Mentre osservavo sulla rete i filmati sul terribile sgombero del palazzo ex Telecom di Bologna, ho pensato alla campagna mediatica di mesi fa contro gli occupanti di case. Su tutti i principali mass media dilagavano interviste a miti vecchiette che manifestavano il terrore di vedersi buttar fuori dal proprio appartamento. Non a causa dello sfratto esecutivo da parte della proprietà, ma per colpa dell’occupazione da parte di centri sociali e migranti, separati o assieme. Si dipanavano le inchieste, si fa per dire, giornalistiche per spiegare che nella grandi città c’era il racket delle occupazioni di case, che la malavita gestiva le lotte sociali.
Così come era esplosa, quella campagna si inabissò improvvisamente nei bassifondi da cui era emersa sulla spinta della grande rendita edilizia. Essa serviva semplicemente a preparare il terreno a quello che effettivamente poi è avvenuto e sta avvenendo. Migliaia di persone che non davano fastidio a nessuno se non alla speculazione edilizia hanno perso la casa, e non perché altri gliel’avevano occupata, ma perché un tribunale e la polizia li avevano sbattuti in mezzo ad una strada. Gli sfratti dei poveri e dei disoccupati sono diventati la prima misura pratica dell’austerità, è così in tutta Europa. In Spagna sono anche più avanti, centinaia di migliaia di persone han perso la casa perché han perso il lavoro e non possono più pagare affitti o mutui. Ora tocca a noi.
Torna il diritto di proprietà nella sua forma più infame e brutale, quello raccontato da Dickens nell’Inghilterra dell’800, quel diritto che cancella tutti gli altri e che pone le persone al di sotto delle merci. Il diritto di proprietà oggi reclama per sé potere assoluto come i sovrani prima della rivoluzione francese.
Il palazzo ex Telecom era stato risanato dalle famiglie occupanti, che ci vivevano nel decoro con i loro bambini, che frequentavano regolarmente la scuola. Ma un fondo privato proprietario dell’immobile ne reclamava da tempo la piena disponibilità per i suoi spregevoli affari. Un tribunale ligio al potere dei ricchi ha incaricato così la polizia di procedere. Così abbiamo visto scatenarsi, contro famiglie e bambini, una ferocia che una volta avremmo detto da terzo mondo, ma che ora è parte della nostra società. Perché non si può sbattere in strada i poveri senza essere feroci. Se ci si commuove, se si sente il richiamo della umana solidarietà o anche solo della pietà, certe cose non si possono fare e magari le persone rimangono lì dove non dovrebbero stare.
Così ho capito che la campagna mediatica contro gli occupanti di case non aveva solo lo scopo di creare consenso verso gli interessi fondiari. Essa faceva parte di un messaggio più profondo e diffuso, l’educazione alla ferocia.
Da trenta anni le nostre società occidentali stanno distruggendo diritti sociali nel nome della produttività e della competitività. Ogni giorno la società viene presentata come una giungla ove vincono i più forti e i più deboli perdono per colpa loro. L’idea stessa dell’eguaglianza sociale viene messa all’indice delle utopie dannose. E con la crisi economica questa ideologia si è radicalizzata. Compito dei più forti non è tanto vincere, ma semplicemente sopravvivere. Non c’è lavoro per tutti, scuola per tutti, stato sociale per tutti, casa per tutti. Non c’è posto per tutti non lo urlano solo razzisti e fascisti, lo proclamano con le loro politiche economiche tutti i governi dell’austerità.
Così l’ideologia della competitività diventa giustificazione dello scarto. Lo scarto degli esseri umani comincia nelle guerre promosse e alimentate in paesi lontani e poi continua con i fili spinati e i campi di concentramento per i rifugiati di quelle guerre. E poi prosegue nelle città, togliendo il diritto ad abitare a lavorare a vivere.
Non è semplice scartare le persone se queste sono come noi, soprattutto se le sentiamo come noi. Bisogna sentire altro da noi chi vogliamo abbandonare al suo destino. Per questo bisogna educare alla ferocia alimentandola con il razzismo verso i poveri. Poveri, migranti, disoccupati, criminali devono essere accostati e collegati nell’immaginario collettivo, in modo che sia possibile non giudicare atto indegno dell’umanità lo strappare con la forza un bambino dal luogo dove vive e riceve gli affetti. I bambini ci guardano ma guai a noi se li guardiamo a nostra volta. Potremmo non essere più feroci come ci viene richiesto. Così nessun telegiornale ha trasmesso le immagini che ho visto in rete dei bambini trascinati via in lacrime da casa loro.
A Bologna non c’è stato semplicemente un sgombero, c’è stato un pogrom di stato che ha ancora alzato l’asticella della ferocia sociale. Proprio in quella città dove in un passato sempre più lontano il movimento operaio aveva costruito eguaglianza e libertà, proprio lì si è voluto dare dimostrazione del mondo nuovo dello scarto. E lo si è fatto nel nome del rispetto della legalità, paravento dietro il quale si sono spesso nascoste e tutelate le maggiori infamie. Ribellarsi contro questa legalità che impone l’ingiustizia e educa alla ferocia non solo è necessario, ma è il solo modo di restare umani.
Giorgio Cremaschi da contropiano