Ecuador: arresti, feriti, repressione e criminalizzazione contro il paro nacional
In Ecuador lo sciopero generale contro l’aumento del prezzo del carburante si è trasformato in rivolta dopo l’arresto del leader della Confederazione dei Popoli Indigeni
di Christian Peverieri
Senza appoggio popolare e isolato in parlamento, il governo del banchiere dell’Opus Dei Guillermo Lasso, sta usando l’unica arma a sua disposizione per mantenere il potere in questa crisi politica e sociale, vale a dire la violenza contro i settori più vulnerabili della popolazione. Una violenza prodotta dallo Stato ma la cui responsabilità è fatta cadere sui manifestanti in un circolo vizioso che invece di risolvere la crisi la alimenta ogni giorno di più.
L’annuncio di Iza di far convergere la protesta nella capitale Quito per mettere pressione al governo, ha suscitato la dura reazione di Lasso, con una accelerata alla repressione e alla criminalizzazione dei manifestanti. Subito dopo aver proclamato lo “stato d’eccezione”, il governo ha lanciato una “marcia per la pace”, con il chiaro intento di delegittimare la protesta dipingendola come violenta. L’operazione del governo è fallita miseramente con una presenza insignificante di partecipanti. Ma la violenza, invece, ha iniziato ad arrivare proprio contro i partecipanti al paro, a partire dal presidente della CONAIE Leonidas Iza che sabato scorso ha subito un gravissimo attentato: ignoti hanno sparato alla sua auto mentre era parcheggiata, fortunatamente il leader indigeno è uscito illeso.
Il giorno seguente, la polizia ha incredibilmente occupato la Casa de la Cultura, importante luogo di arte e di cultura della capitale che si apprestava a dare accoglienza alle carovane di manifestanti provenienti dalle altre province. Con l’ipocrita scusa di proteggere il patrimonio all’interno, oltre 400 agenti si sono insediati negli spazi della Casa de la Cultura, di fatto provocando l’evacuazione del personale: «oggi il terrore ha sconfitto la cultura. L’ultima volta che la polizia è entrata in questa istituzione è stato in dittatura. Oggi siamo in dittatura», ha dichiarato Fernando Ceron, presidente della Casa.
Allo stesso modo e nei giorni seguenti, anche altri spazi universitari, colpevoli di concedere accoglienza ai manifestanti sono stati attaccati con lacrimogeni o occupati dalle forze armate. L’intrusione dei militari nei luoghi deputati alla cultura, al sapere e allo studio, ha suscitato forti proteste per il ruolo simbolico che assume tale decisione e gli stessi istituti universitari hanno protestato con il governo emanando un comunicato congiunto: «solidarizziamo con l’Università di Cuenca, con la Escuela Politécnica Nacional e con la Universidad Politécnica Salesiana per gli oltraggi subiti recentemente e per le violazioni alla loro autonomia, e anche con tutti gli studenti che esercitano il loro legittimo diritto alla protesta pacifica e con le istituzioni che prestano aiuti umanitari in questo momento».
Nelle strade la repressione si è fatta ogni giorno più pesante, legittimata dallo “stato d’eccezione” e dal conseguente divieto di manifestare. Con un centro storico militarizzato come non mai, oltre alle università, altri punti di repressione molto dura sono state le periferie della capitale, in particolare le vie d’accesso a nord e sud, come a Guayllabamba e a Collas dove c’è stata la prima vittima nel contesto del paro, un diciottenne che partecipava alla marcia caduto in un dirupo. Il clima di tensione creato ad arte dal governo, ha fatto crescere la protesta anche in altre città. Imponenti manifestazioni si sono viste in questi giorni a Guaranda, Riobamba, Otavalo e anche a Guayaquil, tutte “accolte” dalle forze dell’ordine allo stesso modo, con lacrimogeni e repressione per disperderle e con un crescendo di violazioni dei diritti umani.
La tensione delle strade si respira sempre di più anche in Parlamento dove il presidente è attaccato sia da UNES (il partito dell’ex presidente Correa), sia da Pachakutik (il braccio politico del movimento indigeno), per il decreto 455 con cui ha emanato lo “stato d’eccezione”. Con una prova di forza e di arroganza tipica dei governi di destra, Lasso ha militarizzato l’Asamblea Nacional proprio mentre era in discussione la deroga del decreto. Decreto che è stato cancellato poche ore dopo e sostituito con un altro, il decreto numero 459, con cui tra l’altro ha ampliato lo “stato d’eccezione” ad altre province (oltre a Cotopaxi, Pichincha e Imabura anche Chimborazo, Tungurahua e Pastaza), di fatto rendendo inutile la messa in discussione del decreto precedente.
Ma è nella giornata di martedì che il governo ha dato un altro gravissimo colpo alla crisi, buttando ulteriore benzina sul fuoco: il ministro della Difesa Luis Lara ha dato un breve messaggio alla nazione attorniato dai comandanti dell’esercito in cui ha dichiarato che la democrazia ecuadoriana è in pericolo e lanciando un’accusa gravissima: secondo il governo dietro alle manifestazioni ci sarebbero la criminalità organizzata e i narcotrafficanti con cui gli organizzatori del paro sarebbero conniventi. Accuse gravissime lanciate senza uno straccio di prova che nuovamente creeranno tensione e la rabbia di chi partecipa a questa protesta per necessità e che lanciano un messaggio chiaro per i prossimi giorni: la repressione si farà ancora più dura.
Dichiarazioni che hanno esasperato ulteriormente il clima già teso: a Quito è continuata per tutta la notte la repressione nei pressi delle università, con un gravissimo saldo di manifestanti feriti e arrestati che cresce di giorno in giorno: secondo il dirigente della CONAIE oltre ci sono quasi un centinaio di feriti, alcune di gravità, almeno 79 arresti nel contesto del paro nacional e due vittime. La seconda vittima è il giovane comunero kichwa Guido Guatatoca, assassinato la notte di martedì dalla forza pubblica che lo ha colpito in pieno volto con un candelotto lacrimogeno a Puyo, nella provincia di Pastaza.
In questa situazione pare difficile una rapida uscita dalla crisi. Come detto in apertura il governo di Lasso è debole sia dentro all’Asamblea Nacional (dove ha 12 dei 137 seggi), sia a livello sociale dove, a un basso appoggio elettorale, si deve aggiungere un grado di disapprovazione del suo operato che supera l’80%. La mancata volontà a risolvere i problemi, a soddisfare alle legittime richieste di chi è più esposto alla crisi e a rispondere con l’unica arma della violenza statale non può che portare a una esasperazione del conflitto, con risultati potenzialmente drammatici per chi nelle strade ci mette il proprio corpo.
Uno spiraglio in questo senso è avvenuto sempre nella serata di martedì quando Lasso ha dichiarato di aver accettato di sedersi a un tavolo con le organizzazioni sociali che hanno promosso il paro e con la mediazione dell’ONU e dell’Unione Europea. Per tutta risposta Leonidas Iza ha chiesto al presidente delle garanzie per poter cominciare il dialogo, tra cui l’immediata deroga dello “stato d’eccezione” che tante violazioni dei diritti umani sta provocando, e la demilitarizzazione del Parque El Arbolito e della Casa de la Cultura.
È presto per dire se si sia aperta la strada per la risoluzione della crisi, di certo se Lasso continuerà con la politica repressiva, ci sarà ben poco spazio per tavoli di trattativa con le organizzazioni sociali e indigene che in questi giorni hanno paralizzato il paese e resistito alla violenza delle forze armate.
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14esimo giorno di “Paro” in Ecuador e si registra un’altra vittima della repressione a Quito, Henry Quezada ucciso da una bomba a pallettoni di gomma lanciata dalla polizia nel corso di manifestazioni di piazza presso il parco de l’Arbolito. Ieri una marcia pacifica “encabezada” da un nutrito gruppo di donne indigene è partita dalla Casa della Cultura, finalmente liberata dall’occupazione “militare” della polizia, per dirigersi verso l’Assemblea nazionale. Il corteo è stato respinto con lacrimogeni e “perdigones”.
Si registra anche uso di armi da fuoco da parte della polizia. Ieri sembrava che ci fossero le premesse per l’apertura del dialogo, sopratutto dopo la decisione di liberare la Casa della Cultura e permettere lo svolgimento del Parlamento de los Pueblos, organo sovrano per decidere sui prossimi passi della mobilitazione.
Affiorano anche diverse posizioni tra chi è in piazza, dove con molta probabilità, come anche denunciato dalla CONAIE sono presenti anche infiltrati con l’obiettivo di alzare il livello dello scontro. C’è chi chiede la destituzione del Presidente Lasso (opzione sostenuta anche da UNES, (correisti, con il loro leader l’ex-presidente Rafael Correa che al caldo del suo appartamento in Belgio accusa Leonidas Iza di essere un traditore vista la sua disponibilità al dialogo) e Partito SocialCristiano attraverso una petizione parlamentare che però non dovrebbe avere i numeri sufficienti), e chi invece oltre a riconfermare il carattere pacifico e nonviolento delle mobilitazioni (CONAIE ed altri) insiste sul negoziato sui 10 punti della piattaforma di mobilitazione.
E poi crescono le manifestazioni della borghesia e delle oligarchie cittadine, con le loro camicie bianche, che chiedono pace sociale e protestano contro le mobilitazioni.
A Cuenca sono stati denunciati casi di uso di armi da fuoco contro indigeni da parte di partecipanti alle contromanifestazioni. La colonia riaffiora nelle loro parole ed in quelle dei media, che rispolverano termini razzisti e coloniali verso i popoli indigeni.
Di fronte alla repressione violenta e l’incapacità manifesta del governo di aprire un tavolo di trattativa affidabile, crescono le voci di chi chiede una destituzione del Presidente Lasso. Circolano voci secondo le quali quest’eventualità sia caldeggiata anche da Washington, preoccupata della debolezza dell’attuale governo anche a fronte della vittoria di Gustavo Petro in Colombia,
Intanto in Amazzonia, cresce il numero di pozzi petroliferi occupati da comunità indigene, oltre 200 tra cui di recente quello del Bloque 10 di Campo Villano a suo tempo dell’AGIP ora non più presente nel paese, e che si è lasciata dietro una pesante eredità di contaminazione e impegni non rispettati verso le comunità.
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aggiornamenti 25 giugno
Le foto diffuse sulle reti sociali mostrano il corpo di un uomo steso al suolo, con il torace nudo colpito da un gran numero di quelli che sembrano pallini da caccia. Il suo nome era Henry Quezada Espinoza, 39 anni, ucciso giovedì nel parco cittadino El Arbolito, già epicentro della rivolta dell’ottobre 2019 contro il governo di Lenin Moreno.
IN QUEL PARCO i manifestanti erano giunti fuggendo dall’attacco scatenato dalla polizia contro una pacifica e partecipatissima marcia, guidata dal presidente della Conaie Leonidas Iza, verso la sede dell’Assemblea nazionale. La stampa l’ha descritta come un «assalto al parlamento», ma l’obiettivo, secondo il leader della Confederazione nazionale delle organizzazioni contadine Gary Espinoza, era quello di chiedere al presidente del parlamento Virgilio Saquicela (di tutt’altro avviso) l’attivazione del processo di destituzione del presidente Guillermo Lasso. Di punto in bianco, tuttavia, la polizia aveva iniziato a lanciare bombe lacrimogene per disperdere la folla, malgrado poco prima il generale Freddy Sarzosa si fosse rivolto ai partecipanti alla marcia riconoscendo loro il diritto di protestare in maniera pacifica.
È NEI SUCCESSIVI SCONTRI nel parco El Arbolito tra le forze di sicurezza e una parte dei manifestanti in fuga che è stato ucciso Quezada Espinoza: è la terza vittima in quattro giorni e, proprio come per le prime due, la polizia ha respinto qualsiasi responsabilità.
Del giovane morto lunedì precipitando da un burrone a Guayllabamba, in mezzo a un lancio di lacrimogeni sparati contro gli indigeni in marcia verso Quito, la polizia ha detto che si era trattato solo di un incidente estraneo all’attività delle forze di sicurezza impegnate nell’area. Del giovane indigeno ucciso martedì a Puyo da una bomba lacrimogena che lo ha raggiunto alla testa, ha detto che manipolava esplosivi.
Quanto all’ultima vittima, il ministro dell’Interno Patricio Carrillo ha assicurato che il personale della polizia non era andato in strada «con elementi come carabine, fucili a pallettoni o armi letali, ma solo gas lacrimogeno, autorizzato dalla legge». E che, dunque, Quezada Espinoza sarebbe stato ucciso da un colpo sparato da un manifestante.
Di certo la notizia della sua morte, nell’undicesimo giorno delle proteste contro il governo Lasso, è deflagrata come una bomba tra i manifestanti, allontanando bruscamente ogni prospettiva di dialogo tra le parti. Tanto più che l’Alleanza di organizzazioni per i diritti umani riferisce, oltre ai 3 morti, 49 casi di violazioni dei diritti umani, 92 feriti, 94 arresti e 4 scomparsi: un bollettino di guerra che non incoraggia di sicuro le trattative con il governo.
E al riguardo la confederazione indigena Conaie era stata assai chiara, ponendo come condizioni irrinunciabili per sedersi al tavolo dei negoziati lo stop immediato alle azioni di repressione e criminalizzazione, il ritiro dello stato d’eccezione, il rispetto delle aree in cui trovano accoglienza i manifestanti e l’impegno da parte del governo a includere nell’agenda negoziale tutte e dieci le richieste avanzate dalla Conaie, relative, tra l’altro, al vertiginoso aumento del costo della vita e dei carburanti, all’accesso a istruzione e sanità e all’ampliamento della frontiera mineraria e petrolifera. Condizioni tutte disattese dal governo, il quale si è limitato appena a concedere alla Conaie l’accesso alla Casa della Cultura per un’assemblea popolare.
È IN QUESTO QUADRO che prende sempre più forza l’obiettivo della destituzione del presidente Lasso, per quanto inizialmente estraneo alla convocazione da parte della Conaie, il 13 giugno, del paro nacional. Un segnale che non va preso alla leggera, considerando la lunga esperienza in fatto di insurrezioni popolari accumulata dal movimento indigeno, la cui partita con il potere è già costata il posto, in appena a 8 anni, a ben tre presidenti: nel 1997 Abdalá Bucaram, soprannominato el Loco («il pazzo») per il suo comportamento eccentrico; nel 2000 Jamil Mahuad, il padre della dollarizzazione; e nel 2005 Lucio Gutiérrez, il «traditore», eletto nel 2002 grazie ai voti della sinistra e degli indigeni per porre fine alle devastanti politiche neoliberiste che avevano messo in ginocchio il Paese ma subito trasformatosi nel «migliore alleato degli Stati Uniti».
È rimasto invece al suo posto, malgrado il livello infimo di consensi, il predecessore di Lasso, Lenin Moreno, un altro voltagabbana che, eletto dalle forze progressiste, aveva poi sposato in pieno il programma delle destre. Ma anche Moreno aveva dovuto far fronte, nell’ottobre del 2019, a una grande rivolta popolare, innescata da un pacchetto di misure anti-sociali sollecitato dal Fondo monetario internazionale che prevedeva, tra l’altro, l’eliminazione dei sussidi statali ai combustibili.