Il Nilo cinge il quartiere del Manial come un abbraccio che addolcisce il traffico e il suono continuo dei clacson. È in questo distretto del Cairo che incontro Mahienour el-Masry. È una avvocata per i diritti umani ed è stata rilasciata lo scorso luglio dopo 21 mesi di carcere spesi nel penitenziario di Qanater.
Il suo arresto era avvenuto nel novembre del 2019 senza mandato: tre uomini in borghese dell’Agenzia per la sicurezza nazionale l’avevano portata via dal tribunale del quinto insediamento del Cairo, dove difendeva alcuni attivisti locali. Quello che la coraggiosa legale egiziana ha vissuto – prelievi improvvisi, interrogatori e accuse fantasiose notificate una volta dietro le sbarre – è lo stesso copione kafkiano che abbiamo imparato a conoscere bene con il caso di Patrick Zaki, il ricercatore arrestato il 7 febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo mentre rientrava da Bologna.
Ma a differenza di quanto accaduto finora a Patrick, il nome di Mahienour è stato più avanti inserito in un altro fascicolo (il numero 855 del 2020) con l’accusa di “prendere parte a una organizzazione terroristica”, prima di rientrare nell’amnistia decisa dal presidente Abdel Fattah al Sisi per sei detenuti di coscienza in occasione della festività musulmana dell’Eid al-Adha.
Udienze sospese
Dopo il suo rilascio Mahienour ha ripreso ad andare in tribunale e per incontrarla devo aspettare sino alle 7 del pomeriggio, quando le udienze sono ormai terminate. Dobbiamo vederci a casa di un suo amico. È un posto sicuro. Invece la vedo sul marciapiede. Le chiavi non funzionano e dobbiamo cercare un’altra abitazione.
Ci spostiamo con un Uber in un quartiere vicino. La osservo e mi rendo conto che è una donna minuta, magrissima. Eppure per quello che ha passato ha una tempra di acciaio. Fa parte dei socialisti rivoluzionari ed è stata un nome di spicco della rivoluzione di piazza Tahrir. Da sette anni entra ed esce dalle carceri egiziane e nel 2014 ha vinto – seconda persona a riceverlo da detenuta dopo Nelson Mandela – il Ludovic Trarieux Award.
“Appena si è diffuso il Covid“, ricorda Mahienour, “ho iniziato uno sciopero della fame perché non avevamo tamponi né mascherine e il sovraffollamento era palese. In più le udienze erano state sospese e non sapevamo nulla della nostra detenzione preventiva. Lo sciopero si è allargato anche ad altri penitenziari, ma mi sono fermata quando un’altra attivista di 70 anni ha detto che si sarebbe unita alla mia protesta: non potevo metterla a rischio“. Quando le chiedo cosa significhi per lei muoversi all’interno di questo sistema repressivo mi risponde con un aneddoto. “Ero alla corte di Alessandria per il rinnovo della mia custodia cautelare e dietro di me c’era un altro imputato che era un mio assistito. Quando mi ha visto mi ha chiamato disperato, non sapeva chi lo avrebbe difeso. Io l’ho rassicurato, gli ho detto che se ne sarebbe occupato un mio collega, Ahmed Ramadan. Ecco, funziona così. Lo avevo affidato a Ramadan. Ora io sono libera e Ramadan e in carcere“.
Torture
Da quando il presidente Abdel Fattah al Sisi ha preso il potere con un colpo di stato nel 2013, vicende come quella di Mahienour si sono moltiplicate. Ogni anno, ogni mese che passa, la situazione per i diritti umani nel paese peggiora. L’Egitto è diventato una prigione a cielo aperto, dicono gli studiosi e gli attivisti per i diritti umani. E i numeri lo confermano: 60mila detenuti di coscienza (ma c’è chi ne conta 80mila), sparizioni forzate, siti internet bloccati e testate giornalistiche censurate.
E poi, l’apparato giudiziario che tiene i cittadini egiziani in detenzione preventiva con il sistema chiamato tadweer, il riciclo dei casi, che consiste nell’aprire nuove inchieste per prolungare la custodia cautelare oltre il limite consentito dei due anni. E poi ci sono le torture, endemiche, inflitte a chiunque durante gli interrogatori e in carcere. Mohammed (il nome è di fantasia per proteggere la sua identità) ha trascorso un anno all’estero prima di rientrare al Cairo. Quel giorno lo ha fatto passando dal Terminal 3 dell’aeroporto della capitale, lo stesso dove è scomparso Zaki quando rientrava da Bologna.
“Sono stato fermato dagli uomini dell’agenzia della sicurezza nazionale”, racconta. “Hanno chiamato un loro superiore e io potevo ascoltare la conversazione: gli agenti gli dicevano che ero tornato, lui ha risposto che al momento era in vacanza e si sarebbe occupato di me più avanti“. Accolto da queste parole poco rassicuranti Mohammed, attivista di lungo corso e rappresentante di un centro che si occupa di diritti umani, è tornato a vivere al Cairo. Lo incontro in un quartiere a 45 minuti dal centro della capitale. Per la nostra chiacchierata ha scelto un caffè poco affollato in un centro commerciale, in un’area costellata di compound e palazzi con le vetrate che imitano lo stile dei paesi del Golfo. Una zona, anche se ormai costruita da anni, che è l’esempio di come si stia plasmando la città. Mohammed è felice. Nonostante le norme per il Covid-19 ha trovato un posto che prepara la shisha.
Fumare la pipa ad acqua, violando le norme Covid, resta comunque la cosa meno pericolosa della sua giornata. “La mia vita va avanti, io continuo a lavorare con la mia organizzazione e sto attento a qualsiasi cosa. Metto i telefoni in modalità aereo quando parlo di cose sensibili, ne ho più di uno, e penso sempre a dove lasciare la macchina quando ho un incontro”. Vivere da ricercato pur non essendolo. Perché per varcare quella linea rossa, per chi si occupa di diritti umani, è sufficiente esistere e continuare a vivere in Egitto. “L’ultima volta che sono stato in carcere è stata la più lunga e anche la più dolorosa. Quella che ha devastato la mia vita“, spiega. “Il giorno che mi hanno arrestato non sono scomparso solo perché c’erano i miei genitori”.
Restare nonostante tutto
Lascio le paure di Mohammed, che mi garantisce di voler restare nel paese e monitorare il nuovo piano di al Sisi per i diritti umani, e mi imbatto nella franchezza di Esraa abdel Fattah. “Se mi dicono che sono coinvolta in un altro caso e mi stanno per rimettere in prigione? Non mi interessa più. Io resto qui, l’Egitto è casa mia”, assicura con piglio.
Esraa ha 43 anni e tutti la conoscono come Facebook girl. Nel 2008 fondò la pagina “6 aprile” dopo le proteste degli operai di Mahalla. La stessa pagina che tre anni dopo svolse un ruolo centrale nell’organizzare le proteste di piazza Tahrir. Anche lei, giornalista e attivista, è stata incriminata negli stessi due procedimenti a carico di Mahienour el-Masry ed è stata rilasciata a luglio. Dice che non le importa del carcere, nonostante abbia subìto maltrattamenti, torture fisiche e psicologiche. Nonostante un’altra reporter incriminata con lei, Solafa Magdi (che dopo il rilascio ha lasciato l’Egitto) abbia subito anche violenze sessuali da parte degli agenti.
“Le accuse a mio carico sono senza fondamento, non c’è alcuna prova contro di me. Neanche un articolo come invece è accaduto a Patrick Zaki“, attacca. “Mentre ero in carcere hanno aggiunto il mio nome a un altro fascicolo d’accusa. Ma ero reclusa sotto il loro controllo, come avrei mai potuto commettere il reato che mi attribuiscono? In carcere non ho incontrato nessuna delle persone che sono nel caso con me. Stavo in un altro padiglione e non ci siamo mai potuti incontrare perché avevamo l’ora d’aria a orari alternati. Tutto questo che ti ho detto mi sembra sufficiente per spiegare l’assurdità della mia situazione“. Anche il marito di Esraa è in carcere. “Per il momento ho deciso di non lavorare”, continua lei. “Sto cercando di ricostruire la mia vita ma questo lo potrò fare solo quando mio marito verrà rilasciato. Vorrei andare all’estero per studiare, frequentare un master, e tornare più preparata di prima. Perché qualcuno qui, a raccontare il paese, deve restare. E io lo farò“.
Laura Cappon
da: Il Domani