settori del movimento che hanno scelto la tattica del riot come propria forma d’espressione, tutto ruota attorno ai media. Nessuno è così stupido da pensare che spaccare una vetrina o accanirsi su un auto porti qualche danno al sistema. Nessuno. Ma il tema è che quel gesto trova spazio nei media, i quali ne daranno una narrazione alla nazione. E qua sta la totale debolezza: l’idea che il proprio consenso sia costruito attraverso uno scontro eclatante il cui racconto sia affidato ai media dominanti. D’altra parte, tutti coloro che si sono uniti al coro di indignazione dimostrano di essere l’altro lato del problema. Quest’ultimi si ritengono danneggiati perché la narrazione dei media, così facendo, infanga il movimento. Ma, concordiamo tutti, i media tale narrazione la farebbero in ogni caso costruendola ad arte, se necessario, con l’aiuto delle forze dell’ordine.
Allora il problema torna quello di un movimento che non ritiene di doversi costruire propri strumenti di consenso, propaganda, narrazione. Non sappiamo dove lavoriate o viviate, ma nei nostri quartieri o luoghi di lavoro, il dibattito sull’expo è molto lontano da essere conosciuto nei suoi veri termini.
E non sarà una telecamera del Tg5 di certo a risolvere questo nostro problema.
E non valgono a nulla i paragoni con gli scontri di Baltimora o con le Banlieue francesi. Questi ultimi fatti, ben diversi tra loro, non sono fatti che esistono per farsi riprendere dai media e guadagnarsi visibilità. Questi sono fatti che esistono indipendentemente dai media e su cui i media borghesi devono tacere o raccontare con imbarazzo quanto accade. Ben diverso dal primo maggio di Milano. Ben diverso.
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1° maggio No Expo – Sempre complici e solidali – Le compagne e i compagni della Rete Evasioni
Come Rete Evasioni esprimiamo la nostra solidarietà a chi è stat@ colpit@ dalla repressione prima, durante e dopo il corteo del 1° maggio a Milano e siamo pronti/e ad affiancarci a chi intraprenderà un percorso in sostegno delle persone arrestate.
Ciò che ci ha spinto a dare vita alla Rete Evasioni, poco dopo il corteo del 15 ottobre 2011 a Roma, è stata la voglia che questo percorso di solidarietà concreta con chi era colpito dalla repressione, potesse essere da stimolo per i compagni e le compagne di altre città. Nessuna velleità da specialisti quindi, bensì voler essere una parte di tante Reti di solidarietà diffuse nei territori.
In questi ultimi giorni guardiamo con distanza il susseguirsi di comunicati riferiti alla giornata di lotta del 1° maggio a Milano, poiché pensiamo che il confronto assembleare sia sempre preferibile a quello mediatico, pur consapevoli delle difficoltà a cui si va incontro dovute al vivere in posti lontani tra loro.
Ciò nonostante abbiamo deciso di esprimerci in quanto, proprio in questi giorni, stiamo per affrontare l’ennesima e ultima fase del processo di primo grado contro chi era nelle strade di Roma il 15 ottobre 2011.
A nostro avviso le risposte più adeguate agli attacchi repressivi sono date da momenti di lotta.
Tra le proposte quella del 12 maggio a Roma.
Dalle aule di tribunale, invece, ci arriva la certezza (nel caso ne avessimo ancora bisogno) di come la dissociazione agevoli l’isolamento e la punizione contro chi partecipa a manifestazioni conflittuali. Insomma veri e propri “oli lubrificanti” per gli ingranaggi dei sistemi repressivi.
Per noi non si tratta solo di note tecnico-giuridiche quanto piuttosto di scelte politiche.
Concludiamo ricordando che i dispositivi quali il prelievo forzato del DNA, il Daspo e la “flagranza differita” sono da tempo pronti, confezionati e in alcuni casi già applicati, in completa omologazione con i progetti di controllo sociale europeo.
Per cui, considerazioni del tipo “grazie a quello che è successo a Milano, ci sarà un peggioramento dell’accanimento repressivo” sono, a dir poco, pretestuose.
Libertà per tutte e tutti
Il/la “manifestante buono/a” è chi conosce la solidarietà e la pratica nel quotidiano.
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EXPO: LA LOTTA CONTINUA – Le compagne e i compagni della Federazione Anarchica Milanese
“Devastazione e saccheggio”, parole forti, parole da quindici anni di galera per chi viene beccato con la mazzetta in mano, per chi è stato preso nel mucchio del riot cittadino, nei pressi di una vetrina infranta o di un auto in fiamme o, a posteriori, ne verrà riconosciuta la presenza attraverso analisi fotografiche e video. Chi ci sta lo sa.
A chi devasta territori e ambiente, a chi saccheggia le risorse comuni, a chi ci fa morire di amianto, d’inquinamento, di discariche abusive, a chi ha un altro tipo di “mazzette” in mano, sappiamo bene che lo Stato e i suoi apparati repressivi (polizieschi, giudiziari e carcerari) non riserva altrettanto trattamento. E non potrebbe essere altrimenti: Stato e Capitale, nella loro complice e collusa alleanza, non possono certo “accusarsi e arrestarsi” a vicenda. E anche questo noi lo sappiamo.
A Milano, il Primo maggio, una grande manifestazione di oltre trentamila persone, in maggioranza di giovani, donne e uomini, sia del luogo che provenienti da varie parti del paese e d’Europa, ha animato le vie della città percorrendo, in vario modo, i pochi chilometri di strade ‘concessi’ dalle Autorità locali sotto stretto controllo dei vertici nazionali. L’obiettivo era quello di disvelare il reale significato di quel baraccone fieristico rappresentato da Expo 2015; di denunciare che quanti hanno contribuito al disastro alimentare ed agricolo di paesi e di parti consistenti di interi continenti non possono ora presentarsi come paladini della lotta della fame nel mondo, del rispetto delle biodiversità e della vita e del lavoro di che la terra la lavora; di accusare il sistema di malaffare, di corruzione, di speculazione selvaggia che ha regnato su Expo e che regnerà sulle aree del sito alla conclusione dell’evento; di opporsi ad un modello di sviluppo basato sul lavoro precario, gratuito e sulla pauperizzazione del paese.
Un corteo di meno di quattro chilometri ottenuti a fatica, dopo il divieto, giunto a pochi giorni dalla manifestazione, di passare per il centro città, trasformata in una sorta di zona rossa, una sorta di provocazione in una giornata che è sempre stata simbolo della lotta per la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, in una città che ha visto negli anni lo svolgimento di grandi e partecipate May Day.
Un corteo composito ed eterogeneo, che raccoglieva il lavoro svolto nel tempo dai comitati No Expo e lo sforzo organizzativo di rappresentare sul campo le diverse anime e sensibilità che sul terreno della lotta a quel modello di società e di sviluppo si muovono. Un corteo costruito assemblearmente dopo diversi mesi di riunioni, di confronti, di decisioni costruite sul consenso e sull’accordo. In testa più di duecento musicisti, appartenenti a bande di vari paesi d’Europa, reduci dalla cena serale d’accoglienza presso la sede della FAI di Milano curata dalla Banda degli Ottoni, a dare un segnale di festa e di calore, a seguire i comitati No Tav, No Muos, No Expo, la rete ‘Genuino clandestino’, quelli di lotta sul territorio e per la casa, il sindacalismo di base della CUB e dell’USB, lo spezzone rosso nero con lo striscione ‘Expropriamo Expo’, dietro cui sfilavano circa duecento compagni e compagne tra FAI, il Circolo anarchico di Via Torricelli 19, l’USI striscione e Iniziativa Libertaria di Pordenone con i loro striscioni, oltre a diverse individualità. A seguire, e a chiudere il corteo, il SI.COBAS, il ‘Sindacato è un’altra cosa’, e infine vari partiti, da Rifondazione al PCL.
Imponente lo schieramento di polizia, con mezzi blindati e reticolazioni semoventi, a chiusura delle varie possibilità d’accesso al centro città; anche se rimane ‘curioso’ il fatto di aver lasciato parcheggiare le auto lungo il percorso del corteo, così come il fatto che siano rimasti al loro posto i cestini per i rifiuti ed altre suppellettili cittadine che generalmente vengono rimosse in previsione di cortei ‘caldi e vivaci’ come ci si aspettava che fosse, soprattutto dopo la campagna mediatica preventivamente criminalizzatrice e le conseguenti perquisizioni e sgomberi delle giornate immediatamente precedenti.
La formazione del corteo è stata lentissima anche perchè si partiva dalla grande piazza di Porta Ticinese per imboccare lo stretto omonimo Corso, ma senza grossi problemi perchè il posizionamento dei vari spezzoni era stata concordato da tempo. Quello che non poteva essere concordato era il posizionamento di quanti, provenienti da fuori Milano e da fuori Italia, non avevano partecipato al percorso organizzativo e che si presumeva si potessero posizionare alla coda del corteo. Nei fatti quello che è successo è che queste realtà si sono posizionate all’interno degli spezzoni a loro più affini, soprattutto nella parte centrale del corteo dove si è evidenziato un comportamento assolutamente refrattario al rispetto degli accordi presi precedentemente. Volontà politiche, sicuramente autoritarie e prevaricatrici, ed in/sofferenze sociali si sono mischiate dando origine ad uno spezzone che ha cercato un suo protagonismo attivistico prima nella contrapposizione con le forze di polizia, poi con quelli che sono stati identificati con i simboli del potere capitalistico. Ma chi cerca di trovare un nesso unico, una regia unica, in quello che è successo sbaglierebbe.
Lasciando alla destra tradizionale e a quella renziana le urla di sdegno e gli editti accusatori, la minaccia di rappresaglie ed i progetti di leggi liberticide, quello che ci interessa mettere a fuoco è come il Primo maggio a Milano si sia messo in scena non tanto una replica di quanto già visto a partire da Seattle in poi, quanto una prima concretizzazione di quello che le politiche di austerità, di impoverimento sociale, di rafforzamento autoritario, di restringimento degli spazi di espressione e di organizzazione, stanno producendo: una espressione, fluida, anche contraddittoria, di un malessere sociale ed esistenziale, che nel conflitto, nelle sue varie forme possibili, cerca uno sbocco.
Così, alcune centinaia di manifestanti si sono misurati prima con la polizia che, con un numero spropositato di lacrimogeni urticanti (si dice più di 400) e con l’uso degli idranti, li ha respinti, per rivolgere poi la loro attenzione alle vetrine di banche, negozi di vario tipo, auto, pensiline dei mezzi pubblici, semafori, ecc., mischiando le banche, simboli classici del sistema di sfruttamento capitalistico con attività generiche (un barbiere, un ottico, un ortofrutta…). Insomma tanto lavoro per assicurazioni ed artigiani mentre Maroni e Pisapia hanno già offerto rimborsi e organizzato manifestazioni: il 2016 con le elezioni della nuova giunta non è poi così lontano.
Trovandosi al centro del corteo il rischio del coinvolgimento dell’intera manifestazione è stato ovviamente molto alto – è stato avanzato anche il sospetto che alcuni all’interno di quello spezzone lavorassero per trasformare tutto il corteo in un terreno di scontro complessivo – ma se così non è stato è grazie alla determinazione delle componenti iniziali organizzatrici della manifestazione che hanno tenuto fede agli impegni presi assemblearmente sia mantenendo le posizioni, sia concludendo il percorso tra i fumi dei lacrimogeni e delle auto incendiate. In questo contesto non si può tacere delle tattiche poliziesche tese da una parte a contenere i danni tra i ‘suoi’ e dall’altra ad evitare che ci fossero delle vittime tra i manifestanti, tali da ‘sporcare’ l’inaugurazione di Expo. Del ‘buon cuore’ ipocrita del Ministro degli Interni non sappiamo che farcene.
Detto questo rimangono sul tappeto alcune considerazioni da fare.
La crisi sta scavando sempre di più nel corpo sociale del paese, le politiche riformistiche non hanno più gambe né fiato né sirene da suonare, la disoccupazione cresce e soprattutto quella giovanile, non c’è uno straccio di politica industriale all’orizzonte, le rappresentanze politiche più o meno tradizionali si sono dissolte, le divaricazioni sociali crescono così come cresce il controllo sociale fino a prefigurare scenari di militarizzazione sociale complessiva, leggi sempre più autoritarie e restrittive sono all’orizzonte sia sul campo degli scioperi dove si vuole imporre un criterio maggioritario alla tedesca, sia nel campo delle manifestazioni di piazza. Non ci vuole molto a capire che, in mancanza di una capacità politica rivoluzionaria in grado di costruire uno sbocco praticabile e condiviso alla situazione che stiamo vivendo e che andrà sempre più aggravandosi, la violenza acefala diventerà l’unica forma di espressione possibile. Esorcizzare quanto è successo non ci aiuta, il moralismo perbenista nemmeno, il settarismo autoreferenziale men che meno. C’è da rimboccarsi le maniche, sempre più e sempre meglio, sulla strada della lotta quotidiana, dell’autorganizzazione, del duro lavoro di costruzione di un movimento libertario che sappia essere agente reale e concreto della trasformazione sociale.
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Ieri a Milano non è successo nulla – Casa Rossa Occupata
Con ancora negli occhi le immagini infuocate di ieri, la rabbia più o meno incanalata, l’indignazione di TV e radio e in attesa che il linciaggio mediatico produca le prime misure restrittive, fermiamoci un attimo, riavvolgiamo il nastro e raccontiamo una giornata che avrebbe potuto essere e non è stata.
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Oggi, primo maggio 2015, a Milano è una bellissima giornata di sole. Una di quelle giornate in cui anche la grigia capitale del nord sembra salutare la primavera, forse un auspicio per un momento importante: la manifestazione contro l’apertura di expo.
È il fulcro di un percorso d’analisi che ha coinvolto il movimento in mesi e mesi e che ha il compito di imporre all’opinione pubblica i temi di critica e contestazione al modello expo e alle devastazioni sociali, ambientali e politiche che ha portato. Si temono incidenti e le strade sono militarizzate.
Il corteo scorre determinato e pacifico, prova a comunicare con la città, a toccare tutti i temi in ballo. Le varie anime del movimento, ognuna alla propria maniera, articolano in maniera costruttiva e convincente i propri temi su cui è imperniata l’attività politica quotidiana. Insomma una grande giornata di lotta.
Tornando a casa proviamo a capire e verificare l’impatto mediatico e politico che una giornata del genere può aver avuto. In fondo, ci diciamo, una volta tanto i facinorosi vestiti di nero non hanno catturato tutta l’attenzione..
L’ansa dedica alla protesta un piccolo trafiletto tutta completamente impegnata a raccontare la passerella dei politici, la Turandot alla Scala, la vetrina di Eataly.
La Repubblica si scatena con le proverbiali analisi sociologiche del manifestante di turno, animale da circo da smontare e rimontare come un pezzo da esposizione.
Magari il Manifesto… ma dopo la consueta bella prima pagina, l’articolo di fondo propone la solita alleanza a sinistra fra partiti morenti e movimenti buoni per tutte le stagioni, il tutto sotto l’egida di Sel.
Scoramento.
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Come sappiamo non è andata così. Ma per questo, in attesa di riflettere su ciò che è stata la giornata e su cosa comporterà, ci prendiamo il diritto di porre qualche domanda. E di rivolgerla agli esagitati da tastiera, Black Block del perbenismo, magari fra l’ascolto di una canzone di De Andrè e un salto alla bottega del commercio equo e solidale, possono trovare il tempo di rispondere.
1) Sì dice che gli incidenti avrebbero tolto la centralità ai giusti temi che animavano la protesta. Ma quando mai è successo che le ammiraglie dell’informazione, televisiva e della carta stampata, negli ultimi vent’anni abbiano dato spazio alle ragioni di un movimento radicale?
2) Si afferma che una giornata come quella di ieri ha nuociuto a chi esprime un bisogno. Ma chi dice questo è mai andato in piazza a sporcarsi le mani con i senza casa, i senza lavoro? Ha mai ascoltato la rabbia confusa e nichilista? Ha mai cercato di deviare l’odio generalmente indirizzato per l’immigrato o il povero della porta accanto?
3) Chi attacca il manifestante tacciandolo come “figlio di papà”, chi delegittima la protesta vaneggiando di una eventuale ignoranza sui temi della stessa, chi narra di cortei presi in scacco da sparute minoranze, ha mai provato a relazionarsi con queste minoranze, che poi sono semplicemente l’espressione più visibile di stragrandi maggioranze?
Non staremo qui ad annoiare su chi sono i veri violenti, su quale sia la prospettiva di vita per la nostra generazione, su un sistema politico a cui non crede più nessuno, tanto meno chi è eletto.
Quello che vogliamo dire è che ieri è stata una giornata difficile per il movimento, in un’ epoca storica in cui o siamo in grado di contrastare, con ogni mezzo necessario il modello grandi opere che ci è stato imposto, o semplicemente non siamo. Tuttavia, pensiamo anche che vi è il bisogno di tornare, al nostro interno, a ragionare sulla necessità di approfondire il legame con il corpo sociale intorno a noi, con la classe. Questo è il nostro primo obiettivo, per il quale una giornata come quella di ieri, bella o brutta che fosse, costituiva solamente una tappa.
Tutto il resto sono chiacchiere, da tastiera ma pur sempre chiacchiere.
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Sul corteo NO EXPO di Milano – Progetto Prendocasa Pisa
Partiamo dal dato più importante: EXPO è un evento DEVASTANTE che ha permesso a mafiosi e speculatori di intascarsi soldi pubblici. Soldi nostri. Soldi che vengono levati alle scuole, agli ospedali, ai quartieri popolari.
Il primo maggio, giorno dell’inaugurazione di EXPO, era necessario fare tutto il possibile per rovinare la festa ai padroni, che brindavano nel lusso a spese nostre.
Nei giorni precedenti al corteo, la polizia ha compiuto azioni molto gravi: sgomberi di case e spazi sociali, perquisizioni nelle sedi di alcuni comitati di quartiere. Tutto ciò è stato fatto per spaventare la gente e diminuire la partecipazione e la determinazione del corteo. Con solo due giorni di preavviso è stato anche vietato alla manifestazione di passare dal centro.
La rabbia in piazza, dunque, era tanta ed era rabbia giusta.La rabbia di tanti giovani e tante famiglie che vivono nella miseria, che si sentono dire dagli assistenti sociali: “non ci sono soldi” mentre i soldi pubblici vengono spesi per le STRONZATE!
La rabbia nella manifestazione si è espressa in tanti modi,alcuni migliori ed altri peggiori. Il migliore è stato certamente il tentativo di centinaia di persone di forzare il blocco della polizia per raggiungere il centro città. Questo tentativo è stato fatto nella strada che porta a Piazza Affari e alla Borsa, uno dei luoghi di potere di Milano, centro della speculazione economica.
Perché era importante portare la protesta nei luoghi dove vengono impoverite le nostre vite!
Perché la città è di chi la vive, non di chi la trasforma in una vetrina per i ricchi durante l’EXPO!
Perché non è accettabile che la polizia provi ad intimidirei manifestanti, con sgomberi e divieti, per difendere i soliti noti!
Invece, attaccare le macchine e le vetrine di piccoli negozi è stata una sciocchezza; tuttavia anche questi gesti hanno dimostrato la collera del corteo, collera che si è diretta verso gli obiettivi sbagliati.
C’è chi si arrabbia solo su facebook e vorrebbe impiccare i politici, ma poi a paura a scendere in piazza.
C’è chi si indigna contro le multinazionali ma poi va a lavorare gratis per EXPO perché “fa curriculum”.
C’è chi si preoccupa più di una vetrina che delle morti sul lavoro o dei suicidi causati dalla crisi.
Noi preferiamo la rabbia dei ragazzi di Milano, e speriamo che nelle prossime occasioni ci sia la capacità di indirizzarla verso i veri obiettivi: verso i palazzi del potere e non le auto e le botteghe.
Speriamo anche al prossimo corteo di essere di più, che tutte le persone che soffrono la crisi da sole ed in silenzio, decidano di combattere unite in piazza.
Ma qui non basta SPERARE, occorre COSTRUIRE!
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Comunicato dei compagni e le compagne l.o. SKA c.s.o.a. OFFICINA99 Napoli
Chi devasta e saccheggia le nostre vite sono il governo Renzi & la Bce-Ue
A Milano per il corteo NO EXPO noi c’eravamo. Perché EXPO è parte del disegno di impoverimento di soggetti e territori, dello sfruttamento e della precarizzazione delle nostre vite.
Nell’Italia della “ripresa”, del “ce la faremo”, la disoccupazione giovanile media è di circa il 43% (percentuale che al sud raddoppia); la precarietà aumenta, come dimostrano i dati circa le nuove assunzioni targate Job Act; tutto il tessuto industriale è in forte ridimensionamento con continui licenziamenti. Infine c’è lo Sblocca-Italia, provvedimento che rende organici tutti quelli precedenti, che in questi anni, dalla Campania dell’emergenza rifiuti ancora non conclusa, passando per il Tav, per il Mose e non solo, blinda le decisioni, verticalizza ulteriormente il potere, militarizza porzioni di territorio, tentando di schiacciare o addomesticare ogni possibilità di partecipazione dal basso delle popolazioni. Altro che vetrine in frantumi! In quest’Italia democratica si devasta e saccheggia quotidianamente la nostra terra per il profitto. Eppure, con la rivoluzione tecnologica di questi ultimi 20 anni, la ricchezza sociale prodotta è tale da poterci liberare dal ricatto “lavoro o miseria”, garantendo un’esistenza dignitosa e nel rispetto dell’ambiente a tutte e tutti.
Abbiamo abitato la piazza milanese ben consapevoli di trovarci dentro a una composizione eterogenea, dove le pratiche si sono mischiate e sovrapposte in una rabbia che, se non altro, racconta un’indisponibilità reale nel subire la violenza del capitale sulle nostre vite. Non ci sottraiamo ad analisi e valutazioni che, come sempre, accompagnano la nostra presenza nei percorsi, ma in questo momento ci sembra indispensabile ribadire più di ogni altra cosa la nostra non estraneità ai fatti di Milano, pur riscontrando, nella molteplicità delle pratiche, alcune criticità con cui confrontarsi nei mesi che seguiranno.
Noi il 1° Maggio eravamo a Milano contro la vetrina dell’EXPO e l’arroganza del Governo Renzi, insieme a migliaia di altri e a diecimila diverse ragioni.
C’eravamo anche come antagonisti di quel Sud martoriato da disoccupazione, lavoro precario e nero che il Job Act incrementerà; quel Sud dove i territori sono preda della devastazione ambientale sancita dallo Sblocca Italia con il via libera ad ulteriori trivellazioni, inceneritori, discariche, impianti a biomasse, centrali a gas e ancora veleni per il profitto di pochi; quel Sud dove il mare è diventato un cimitero per uomini e donne in fuga dalle guerre e dalla barbarie del capitalismo. Non potevamo non esserci contro la logica dei grandi eventi e delle grandi opere che sprecano risorse pubbliche. Per rivendicare reddito per tutti, garantito ed indipendente dal lavoro insieme alla riduzione di orario e nuovi diritti, per rovesciare la crisi su chi l’ha generata, perché le comunità conquistino potere decisionale all’insegna della sostenibilità e di un modello di sviluppo alternativo.
Oltre la cortina di fumo che i media mainstream cercano di costruire attorno ad EXPO (e questo ben prima che si spaccasse qualche vetrina) abbiamo ben chiaro che il 1 Maggio a Milano si sono confrontati due opposti schieramenti, uno costituito da chi per mestiere legittima e difende la violenza del capitale sulle nostre esistenze l’altro da chi difende la vita e i territori a sue spese e al capitale dichiara (forse a tratti confusamente) una guerra aperta e senza quartiere.
A questi ultimi dichiariamo con forza la nostra appartenenza perché come ebbero a scrivere penne assai più virtuose:
“Qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena […]C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra”.
A tutti i compagni e le compagne fermati, arrestati, perquisiti, videoschedati va la nostra totale solidarietà nella incrollabile convinzione che le lotte non si arrestano. Mai.
Tutti Liberi.
Tutte Libere.
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No Expo: i media rivomitano il solito copione – Cortocircuito
“Non esistono fatti, ma solo le interpretazioni dei fatti” diceva Nietzsche, parafrasandolo, potremmo dire che non esistono i cortei, ma solo la loro “rappresentazione”.
La società dell’informazione continua e pervasiva fa sì che il “mediatico” plasmi a proprio piacimento qualsiasi evento di una qualche valenza sociale. Il copione per questo tipo di manifestazione di solito è il seguente: un corteo pacifico è stato infiltrato da provocatori violenti (lo spauracchio black bloc) che hanno rovinato la “festa” a tutti, oscurando le ragioni della protesta ai fini di scatenare una violenza “insensata” e fine a sé stessa. Il Canovaccio di Genova 2001 viene pedissequamente seguito da anni. Stavolta però il meccanismo si è inceppato nella divisione tra manifestanti buoni e cattivi: nessuno si è dissociato dagli scontri (al netto di legittimi dubbi sull’utilità di questi e soprattutto sui danneggiamenti alle auto in sosta) né in dichiarazioni ufficiali, né, soprattutto durante il corteo. Mentre a poche centinaia di metri manifestanti e polizia si fronteggiavano, migliaia di persone continuavano a sfilare compatte cantando e ballando. Questo è sicuramente un dato positivo, anche se il risultato finale è stato che non potendo isolare il “virus” che ha infettato la manifestazione è stato direttamente criminalizzato tutto il corteo.
Chi a Milano non c’era e si è informato sugli avvenimenti seguendo le notizie delle grandi testate giornalistiche non può che aver avuto l’impressione che sia stato un giorno di vera e propria guerriglia. Infatti, osservando attentamente, si può notare come nessun media abbia pubblicato anche una sola foto del corteo che non fosse relativa agli scontri: bande musicali, sound system, spezzoni di lavoratori ecc. tutto è stato oscurato per dare risalto ai tafferugli.
Il copione principale è stato poi arricchito da una serie di sottotrame. Non è una novità che in questi contesti i media individuino un fatto o un personaggio di per sé irrilevante e lo ingigantiscano ai fini di “rafforzare” la trama principale: ci ricordiamo, ad esempio, di quando si è discusso per settimane del giovane NoTav che durante una manifestazione in ValSusa aveva osato dare di “pecorella” a un poliziotto, o più indietro nel tempo quando il 15 ottobre 2011 la distruzione di una madonnina da parte di un manifestante era stata messa al centro dell’attenzione pubblica e, sempre lo stesso giorno, la gogna mediatica (con tanto di gossip sulla vita privata) a cui fu sottoposto Fabrizio Filippi detto “Er Pelliccia”.
Stavolta è toccato al giovane Mattia che, imbeccato ad arte dal giornalista del TGcom, con le sue uscite tanto sgrammaticate quanto ingenue è stato fatto passare come l’ideologo del movimento.
Anche l’anarchico Valitutti, fotografato in carrozzina in mezzo agli scontri, ha subito la sua dose di odio pubblico: dal “togliamogli la pensione di invalidità” all’accusa di incoerenza per essere tornato a casa con un Frecciarossa, cosa che andrebbe in contraddizione col suo appoggio al movimento No Tav.
A condire la trama con cui i media hanno presentato il No Expo aggiungiamo anche la demenziale e non provata “accusa” dei “black bloc” col Rolex al polso, che ha perfino provocato la reazione del noto marchio svizzero che ha risposto con una lettera aperta sui principali quotidiani nazionali.
Insomma, la macchina del fango ha funzionato a dovere, pescando innumerevoli conigli dal cilindro. Questo, tuttavia, era ampiamente prevedibile, e pone ai Movimenti il problema su come uscire da cul de sac in cui inevitabilmente si trovano durante questi grandi appuntamenti di piazza: fai un corteo pacifico? Verrai ignorato. Fai casino? Verrai criminalizzato.
Se si poteva pensare che sarebbe bastato avere un corteo unito ed estraneo a grottesche pratiche di delazione interna per “cortocircuitare” la narrazione mainstream, il 1° maggio ha radicalmente smentito quest’ipotesi.
Il punto centrale è, a nostro avviso, che ogni lotta che si pone su un piano simbolico non ha senso di esistere se viene veicolata da dei media “nemici”. In altre parole è assurdo colpire una banca cercando di far passare il messaggio “Contro il capitalismo finanziario che sta distruggendo il pianeta”, quando poi Repubblica e il Corriere e tutti gli altri oligopolisti dell’ Informazione titoleranno “Delinquente sfascia vetrina”. Solo chi condivide il medesimo orizzonte simbolico recepirà il messaggio nelle sue intenzioni originarie, mentre TUTTI gli altri (lavoratori o borghesi che siano) vedranno SOLO “delinquenti che distruggono cose a caso” e chiederanno per loro repressione, repressione e ancora repressione.
I gesti individuali non possono precedere i percorsi collettivi, perché, purtroppo, l’opposizione sociale non si sviluppa per osmosi e “dare l’esempio” con azioni simbolicamente radicali è un gesto fine a sé stesso, al di là delle generose intenzioni di chi lo compie.
Questo non significa naturalmente che bisogna abbandonare la radicalità per paura delle conseguenze, solo che non possiamo permetterci di praticarla su di un piano che non sia quello reale. Ad esempio il cantiere TAV di Chiomonte è lì, è reale, lo puoi toccare e sabotandolo non ci si limita a “lanciare un messaggio”. Infatti, benché pagando un prezzo durissimo in termini di repressione e dovendo subire attacchi mediatici continui, il movimento No Tav, miracolosamente e, oseremmo dire eroicamente, resiste, anche in virtù dell’essersi guadagnato un consenso che va al di là delle solite ristrette cerchie.
È quando in ballo ci sono la propria terra, la propria vita e il proprio futuro che è possibile attuare forme di conflittualità di massa. Altrimenti dopo il solito giorno di gloria ci pioveranno addosso i soliti mille giorni di merda.
ps solidarietà a tutti i fermati/arrestati
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Ma chi ha detto che non c’è (-ero): Territori Solidali in Lotta – CSA Oltrefrontiera (Pesaro) – Collettivo per l’autogestione (Urbino)
dopo il 1 maggio milanese..
“Sta nel sogno dei teppisti e nei giochi dei bambini” G. Manfredi
“Fin a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.” L’odio
“Non ricordo se c’ero o non c’ero, ma qualcosa accadeva in città…” (cit.)
Dopo il primo maggio siamo stati travolti dalla pornografia giornalistica e dalla smania giustizialista di politicanti, apparati di controllo e opinionisti da bar. Ci siamo quindi presi del tempo prima di scrivere, un pò esterefatti dall’improvviso baccano di una società anestetizzata alle violenze e ai soprusi quotidiani. Ci piacerebbe invece dare un nostro contributo per riuscire a vedere in queste giornate milanesi non un cataclisma, ma un contesto con cui confrontarci per superarne i limiti e valorizzarne la forza.
Il primo maggio eravamo trentamila persone a sfilare nelle vie di Milano. Le diverse realtà politiche e sociali che da anni lottano nei propri territori contro lo sfruttamento di uomini e risorse ha trovato nella lotta all’Expo un’occasione di opposizione sociale praticabile collettivamente. Dalla testa del corteo alla sua coda, dallo spezzone dei comitati territoriali ai precari, ai facchini e agli occupanti di case, passando per la samba, la trash e la banda degli ottoni era un unico grande e netto rifiuto. Un corteo numeroso, vitale ed eterogeneo in cui erano presenti tutte le lotte e le realtà che si oppongono a questo governo e a ciò che l’EXPO rappresenta: lo sfruttamento nei posti di lavoro, gli sfratti nei quartieri popolari, la cementificazione a uso e consumo di mafiosi e capitalisti, lo strapotere e l’arroganza di banche e multinazionali. La molteplicità dei contenuti, delle esperienze messe in campo e delle diverse modalità di stare in piazza è stata reale e visibile, lo sa bene chi in quelle strade c’era. Tutte e tutti hanno potuto esprimersi e nessuno ha subito le scelte di altri. C’era chi voleva ballare e chi voleva urlare il proprio sdegno, chi voleva manifestare pacificamente e chi voleva creare conflitto: così è stato, per scelta.
In piazza c’erano quindi anche migliaia di giovani che hanno deciso di non lavorare gratis per nessuno, di agire con il proprio corpo la rabbia e la frustrazione contro un futuro negato, un’esistenza precaria, una classe politica e dirigente marcia, arrogante e corrotta. A queste migliaia di giovani dobbiamo guardare, per valorizzarne la voglia di riscatto e portarla nella pratica politica quotidiana, nei nostri quartieri, nelle nostre città, nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro se ancora ne rimangono. Ci siamo lamentati per anni del silenzio, della passività delle nuove generazioni, della regressione culturale di un paese devastato da vent’anni di “berlusconismo”: Milano dimostra il contario e ne siamo sollevati.
Di certo non è stato un primo maggio qualunque. A Milano EXPO ha aperto i battenti con la città blindata ed il centro chiuso e vietato a pochissimi giorni dal corteo. A Milano comanda comunque EXPO: il volto spettacolarizzato e brutale del capitalismo. Insomma lo specchio di un paese che non ci piace e che vogliamo cambiare. La scelta di blindare la città è stata una provocazione, al pari dei blitz preventivi dei giorni precedenti nei quartieri popolari, le perquisizioni illegali a casa di compagne e compagne, la fabbricazione del mostro mediatico, gli arresti e le espulsioni, la criminalizzazione del dissenso. Notiamo con dispiacere come negli stessi ambienti di movimento cresce e si radica pericolosamente la percezione di una divisione tra buoni e cattivi funzionale alla repressione ed al controllo sociale. In questo senso abbiamo percepito come assordante ed incomprensibile il silenzio seguito agli attacchi polizieschi ai quartieri popolari dei giorni immediatamente precedenti al corteo, come se quella repressione riguardasse solo chi la subiva.
E’ ridicolo chi parla di infiltrati. Qualche poliziotto sì, qualche giornalista di troppo pure, ma l’ultimo spezzone, quello che ha sostenuto gli scontri lungo tutta la giornata, era uno dei più numerosi. Ciò non certo perchè fosse un entità distinta, ma proprio perchè dal resto del corteo continuavano ad affluire persone e ad ingrossarne le fila. Inoltre, cosa non da poco, nonostante l’ingente dispositivo di forze dell’ordine, l’aria resa irrespirabile dai lacrimogeni e la presenza di comitati territoriali, famiglie e attivisti delle più svariate aree politiche il corteo è arrivato fino alla fine con determinazione e coraggio, autotutelato e in sicurezza. Non è quindi nel metodo né nelle pratiche il limite di giornate come queste, ma nella difficolta di spiegare il dato politico e sociale di una rabbia diffusa e non addomesticabile e nella difficoltà a saperla indirizzare lucidamente e collettivamente contro il modello di sfruttamento capitalistico, superando paure e pressioni, legittimando quel conflitto a cui nessuno può sottrarsi.
Chi è rimasto a casa, o indietro, oggi si compiace nel giudicare le forme di lotta di chi, nonostante tutto, si assume le proprie responsabilità e mette in gioco la propria vita e il proprio futuro. Ci auguriamo che questi telespettatori abbiano l’occasione per ricredersi, si fa in fretta a proletarizzarsi di questi tempi. Da parte nostra diciamo che dobbiamo rispetto alle compagne e ai compagni che si sono spesi per quella giornata di lotta, per la generosità e la coerenza messi in campo. Così come dobbiamo solidarietà agli arrestati, il cui status sociale non corrisponde esattamente a quello del professionista degli scontri con il rolex al polso: una barista, una disoccupata, un elettricista, uno studente ed un commesso. Di certo qualcosa di molto più reale e quotidiano delle favoleggianti narrazioni mediatiche.
La violenza della piazza del primo maggio non è la violenza di pochi teppisti, ma l’espressione della rabbia di un intera generazione. Il riscatto della violenza subita quotidianamente durante gli sfratti nei quartieri popolari, sui posti di lavoro e nelle Università, nelle strade delle nostre città, nei meccanismi di esclusione e marginalità di una società che antepone il profitto a tutti i costi alle esigenze e ai bisogni delle persone. Certo, crediamo nella necessità di rapportarsi al contesto e comprendere che porsi degli obiettivi e dei criteri, anche e sopratutto nelle pratiche di piazza più radicali, sia la premessa fondamentale alla riproducibilità delle pratiche e alla generalizzazione del conflitto. Le poche macchine bruciate ed altre intemperanze difficilmente comprensibili dai più non ci scandalizzano e di certo non monopolizzano la nostra attenzione sui fatti, ma evidenziano a nostro modo di vedere limiti e contraddizioni che, è bene riaffermarlo, tutte e tutti dobbiamo assumerci e superare. Assumere la rabbia e la sua espressione violenta come un fatto sociale e saperla indirizzare ed auto-organizzare verso obiettivi collettivamente praticabili e comprensibili è politicamente più intelligente del credere di evitarne la degenerazione semplicemente voltando la testa dall’altra parte.
La piazza del primo maggio nonostante tutto ci è piaciuta, ci è piaciuto il coraggio e la determinazione di migliaia di persone che hanno sfidato divieti e provocazioni per affermare la propria incompatibilità ad un sistema capitalista, quello si, che devasta e saccheggia. Questa incompatibilità, evidente nelle diverse forme del conflitto sociale presenti nel nostro paese (non solo a Baltimora o ad Istanbul…) è il nostro punto di partenza: in una casa occupata cosi come nell’attaccare la zona rossa di una città-vetrina blindata c’è un agire diretto e collettivo che crea legami di solidarietà e pratiche di vita differente. Come in ogni sperimentazione a volte bisogna fermarsi a riflettare, ma con lo sguardo sempre proiettato in avanti, consapevoli che in ogni contraddizione c’è una possibilità di avanzamento.
Difendere l’allegria, organizzare la rabbia!
Tutt* liber*!
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Osare e perdere (piuttosto che lacrimare e sopravvivere) – PrecariACT
Gli scontri di Milano hanno lasciato il segno ovunque o quasi: vi è l’indignazione popolare, il fatalismo menegufino, l’intraprendenza meneghina, il ping pong politico, lo smarrimento movimentista, la retorica forcaiola, e l’oltranzismo frontalista e antagonista.
Insomma, più o meno tutto ciò che accade quando accade ciò che s’è visto a Milano.
Eppure, ‘sto giro servirebbe uno sforzo di comprensione e di analisi ulteriore poiché ciò che si è visto nella Noexpo Mayday è intriso di elementi di novità e indicazioni profetiche.
SCONTRI, GLOBALIZZAZIONE E CRISI
Chi ha buona memoria si sarà reso conto che il primo maggio Noexpo Mayday è intriso di elementi particolari, anzi si può dire che ci sono abbastanza novità poter pensare a un diversa fase della contestazione politica. Chi ha creato i disordini lo ha fatto con un preparazione tecnico militare veramente notevole, qualitativamente superiore a ciò che si era visto in altre manifestazioni (Genova 001, Roma dicembre 012, Roma ottobre 013).
La capacità di comparire dal nulla e scomparire in nebbie fumogene, fino al cambio d’abito in tempi addirittura minori di quelli con cui le Ferrari cambiano le proprie ruote, la particolare velocità con cui gruppi affini si aggregavano e si disgregavano, inseguendo i diversi obiettivi, la sistematicità, la precisione tecnica dell’uso di diversi strumenti di scontro; tutto questo indica una capacità molto alta di coordinazione e preparazione, evidentemente affinata, discussa e preparata approfonditamente.
Non basta dire che la polizia ha lasciato fare… Si può leggere quindi una tendenza… A Genova 001 a Roma 12/012, e ancora a Roma 10/013 le “tute nere” (utilizzo questa espressione giornalistica per semplificare, sarebbe meglio dire: l’area anarchica intransigente) sono state infatti l’innesco di una più generale rivolta diffusa, vuoi per l’esasperazione sociale, vuoi per l’incrudimento dello scontro che tende a colpire un po’ a caso, coinvolgendo parti sempre più ampie del corteo, che magari reagiscono anche solo per legittima difesa.
A Milano, il gruppo delle cosiddette Tute Nere ha agito con una precisa sequenza di azioni e reazioni rendendo complicata la generalizzazione dello scontro poiché introdursi in modo estemporaneo all’interno di un’omogeneità estetica e comportamentale risulta chiaramente rischioso, come effettivamente è stato.
La facile riconoscibilità, la mancanza di conoscenza delle dinamiche, dei momenti e dei movimenti coordinati rende vulnerabile chi prova ad mescolarsi in un corpo omogeneo che si muove in modo dinamico. Infatti, il confronto muscolare è rimasto limitato alla falange nera e a un numero relativamente limitato di individui che si sono aggiunti: e proprio fra questi sono avvenuti i fermi contestuali.
Ma ciò non deve trarre in inganno, e le facili conclusioni della stampa (e non solo della stampa) rispetto alla presunta assenza di legittimità politica (e addirittura morale) di questo spezzone (e chi lo stabilisce questo?) sono completamente sballate dall’euforia ossigenante della ragion di stato.
Un alto livello tecnico nella gestione dello scontro non significa un intento criminale e un assenza di visione politica. Anzi, il progetto sotteso alle giornate di Milano è assolutamente chiaro e anche plausibile e dice, in parole povere: se durante ogni meeting internazionale invece di chiacchierare e fare azioni simboliche di nessun impatto (che hanno fatto il loro tempo) si facesse pagare alla città lo scotto più alto possibile, allora i meeting non si terrebbero più.
L’obiettivo chiaramente è quello di passare dai 500 di ieri, ai 1000 della prossima volta, ai 5000 di un futuro più o meno vicino. E il danno alla città crescerebbe esponenzialmente. Inoltre, bisogna valutare bene anche le parole. Anche se in questa forma di guerriglia urbana l’estetica è importante in ogni caso non si tratta di sola “estetica del conflitto” ma essa rientra pienamente in quelle forme mitopietiche di contestazione comunicazionale. Anzi, la difficoltà di interpretare i pensieri del blocco nero permette una gestione del mito ancora più efficace.
Si può desumere che già da un pezzo i più giovani siano attratti da questa radicalità non impantanata, apparentemente, dal burocratismo e politicismo, e decisamente più efficace nel rispondere alle frustrazioni sociali.
L’Expo fa schifo, i commenti dei quotidiani sono stati indecenti e ridicoli, con dei passaggi ignobili (poi parleremo di quelli sinistrorsi) e questo genera un circolo vizioso…
Vista la crisi, viste le lacrime di coccodrillo, visto il finto buonismo, i sacrifici, le false speranze, la sordità verso le istanze dei più deboli, ma soprattutto il cattivo funzionamento dei meccanismi della rappresentanza (siamo ancora una democrazia? ci sono ancora stati democratici?), piaccia o meno, il progetto non sembra così velleitario, soprattutto perchè non si propone assolutamente un cambiamento dell’esistente, ma solo il suo annichilimento (smash capitalism).
Ciò non significa che un progetto del genere non abbia grosse falle (anzi, ne ha e di enormi, ma non è questo il momento di parlarne), ma visto il contesto è un piano semplice che può funzionare, quasi per inerzia, soprattutto se gli altri movimenti rimangono impantanati nelle proprie contraddizioni.
Non è apologia: è solo una costatazione.
REAZIONI POLITICHE E FORZE DELL’ORDINE
Preso atto di ciò che si è scritto, per avere un’idea complessiva bisogna analizzare anche ciò che è successo nel campo istituzionale. Nel mare – tutto – nostrum dell’indignazione a comando alcune reazioni politiche potrebbero stupire, almeno di primo acchito.
Vuoi Alfano e vuoi il Corriere, alla fine in molti han confessato che per ciò che è successo si è pagato un dazio ragionevole. E qua, bisogna dirlo, non solo sono sinceri, ma hanno anche ragione.
D’altronde è grazie a queste affermazioni che possiamo intuire quali sono state le dinamiche circostanziali in cui è avvenuta la Noexpo Mayday.
È evidente che la presenza di un blocco nero era nota alla Digos, ed è altrettanto chiaro che la stessa Digos non nutriva nessun dubbio sul fatto che una parte degli organizzatori non aveva idea di ciò che sarebbe successo. Chi invece era a conoscenza della situazione non aveva il potere di impedirlo.
Facendo un paio di calcoli gli Interni, con le forze dell’ordine e il sindaco di Milano hanno giustamente valutato che un centinaio di vetrine (in gran parte assicurate) e qualche decine di vetture sarebbero state un conto ben solvibile.
Al limite il sindaco a cosa s/fatte (come è stato) avrebbe potuto stanziare dei fondi facendo anche bella figura: in ogni caso si sono sprecati così tanti miliardi per l’Expo che qualche milione in più e in meno non avrebbe fatto nessuna differenza.
Ma la parte più fine del ragionamento inizia proprio da questo punto. Scontri di questo tipo, ben indirizzati, hanno tre elementi che possono anche essere rivoltati virtuosamente nella gestione politica della piazza presente e futura, talmente positivi da costituire una priorità nella gerarchia delle decisioni:
Primo: intervenendo e caricando il blocco nero si sarebbe rischiata la generalizzazione lo scontro coinvolgendo sia il ventre molle della manifestazione sia i servizi d’ordine preparati degli spezzoni più organizzati e quindi si sarebbe ottenuto un effetto boomerang diffondendo il conflitto, trasformando uno scontro di posizione fra bande militarizzate (come è stato in pratica) in scontro diffuso.
Ciò implica che a posteriori si sarebbe dovuto fare i conti con uno scenario che avrebbe dovuto includere considerazioni socio-politiche più problematiche (la rabbia diffusa, la precarietà, lo spreco di risorse eccetera).
Secondo: il fatto che una falange nutrita ma ben definita abbia devastato la città consente a tutti (i soggetti sopracitati) di nascondersi dietro la retorica degli scontri operati da un gruppo di facinorosi, in gran parte stranieri e bla bla bla. Così si è potuta giocare la carta del corpo estraneo e criminale.
Massima autogiustificazione politica per i Potenti (semplificazione narrativa efficace).
Terzo: questo consente anche di annoverare (con candido democraticismo) i poveri organizzatori e gli ignari partecipanti fra le vittime, ma facendo questo implicitamente si afferma e sottolinea la loro impotenza, la loro ingenuità, e il fatto che debbano essere loro stessi tutelati e protetti dalle istituzioni. Questo è l’obiettivo politico principale: la delegittimazione di un gruppo autorevole.
In questo senso il blocco nero e le forze dell’ordine hanno giocato la stessa partita – con obiettivi diversi e su fronti diversi, sia chiaro. I primi per delegittimare la componente da loro considerata un competitor politico e accusata di essere in fondo una componente riformista. Dei secondi abbiam già detto.
En passant è già chiaro che il Potere (anche questa semplificazione, non giornalistica, ci aiuta) sta già prendendo le misure verso il blocco nero, verso le sue tattiche e le sue debolezze. Chi usa chi? È chiaro che le dinamiche di piazza sono state incredibilmente mutevoli… e significative.
NOEXPO MAYDAY
Da quello che si è scritto risulta chiaro che dire che la polizia non è intervenuta è una valutazione completamente sbagliata: lo ha fatto, prima con un’opera di intelligence evidentemente accurata, poi ha messo in campo una tattica dettata da un’analisi costi e benefici (tenendo conto degli avvenimenti caldi degli ultimi 15 anni, della sentenza europea sulla tortura al G8 di Genova, delle priorità legate all’inaugurazione) e lo ha fatto soprattutto mettendo in campo una strategia complessiva di minimizzazione dei danni e massimizzazione degli obiettivi politici.
Si noti che tutti parlano della minimizzazione, nessuno della massimizzazione, poiché farlo significherebbe ammettere implicitamente che lo Stato gioca duro per difendere l’interesse di pochi (magari risarcendo le vittime, ma solo come secondo fine, nella voce: gestione effetti
collaterali). Quindi le “tute nere” hanno fatto il loro gioco e le istituzioni, con il loro braccio armato, hanno risposto con le proprie carte. Ma gli organizzatori? La galassia Noexpo cosa ha pensato di fare?
(I pareri espressi in questa parte che criticano l’organizzazione della Mayday riguardano alcuni punti politici e sono formulati senza lingua biforcuta e senza false diplomazie, ma si devono prendere come elementi di discussione e non come giudizi. Sono note perfettamente le insidie di piazza e tutte le difficoltà annesse e connesse)
E qua viene la parte dolente e la parte più interessante. La Mayday è nata come manifestazione del protagonismo precario, il suo senso più pregno probabilmente si era esaurito con le prime dieci/dodici edizioni (non la necessità del protagonismo precario, si badi bene, solo la necessità della Mayday).
È sopravvissuta, giustamente, solo in vista della concomitanza con l’inaugurazione Expo, e quindi si è riproposta ogni anno in attesa del big bang. Ma per strada ha perso un certo mordente, riducendo le proprie prospettive intorno ha un’indignazione (giusta, ma non sufficiente) legata agli sprechi, alla corruzione e catalizzando la propria azione nella critica delle grandi opere, della cementificazione, concentrandosi contro lo sviluppo in/sostenibile legato alle politiche di sfruttamento delle risorse territoriali (anch’esse tutte cose condivisibili).
Però l’impressione è che si sia perso per strada il nodo centrale: le dinamiche della precarizzazione (che è un altro piano rispetto a quello dell’intervento nel lavoro precario e gratuito dell’Expo, intervento legittimo, ma uno dei tanti interventi legittimi).
L’Expo è sbagliata per tutte le cose sopra elencate ma l’esposizione universale, come altre grandi opere, deve essere combattuta soprattutto poiché sottrae risorse a ciò che dovrebbe invece essere fatto: cambiare il workare state, introducendo politiche di reddito capaci di ridurre le precarizzazione. Ovvero, la necessità è quella di riproporre con continuità l’orizzonte di un nuova civiltà di diritti per i nuovi soggetti precarizzati. In questi tempi della precarietà se ne parla di meno – poiché nella crisi qualsiasi lavoro va bene – ma rimane la madre di tutti i mali (compresa la crisi).
È la causa della pauperizzazione generale, della perdita dei diritti, dell’impoverimento della produzione italiana, della fuga di cervelli, dello spreco delle capacità e delle conoscenze accumulate dalle generazione precarie e smarrite in lavori dequalificati, della criminalizzazione dei migranti, e del razzismo strisciante. E non ultimo – volendo fare i liberal – la precarietà è anche causa della generale perdita d’importanza del capitalismo nostrano (poiché le imprese se possono guadagnare abbassando il costo del lavoro eviteranno di investire sull’innovazione).
Quindi l’Expo è un male poiché sottrae risorse a una visione più giusta e più ampia del futuro che dovrebbe addirittura unire in un tratto antagonisti e sinceri democratici (sempre che esistano)
Il primo obiettivo della Mayday avrebbe dovuto essere quello di una redistribuzione della ricchezza prodotta, prima ancora di porre il problema legittimo della qualità di questa ricchezza.
Finché ci sono sacche estesissime di povertà e precarietà subordinare la riappropriazione della ricchezza alla critica qualitativa dello sviluppo è un errore politico monumentale… chi non percepisce le implicazioni pratiche di questo passaggio è miope o non si misura quotidianamente con le contraddizioni del presente.
Perso di vista questo punto, la contestazione all’Expo è diventata molto più debole, unione di spezzoni separati, di lotte importanti ma locali, unite da piccole assemblee, ma non da una visione comune. La Mayday del 2015 è sempre stata percepita come una data rischiosa, eppure l’unico modo per tutelare un corteo senza dover mettere in campo legioni di servizi d’ordine – cosa difficile e anche, forse, dispersiva di energie – è quello di caricare politicamente l’evento esigendo l’appropriazione delle ricchezze da parte dei più, costi quel che costi, unito alla minaccia profetica di una ferma ritorsione verso i responsabili delle speculazioni e dello sperpero di ciò che ci spetterebbe, rilanciando un progetto reticolare potente con queste indicazioni.
Più è alto l’obiettivo e più alta è la tensione, più chiara è anche la gestione successiva (ma non per questo è facile). È già successo – in condizioni diverse, certo.
La “rabbia precaria” sarebbe dovuta rimanere come architrave del corteo per rappresentarne l’unità progettuale, forse avrebbe allontanato qualcuno, ma avrebbe anche imposto un’autorevolezza a un corteo che impostato come sommatoria di micro-macro-vertenze è diventato fortemente penetrabile e vulnerabile con tutte le conseguenze che abbiamo visto [le ripetiamo: gli scontri in piazza sono diventati una guerra fra bande (questo è il problema, non gli scontri!), e la Reazione (in questo termine non c’è nessuna semplificazione) ha potuto giocare le sue carte terrificanti della totale delegittimazione della contestazione Noexpo nella forma peggiore possibile “difendendo” le povere vittime dei comitati che hanno preso parte alla Mayday che avrebbero voluto, ed avrebbero dovuto, poter manifestare pacificamente!”].
L’Expo rimane il vero blocco di interessi a cui imputare la devastazione territoriale di Milano e il saccheggio di risorse più che mai necessari ai territori e precari/e per autogovernare se stessi e la propria vita. La Mayday poteva diventare un problema in questo senso, un’azione continua di condanna avrebbe creato difficoltà e seminato inquietudine.
Il senso è chiaro: la corruzione, i ritardi, l’infiltrazione mafiosa, i posti di lavoro promessi e mai arrivati, i buchi di bilancio eventuali devono rimanere motivo di indignazione, al limite possono essere imputati allo stile tipico della superficialità e approssimazione italiota, ma non devono assolutamente essere visti congiuntamente come un Sistema organico e organizzato che leva risorse ai più per dare a pochi. La situazione è così diventata critica per i movimenti e favorevole per i Poteri Forti: il peggior pericolo è diventato il Capro Espiatorio…
FEDELI ALLA LIRA: OVVERO, NON CREDERE NEI MEDIA!
Una nota d’obbligo. Ciò che è successo colpisce duramente chi si era esposto come organizzatore, ma la responsabilità è in verità limitata da un contesto in cui pochi (chi?) potrebbero affermare, senza essere ridicoli, di poter dominare una situazione così difficile e complessa. Semplicemente le contraddizioni devono essere affrontate anche prevedendole e non solo sperando che non si manifestino.
Inoltre parecchi punti dolenti vengono da lontano: i movimenti faticano a trovare una lettura unica delle dinamiche perverse della società contemporanea, troppe le divergenze forse alimentate dalla diffidenza fra le diverse realtà, che è alta, come la gelosia dei propri percorsi. Poi, nella cosiddetta sinistra tradizionale – e non aiuta – vi è un vuoto culturale e politico imbarazzante, e una mancanza di coraggio ancora più eclatante: basti leggere i pezzi sui quotidiani storici (tipo Manifesto) o ascoltare (fatelo se non ne avete avuto la possibilità) la registrazione della diretta su Radio popolare, oppure il microfono aperto successivo alla manifestazione. Oppure i vari commenti politici…. Anzi di più: non solo mancano la lucidità o il coraggio, ma vi si nota un atteggiamento addirittura pre-giudicante!
Non bisogna mai stancarsi di far notare ciò: fa specie che chi è oggettivamente corresponsabile del dilagare della precarietà (che tutto ha distrutto… una generazione dopo l’altra, le nostre generazioni, ma anche l’influenza dei partiti e dei media sinistrorsi – guarda te il destino quanto è beffardo!) giudichi con durezza i tentativi di autorganizzazione in un contesto obiettivamente difficilissimo.
Si pretendono risultati chiari, politici, immediati, si chiede con una certa impazienza che ciò che è stato fatto dalla classe operaia in decine e decine di anni, venga riproposto dai precarizzati in un decennio, e si ignora (ma perché lo ignorano? possibile che non rileggano criticamente la storia?) quali difficoltà umane, culturali, sociali siano necessarie per un’accumulazione originaria del sapere sperimentale, elemento vitale per rifondare una scienza politica.
Vista anche e soprattutto l’eredità poco consistente del patrimonio politico passato (anche questa è colpa nostra?). Con lo stesso metro, facendo il confronto fra possibilità economiche, organizzative e esperienza storica dovrebbero pretendere parimenti che la Cgil prendesse il potere alle Nazioni Unite ?!
Vabbè, questo, a ben vedere, è quasi scontato…
ERRARE O PERSEVERARE?
Per quanto il primo maggio non sia stata una buona giornata per le lotte sociali che si sono rappresentate nella Noexpo Mayday lo sforzo compiuto da queste realtà è enormemente più importante delle critiche e dei piagnistei moralisticheggianti che si sono uditi successivamente.
I precari e le precarie fanno quello che possono, sbagliando molte volte, imparando altre.
Errare è umano, ai precari non resta che perseverare, basta non rimanere 40 anni dalla parte del torto…
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Dalla parte del mostro: sul primo maggio e oltre – Hobo Bologna
Iniziamo con un punto fermo, con una scelta di campo, con un’assunzione di parte: noi siamo stati nello spezzone delle lotte sociali, in quello spezzone cioè che a Milano si è organizzato per provare a determinare punti di rottura con l’Expo e la sua logica. Solo a partire da questa presa di posizione è possibile cominciare a discutere delle valutazioni del primo maggio.
La prima valutazione da fare è che il primo maggio contro l’Expo è stata una giornata importante. Lo è stata per la partecipazione, per i livelli di conflitto, per la multiforme tensione di rifiuto espressa e anche per le questioni che pone. I commenti a caldo e del giorno dopo circolati nei media ed espressi dai rappresentanti politici non stupiscono, vi è una ricorrenza che non merita qui particolare attenzione: è infatti inutile sprecare parole sui tentativi di criminalizzazione, falsificazione e mistificazione, ognuno fa il suo lavoro per la parte a cui fa riferimento. L’elemento che va invece sottolineato è un altro: l’ormai completa autonomizzazione di media e istituzioni politiche rispetto al contesto sociale. Dentro la crisi, gli uni e le altre si pongono sempre meno il problema di consenso e di comprensione dei contesti sociali (anche di quelli da controllare e all’occorrenza criminalizzare), assumendo invece l’irreversibile distacco rispetto ai soggetti colpiti dalla crisi. Il loro problema diventa esclusivamente quello del mantenimento e riproduzione delle proprie forme di comando e privilegio: il potere diventa definitivamente autistico. Questa autonomizzazione si riflette anche tra opinionisti e realtà di movimento che, di fronte alle profonde trasformazioni e terremoti prodotti dalla crisi, scelgono la scorciatoia dell’autoreferenzialità. Meglio conservare quello che si ha: se non è il potere, almeno è una cattedra da cui parlare o una struttura da mandare avanti. Non è un caso che più o meno tutti parlano delle “ragioni del No Expo oscurate”, anche coloro a cui di quelle ragioni è mai fregato nulla. Come se le ragioni vivessero disincarnate dai corpi che lottano per affermarle, nel cielo delle idee e non nella dura materialità della terra.
Ecco allora la specularità delle versioni. È stata rovinata la festa, ci dicono in coro Renzi e Repubblica, Mattarella e il Corriere della Sera, riferendosi alla loro fiera internazionale. È stata rovinata la festa, ripetono in coro “il manifesto” e vari compagni ricordando i bei tempi delle sfilate colorate. Ma piaccia o non piaccia, quelle sfilate non torneranno più, perché legate a un’altra fase e ad altri pezzi di composizione sociale. Perché in mezzo c’è una crisi divenuta permanente, un impoverimento di massa, precarietà e disoccupazione come elementi strutturali. In chi concretamente non arriva alla fine del mese, in chi non ha i soldi per pagare l’affitto, in chi per tirare a campare è costretto a lavoretti per nulla creativi e completamente serializzati, nei giovani che di un futuro non hanno nemmeno sentito parlare, la voglia del colore tende a spegnersi.
Una parte di queste figure era presente al corteo del primo maggio. Molti di questi componevano lo spezzone delle lotte sociali, forse il più numeroso, sicuramente quello più giovane e più europeo – dell’Europa reale, non di quella che popola i sogni degli europeisti di sinistra. Chi parla riduttivamente di “blocco nero” è ancora una volta ostaggio della mania dei colori: una felpa è una felpa e un passamontagna è un passamontagna, indipendentemente dal loro colore servono innanzitutto per impedire l’identificazione. Sotto – ed è la sostanza che conta – vi sono la determinazione politica a rompere divieti e compatibilità, la rabbia sociale di chi non accetta le condizioni di impoverimento e privazione imposte. Chiariamo ancora una volta: la rabbia non è né buona né cattiva, è un dato di realtà. Non è in sé un progetto politico, ma è difficile immaginare un progetto politico che non dia forma anche alla rabbia.
Lo spezzone delle lotte sociali si è mosso in questa direzione, provando a praticare l’obiettivo (la conquista dell’agibilità del centro cittadino) e rivendicando un legittimo uso della forza. In questa direzione, è definitivamente tramontata quella fobia dell’immaginario simbolico che per tanti anni – anni molto diversi da questi, ripetiamo – ha caratterizzato il movimento e le sue pratiche, nella ricerca del connubio tra conflitto e consenso, che talora diventava connubio tra simulazione ed elezioni. Quell’immaginario ha condotto a una sostituzione dei soggetti sociali con una loro rappresentanza simbolica; ora, nella durezza della crisi, i primi irrompono sulla scena, in forme spesso caotiche e contraddittorie, non colorate e maledettamente crude. Il problema che adesso ci dobbiamo porre è come evitare di ricadere in altre dimensioni puramente simboliche, in cui il luccichio della vetrina da infrangere sostituisce quella dei media da compiacere. Rompere con l’Expo significa anche rompere con l’attrazione per la merce-evento. Colpire un simbolo fa male alla controparte solo se si incarna in un processo di lotta e possibilità sociale (e ovviamente colpire una gelateria non fa male nemmeno ai diabetici). L’obiettivo da praticare il primo maggio erano le recinzioni d’acciaio e di scudi che impedivano di conquistare il cuore della metropoli, e i livelli significativi del conflitto si sono raggiunti nelle ripetute occasioni in cui migliaia di persone hanno provato a forzarle. Senza arretrare di fronte ai lacrimogeni e senza farsi abbagliare dai luccichii, che distraggono lo sguardo e non permettono di praticare l’obiettivo.
Ancor più dopo il primo maggio di Milano, è evidente come l’alternativa sia tra una scommessa in avanti e una scelta di marginalità. E in questa fase marginalità vuole innanzitutto dire ritrarsi nei propri orticelli di fronte ai nodi sociali e politici, scegliere cioè di adagiarsi nei propri colori e rifuggire da una composizione mostruosa, che non si capisce e spaventa. Chi parla di devastazione di Milano o è in malafede, oppure non ha idea di cosa sia la devastazione della crisi. In ogni caso, preferisce guardare altrove, al proprio ombelico, alle proprie certezze, a quello che non c’è più. A chi parla di movimento asfaltato chiediamo: chi è questo movimento a cui fate riferimento? Le sue rappresentanze politiche? Chi aspetta il sole della coalizione sociale? Chi ha nostalgia di quando i precari erano creativi e colorati? Prima ancora di ogni critica o distanza politica, c’è un problema di composizione di riferimento: la composizione a cui fanno riferimento coloro che piangono sulla MayDay No Expo rovinata è marginale politicamente, non espansiva, certo non scomparsa ma in tendenza non passano da lì i potenziali punti di rottura e generalizzazione. Il punto è che la crisi ha prodotto nuovi soggetti, caotici e mostruosi com’è la crisi, che possono passare dall’accettazione del lavoro gratuito al nichilismo della vetrina fine a se stessa. Ma è di qui che dobbiamo passare, dalla scelta del mostro: non per esaltarlo, ma per trasformarlo. Per trasformare cioè l’apparente rassegnazione in rifiuto e la rabbia in progetto di rottura e costruzione di autonomia. Chi non accetta questa sfida e si volta da un’altra parte, come è successo a Milano, non solo sta al gioco dei buoni e dei cattivi, ma non dà alcun contributo alla trasformazione di quelli che – belli o brutti che siano – sono i soggetti reali.
Il primo maggio contro l’Expo non è stato un riot, perché le rivolte sono fatte da soggetti sociali che si ribellano alla condizione di marginalità, non da un insieme di realtà militanti che si coordinano e provano a dare direzione all’eccedenza. Le rivolte avvengono, le lotte si organizzano. Le une possono essere alimento delle seconde, nella misura in cui la politicità delle prime trova forma organizzata e si generalizza. Sicuramente, però, dobbiamo porre i problemi all’altezza di una fase storica in cui la rivolta – dalle banlieue a Londra fino ad arrivare a Baltimora – diventa piano della politicità per fette crescenti del proletariato metropolitano. All’oggi sappiamo quello che non c’è più (e onestamente non ne sentiamo neppure la nostalgia), non abbiamo ancora trovato quello che ci può essere – e di questo ne sentiamo l’urgenza. Quello di cui c’è bisogno sono nuove pratiche di lotta e radicamento progettuale adeguate alla fase e alla composizione sociale colpita dalla crisi. C’è bisogno di reti e connessioni non solo sull’evento, ma sostenute dalla produzione di discorso politico avanzato e metodi comuni, da tensione strategica e intelligenza tattica.
A chi osserva il proprio ombelico, voltando sdegnato lo sguardo dal mostro per cecità o opportunismo, diciamo con il buon senso materialista: benvenuti nel deserto del reale. In questo deserto dobbiamo organizzarci, perché l’unico mondo possibile è quello che passa dal rivoluzionamento di quello che viviamo. Ben sapendo, come ci ricordava il leader delle pantere nere Huey P. Newton, che “il deserto non è un circolo. È una spirale. Quando siamo passati attraverso il deserto, niente sarà più lo stesso”.
Ps: due giorni dopo la manifestazione contro l’Expo, a Bologna insieme a tante e tanti abbiamo contestato il ducetto Renzi a una Festa dell’Unità svuotata di qualsiasi legittimità. Abbiamo resistito alle cariche della polizia e al dispositivo di militarizzazione del PD, abbiamo dimostrato ancora una volta che attaccare il partito della nazione è possibile e necessario. E che l’opposizione alla logica dell’Expo si costruisce il primo maggio a Milano e tutti i giorni sui nostri territori.
Fare un’articolo con il titolo “Dalla parte dei teppisti” in un contesto simile a quello di Milano non solo è provocatorio ma sbagliato. Appare evidente che un’azione distruttiva simile… in un contesto urbano …. a parte qualche banca presa di mira … ma le proprietà private dei singoli negozianti – gli automobilisti colpiti .. hanno logicamente scatenato le ire di una gran parte della popolazione. Che si sentono estranei dalle problematiche sociali, politiche, speculative .. e nello specifico per l’inaugurazione dell’Expo del 1° Maggio. Tengo a ricordare che simili dinamiche distruttive non sono assolutamente nuove, In ultima data il 18 marzo 2015 a Francoforte con l’inaugurazione della nuova sede della B.C.E. Ma il tutto è passato quasi sotto silenzio mediatico, perchè per “coincidenza” nello stesso 18 marzo alle 12.30 a Tunisi presso il Museo Nazionale del Bardo c’è stato un’attacco terroristico con 24 morti e circa 50 feriti. Ovviamente tutta l’attenzione mediatica si è concentrata su questo evento. Ma di situazioni distruttive con vere e proprie guerriglie urbane la storia almeno di questi ultimi decenni ne è piena. In Grecia in varie città, in Francia-Parigi, negli Stati Uniti, a Londra, in Germania, a Roma … per non parlare del G8 a Genova nel 2001 con gli ulteriori aggravi repressivi polizieschi presso la scuola Diaz ed alla caserma Bolzaneto. Su queste vicende si possono fare pagine e pagine di memorie, di commenti pro o contro questi eventi. Pertanto Milano il 1° Maggio 2015 è entrata nella lista dei luoghi sottoposti a guerriglie urbane, Da anni sono un attento osservatore di queste vicende e delle motivazioni più o meno chiare che hanno scatenato queste situazioni … che inevitabilmente spesso degenerano in azioni distruttive ed irrazionali. Quasi sempre queste situazioni hanno un comune denominatore: l’ingiustizia subita. Sia per la morte-abusi di qualcuno, per gli sprechi di classi amministrative corrotte, per le condizioni di povertà-degrado in vaste aree delle periferie metropolitane .. o per altre gravi situazioni da tempo denunciate dai dimostranti ma sempre inascoltate dalle classi dirigenti. Queste situazioni in altro modo, sono rivendicazioni che possono essere vissute pure da singoli individui … A prescindere dalle ragioni o dai torti subiti … ma scatenano azioni devastanti che finiscono in tragedie… Basti pensare alla recente azione nel Tribunale di Milano il 09 aprile 2915 con tre morti e due feriti. Ma di azioni individuali simili, forse meno eclatanti, pure questo elenco di cronaca è molto lungo. Poi ci sono le “stragi familiari” … Poi ci sono i suicidi in aumento esponenziale che non fanno più notizia, a meno che uno decida un suicidio involontario collettivo. Come ha fatto il pilota tedesco dall’Aerbus nel far schiantare l’aereo che pilotava sulle montagne alpine il 24 marzo sempre nel 2015. Pure in questi casi i disagi psichici, le incomprensioni, le paure economiche hanno influito molto nelle dinamiche di queste azioni. Ovviamente a livello mediatico, politico, sociologico si cerca di isolare questi casi e piovono le inevitabili accuse-attributi che esorcizzano la responsabilità della collettività. < Questi sono dei delinquenti, tutti in galera, sono le …. e mille altre definizioni simili che non solo prendono le distanze da tali azioni sicuramente devastanti-distruttive …. ma criminalizzano i soggetti come i “mostri” – i “cattivi” – i “violenti” – i “nemici” di turno. Azione e reazione ovvia, semplice da capire. Quello che invece non è assolutamente semplice da capire è come mai avvengono con sempre maggior frequenza questi eventi sia collettivi sia singoli, che scuotono le cronache mediatiche solo per qualche nuovo giorno .. E poi passano nel dimenticatoio di massa, perchè qualche nuovo evento ancor più devastante ha preso le prime pagine delle notizie. E avanti così … in un permanente carosello degli “orrori” e di cronache giudiziarie. Come dicono in molti [lo spettacolo deve andare avanti] …. Ma di quale “spettacolo” o di quali “regole del gioco” politico stiamo parlando? Perchè questo è il punto assolutamente poco chiaro …..Tutti sanno che la nostra società occidentale è capitalistica, competitiva, che il denaro risolve moltissimi problemi, che abbiamo un pianeta con risorse limitate, che c’è un’aumento globale demografico della popolazione quasi incontrollato, che esistono i cambi climatici anche causati da attività sempre più invasive umane …. e guarda caso proprio l’Expo vuole affrontare alcuni problemi proprio sull’alimentazione globale. I contestatori “pacifici” del No Expo al contrario, dicono che proprio le multinazionali che promuovono questo evento sono la causa della fame e dello sfruttamento globale. Di fatto esiste una “losca” contraddizione? Di fatto siamo in una civiltà in permanente conflitto … si o no? Di fatto e assolutamente, di “armonia” e di “equilibrio” sociale …. c’è ben poco … si o no? E su queste osservazioni, credo che chiunque legga questo post non può che confermare questi FATTi …. Non sono una opinione, una ideologia…. abbiamo un sistema sociale in permanente conflitto … Si o no? Stop. Da secoli .. pure! Quello che pochi sanno invece è che l’Italia è tra i primi 10 paesi al mondo che producono-vendono-esportano armamenti di ogni tipo, incluso nucleare e batteriologico. Dove e a chi? Non parliamo degli U.S.A. – Russia, – Cina – Germania – Francia e altri paesi “ricchi e benestanti”….. Poi guarda caso scoppiano dal nulla guerre di ogni tipo…. Nascono gruppi terroristici di ogni tipo … Popolazioni devastate – [altro che vetrine infante] …. Popoli in fuga …. Popoli che soccombono come dei migranti maltrattati o periscono in mare … e mille altri nuovi orrori nella nostra attuale/ moderna società dei consumi globali …. Pure questi dati obiettivi credo che nessuno li possa contestare. In conclusione di questo lungo testo … quello che non riesco a capire … e dopo questi chiarimenti …. Ma perchè ora ci lamentiamo di tutto quello che accade di brutto al mondo? Se abbiamo creato di fatto un sistema sociale in permanente conflitto, in costante contraddizione e dietro le sorridenti-smaglianti apparenze serpeggia con sempre maggior forza l’ odio ed il disagio sociale collettivo? Questo è il problema! Se di fatto si produce sempre più conflitto, odio, ipocrisia, indifferenza, disonestà, separazione tra ricchi e poveri ….. perchè poi moltissime persone si lamentano di questi eventi … che purtroppo ritengo saranno sempre più aggressivi e violenti? Forse noi occidentali non siamo accecati e troppo viziati? Per caso, non è che siamo tutti un po diventati come Maria Antonietta d’Asburgo nel 1793 …. che non capiva certe cose? E da li nasce la sua famosa frase che la rese celebre Sappiamo come è andata a finire. A questa domanda … scusate la mia ignoranza … e visto che in rete ci sono tantissimi sapientoni …. Qualcuno è in grado di darmi una chiara spiegazione? Grazie per l’attenzione e le eventuali risposte.