E’ stata la tortura a uccidere Stefano Cucchi
- aprile 18, 2013
- in carcere, malapolizia, tortura, violenze e soprusi
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Al processo per la morte del trentunenne, il legale di parte civile Fabio Anselmo contesta la perizia che nega gli effetti del pestaggio
«No, se non fosse stato pestato non sarebbe morto», dice quasi in fondo alla sua arringa Fabio Anselmo, avvocato ferrarese che, dopo il caso Aldrovandi, è diventato un punto di riferimento per vari casi di malapolizia. A cominciare dall’omicidio di Stefano Cucchi morto dopo «un calvario» inimmaginabile. Cinque giorni e mezzo tra una guardina dei carabinieri, un sotterraneo del tribunale di Roma, Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebenefratelli e, infine, il repartino penitenziario del Pertini. Trentuno anni, geometra, vita difficile. Nulla che giustifichi la tortura. «Perché sappiamo che è morto per la tortura, per il dolore illecito, per uno sfinimento progressivo, per la solitudine. Anche se quella lettera al Ceis, un solo giorno prima della morte, dice che non voleva morire».
Ha parlato più di cinque ore Fabio Anselmo prima di chiedere alla Corte «l’unico rispetto, una sentenza aderente ai fatti». Ossia qualcosa di sostanzialmente diverso dai capi di imputazione ipotizzati dai pm Barba e Loy per sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari sulla base di una ricostruzione pressoché puntuale dei fatti ma negata dalla perizia degli stessi pm. Lo sforzo dei periti, secondo Anselmo, è stato quello di inventare una morte per “inanizione”. Una morte per fame, derubricando un caso di tortura in un “banale” caso di malasanità. Ma sarebbe una morte impossibile: l’inanizione per la letteratura medica interviene solo dopo 21 giorni. Un contrasto che Anselmo ha smontato minuziosamente chiedendo ripetutamente scusa ai giurati popolari per il tempo che li costringeva a concentrarsi su materie difficili.
Le accuse, a vario titolo e a seconda delle posizioni, vanno dall’abbandono d’incapace, all’abuso d’ufficio, favoreggiamento, falso ideologico, lesioni e abuso di autorità. La pubblica accusa ha chiesto per gli imputati pene tra i due anni e i sei anni e otto mesi di carcere. Stefano fu pestato nelle celle del tribunale, dove si trovava prima dell’udienza di convalida dell’arresto, caddero nel nulla le sue richieste di farmaci e, una volta in ospedale, sarebbe stato sepolto vivo. Anselmo rappresenta Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano costituita parte civile.
Come nel caso Aldrovandi si rischia che alla sbarra ci finisca la vittima, l’unico che non può più parlare, mentre chi resta, spesso, sceglie di non dire nulla. Di Cucchi, anche durante il processo, s’è detto che era magro, anoressico, tossico e anche cafone. Che sarebbe morto di fame, prima o poi, sicuramente non per colpa del trattamento perché le lesioni erano così lievi che nemmeno doveva essere ricoverato. S’è detto, perfino, che avesse scelto di avere il catetere «per comodità».
Con una perizia così, a sentire Anselmo, c’è perfino il rischio che gli imputati finiscano assolti per via di professori «innamorati di sé stessi», che si piccano se li si contraddice ma che nemmeno avrebbero letto le carte. Ma una perizia così, per il legale ferrarese, non reggerebbe agli altri gradi di giudizio per quell’ostinazione a negare la lesività dei traumi subìti da Cucchi, per quell’intasamento di affermazioni apodittiche senza uno straccio di spiegazione. Oppure con spiegazioni fantasiose dal punto di vista delle discipline, con un «compendio scientifico imbarazzante».
La prova “regina” di questo teorema, la prova radiologica che la vertebra L5 si sarebbe spezzata dopo la morte, non è nemmeno contenuta in un referto firmato ma in una minuta proveniente dall’Università di Chieti con sopra i segni del cursore del programma di scrittura e perfino del correttore del computer. (continua a leggere su popoff)
Checchino Antonini
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