Sale da più parti la richiesta di una pace con giustizia per l’Ecuador. Ma è una richiesta a cui non sembra affatto rispondere l’invito al dialogo rivolto al movimento indigeno dal presidente Lenin Moreno.
La Conaie, la Confederazione delle nazionalità indigene, lo ha riassunto in maniera assai netta: l’appello al negoziato di Moreno «si fonda su uno dei peggiori massacri della storia del paese». L’appello, in effetti, è stato percepito quasi come una presa in giro dai manifestanti che venerdì, nel nono giorno delle proteste contro il pacchetto di misure neoliberiste imposto dal governo, hanno sofferto di nuovo la brutale repressione delle forze di sicurezza.
Inutili gli inviti alla calma rivolti dalla Conaie: la polizia ha risposto lanciando una pioggia di proiettili di gomma e di gas lacrimogeni contro la folla che avanzava pacificamente verso l’Assemblea nazionale. E lo stesso copione si è ripetuto nelle vicinanze della Casa della cultura, dove il movimento indigeno aveva tenuto le sue assemblee e celebrato la memoria delle 5 vittime ufficiali delle proteste (ma i morti potrebbero essere addirittura 30).
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Un’aggressione ancora più gratuita in quanto seguita a quella che era apparsa a tutti come una tregua, quando i manifestanti erano riusciti a dialogare con i poliziotti e persino a scambiare con loro del cibo.
E mentre medici e infermieri correvano da ogni parte per soccorrere le persone svenute, ferite o sul punto di soffocare, il presidente Moreno diffondeva sulla rete nazionale la sua proposta di dialogo al movimento indigeno, invitandolo, tra l’altro, a discutere la destinazione delle risorse liberate dall’eliminazione dei sussidi statali ai combustibili.
Ma la Conaie, per la quale la proposta è illegittima proprio perché accompagnata da una violenza spropositata, resta ferma sulle sue condizioni: il ritiro del paquetazo anti-sociale, la revoca del decreto che stabilisce lo stato d’emergenza in tutto il paese, le dimissioni della ministra dell’Interno Maria Paula Romo e del ministro della Difesa Oswaldo Jarrín e l’assunzione da parte del governo della responsabilità delle vittime della protesta. E intanto il movimento indigeno annuncia che el paro no para, che lo sciopero a tempo indeterminato proclamato il 9 ottobre non si fermerà, ma anzi andrà avanti in maniera ancor più radicale.
E per un organismo che in fatto di insurrezioni popolari vanta già una lunga esperienza – avendo costretto alla rinuncia, dal 1997 al 2005, ben tre presidenti (Abdalá Bucaram, Jamil Mahuad e Lucio Gutiérrez) – non è un avvertimento da prendere alla leggera.
Sulla crisi ecuadoriana interviene anche il governo degli Usa, per sostenere – ma non c’era nulla di più scontato – le «necessarie misure» applicate dal presidente Moreno. «Riconosciamo le difficili decisioni che il governo dell’Ecuador ha adottato per avanzare sulla via di una buona governance e per promuovere una crescita economica sostenibile», ha dichiarato il segretario di stato Mike Pompeo.
Claudia Fanti
da il manifesto