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Due storie, un solo destino. Marjan come Maysoon

La storia della 29enne sotto processo a Locri: è anche lei accusata di essere una scafista. Come Maysoon Majdi e Marjan Jamali, centinaia e centinaia di persone sono arrestate con l’accusa di favoreggiamento: significa costruire un muro davanti agli occhi dei cittadini europei perché non vedano ciò che sta accadendo

Due storie personali diverse. Ma accomunate dal medesimo destino, beffardo e ingiusto. Maysoon Majidi e Marjan Jamali: entrambe donne, entrambe iraniane, entrambe fuggite dal regime teocratico di Teheran, entrambe asilanti, entrambe sbarcate in Calabria. Ed entrambe arrestate con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Insomma due «scafiste» per i solerti funzionari dello stato italiano. Fino a maggio erano accomunate anche dalla medesima condizione restrittiva carceraria. Poi Marjan, assistita dallo stesso legale di Maysoon, Giancarlo Liberati, ha ottenuto gli arresti domiciliari così come deciso dal Riesame di Reggio Calabria.

LI STA SCONTANDO nella cooperativa «Jungi Mundu» di Camini, nella Locride, dove si è ricongiunta con il figlio di 8 anni. Si tratta di due vissuti tuttavia diversi. Marjan non è un’attivista, nè un’artista. Ma una donna fuggita da un marito violento che aveva tentato di ucciderla per strangolamento. Ha 29 anni ed è sotto processo a Locri. Scampata dalla violenza domestica che nel contesto del regime iraniano non ha alcuna persecuzione giuridica, si è trovata sbattuta in carcere appena due giorni dopo lo sbarco, avvenuto a Roccella Jonica il 26 ottobre dello scorso anno. L’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ipotizzata per entrambe, basata sull’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, opprime Maysoon e Marjan come se fossero trafficanti di esseri umani, nega loro qualsiasi forma di protezione, le sottopone a un regime detentivo che nel caso di Marjan l’ha allontanata dal figlio minorenne per ben 14 mesi prima del permesso accordato verso i domiciliari. Mentre nel caso di Maysoon la sta portando a una deprivazione fisica e psicologica particolarmente preoccupante. All’udienza di mercoledì a Crotone pareva davvero «una stampella con addosso i vestiti» come l’aveva definita il consigliere regionale (e medico) Ferdinando Laghi dopo una visita in carcere. L’accusa a carico di Marjan si basa esclusivamente sulla testimonianza di tre iracheni- poi spariti- che l’hanno sessualmente molestata durante la traversata.

UGUALMENTE, l’accusa a Maysoon si basa sulla iniziale deposizione di due compagni di traversata che successivamente avrebbero ritrattato ma che risultano ad oggi anch’essi spariti e «irreperibili». Numerose irregolarità hanno caratterizzato le indagini e le fasi preliminari del processo di Locri a carico di Marjan. La difesa ha evidenziato le difficoltà riscontrate nell’accesso agli atti del procedimento ed ha depositato contestualmente la ricevuta del pagamento dei 14.000 dollari versato dalla famiglia di Marjan ad un’agenzia turca, come quietanza del viaggio suo e del figlio per l’Europa. E’ la prova documentale che non si tratta di una scafista ma di una comune migrante fuggita con il figlio da persecuzione e violenza. Lo stesso beffardo paradosso che ha spinto Maysoon nell’ultima udienza a chiedere quasi in lacrime al collegio. «Come posso essere una scafista se sono stata costretta a stare con altre decine di persone in un sotterraneo in attesa dei camion per andare ad imbarcarci? Come posso essere una scafista se, come avete anche detto voi, ho continuato a cercare i soldi per pagarmi il viaggio fino a tre giorni prima della partenza? Come faccio ad essere una scafista se ho chiesto un prestito al partito Komala, di cui io e mio fratello eravamo membri, per poter partire?».

DUE STORIE di malagiustizia che trovano terreno fertile in una legislazione fallace come quella italiana. Affinché si configuri il reato, l’articolo 12, infatti, richiede l’intenzione di svolgere la condotta descritta nell’offesa, indipendentemente dal motivo e dal raggiungimento dell’obiettivo. Il profitto finanziario o materiale derivante dal favoreggiamento irregolare è una circostanza aggravante, ma non un è elemento costitutivo del crimine. Insomma, la normativa non prevede la presenza di un vantaggio finanziario o materiale per criminalizzare il favoreggiamento dell’ingresso. E ciò che rende il corso giudiziario di Maysoon e Marjan alquanto irto. Però una cosa c’è ad accomunare positivamente le due storie. È la mobilitazione a loro sostegno. I comitati Free Marjan Jamali e Free Maysoon Majidi hanno smosso le coscienze, hanno spinto la politica ad occuparsene (è di ieri l’ultima interrogazione parlamentare presentata sul caso Majidi dal senatore Ivan Scalfarotto di Italia Viva), hanno acceso i fari su quelle falle normative e giudiziarie. Di un Paese che si definisce libero. Ma solo a parole.

Io ho attraversato quel mare e vi dico chi sono i veri scafisti

Maysoon Majidi e Marjan Jamali sono due delle tante persone arrestate dopo essere arrivate in Europa, accusate di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Le pene erano già alte prima, ma sono state aumentate dal decreto Cutro, una norma che mette a rischio la tutela dei diritti umani di chi si trova in situazione di pericolo o vulnerabilità. Sappiamo quello che sta succedendo in paesi come l’Iran o la Libia: nessuna delle persone che fugge da quei contesti dovrebbe essere arrestata quando arriva in Europa.

Maysoon era una donna che nel suo paese, l’Iran appunto, lottava contro il regime, un regime dittatoriale che arresta le persone, soprattutto le donne, che si battono per la libertà. Ha combattuto ed è fuggita, ma giunta finalmente in Europa è finita in carcere con l’accusa di essere una «scafista». In casi come questi bisogna stare attenti. Una persona che non capisce la lingua delle autorità, che ha difficoltà a comunicare anche con i mediatori, perde la sua voce, il suo diritto di parlare. Speriamo che nelle udienze di ottobre possa avere veri mediatori linguistici che capiscono la sua lingua in modo da poter affermare

Quello che possiamo dire noi è che in Europa vengono arrestate centinaia e centinaia di persone con l’accusa di favoreggiamento: significa costruire un muro davanti agli occhi dei cittadini europei perché non vedano ciò che sta accadendo. I veri scafisti non sono le persone che guidano le barche, che ci viaggiano a bordo, che scappano dalle discriminazioni vissute sulla propria pelle. I veri scafisti sono quelli a cui l’Unione Europea e l’Italia offrono soldi ogni giorno.

Basta guardare la Libia, che prende milioni e milioni di euro ogni anno per bloccare le partenze e detenere le persone. I veri scafisti sono quelli che di giorno indossano la divisa della «guardia costiera» di Tripoli e di notte organizzano i viaggi, mettendo uomini, donne e bambini in mezzo al mare per farli partire. I veri scafisti sono quelli che gestiscono i campi di detenzione privati dove le persone sono catturate, torturate, trattate come schiavi. Questo l’ho vissuto io, Ibrahima Lo, sulla mia pelle, sul mio corpo.

Se vogliamo fermare le migrazioni irregolari non serve arrestare i poveri che arrivano. Bisogna aprire veri canali legali per migrare. Bisogna fermare dittatori, criminali e mafiosi che fanno perdere alle persone i loro diritti. Come hanno perso i loro diritti le due sorelle italiane finite in carcere. Non sono scafiste, i veri scafisti trattano con i governi europei.

articoli a cura di Silvio Messinetti e Ibrahima Lo per il manifesto

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