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Egitto: Il “caso Hamdi” finire nelle prigioni del regime per una… vignetta

Il vignettista e illustratore Ashraf Hamdi prelevato dalla polizia aveva ricordato le vittime della primavera araba del 2011. Sulla sua testa pende lo stesso capo di imputazione di Patrick Zaky

Egitto vignetta Ashraf Hamdi

«Mi arrestano». Lunedì scorso Ashraf Hamdi ha fatto appena in tempo a scrivere un ultimo messaggio sulla sua pagina Facebook, da allora se ne sono perse le tracce. Nelle mani delle forze di sicurezza egiziane è così finito il vignettista e illustratore molto noto in Egitto per la sua attività di “creativo”, oltre a quella di dentista, che viaggia in rete attraverso il canale Youtube, Egiptoon. Un account seguito da ben tre milioni di persone che hanno condiviso il suo appello disperato rendendo nota all’opinione pubblica internazionale la sua scomparsa.

E proprio un video avrebbe messo nel mirino della polizia Hamdi, poco prima dell’arresto infatti aveva realizzato e pubblicato un lavoro in memoria di quelli che vengono ormai chiamati gli “eroi” di Mohamed Mahmoud street. Un luogo simbolo del Cairo dove durante gli scontri del 2011, che portarono alla caduta di Hosni Mubarak, furono uccisi dalla polizia decine di manifestanti.

Il video è arrivato nell’anniversario della rivoluzione che così tante speranze aveva suscitato nella popolazione egiziana, ma a 10 anni da quel tanto agognato cambiamento la repressione non sembra aver cambiato segno. Il 25 gennaio è anche il giorno in cui si celebra la festa della Polizia nazionale e forse il tributo di Hamdi è stato visto come una provocazione, tanto potrebbe essere bastato per farlo scomparire in qualche commissariato del Cairo.

Non a caso il direttore della rete araba per l’informazione sui diritti umani, Gamal Eid, dopo aver ha chiesto la liberazione immediata di Hamdi, ha rilasciato una dichiarazione nella quale si esprime la speranza che «il pubblico ministero si affretti a fermare questo crimine» ma che «l’ arresto nell’anniversario della rivoluzione egiziana contro le pratiche di polizia indica chiaramente che il loro operato non è cambiato e che un tale approccio è una caratteristica intrinseca dell’apparato di polizia in Egitto. Quindi il pubblico ministero agirà e assumerà il suo ruolo nella protezione della legge e delle libertà dei cittadini?».

Secondo le fonti raccolte dai difensori dei diritti umani, Hamdi sarebbe imputato dei reati di «abuso di siti e social media e diffusione di notizie false». Praticamente le medesime accuse delle quali è stato vittima Patrick Zacky, il ricercatore che si trova ancora in carcere e sulla cui sorte vige ancora una grande incertezza nonostante la campagna internazionale per la sua liberazione.

Appare chiaro come ad essere perseguite sono le opinioni e qualsiasi atteggiamento critico nei confronti del regime del generale al- Sisi. Quest’ultimo proprio lunedì scorso ha tenuto un discorso annuale presso l’accademia di polizia del Cairo e ha fatto anche un breve riferimento alla rivolta.

«La giornata di oggi coincide con la celebrazione egiziana della rivoluzione del 25 gennaio, una rivoluzione guidata da giovani sinceri, che aspirano a un futuro e una realtà migliori», ha detto Sisi.

Parole mai così stonate visto quello che sta succedendo che, se possibile, sembrano ancora più inopportune quando rivolgendosi ai giovani d’Egitto ha affermato che la nazione «sta guardando alle vostre armi giovanili e ai vostri sforzi sinceri per completare il percorso di riforma, costruzione e sviluppo».

In realtà il potere del generale si basa proprio sull’eliminazione di ogni opposizione politica, a partire dal 2013 quando rovesciò il governo guidato dai Fratelli Musulmani, e imprigionò il presidente Mohamed Morsi. Da allora le voci libere sono state silenziate in ogni modo comprese quelle dei media.

Sulla scomparsa di Hamdi infatti è intervenuta anche Sabrina Bennoui, capo dell’ufficio del Medio Oriente di Reporters sans frontiere: «I giornalisti non possono più dire quello che pensano e non hanno altra scelta che ripetere la linea ufficiale o rischiare di essere incarcerati per aver minacciato la stabilità dello stato».

Affermazioni che si basano su dati di fatto, per Rsf dal 2014 sono già più gli 100 operatori dell’informazione che a vario titolo sono stati sottoposti ad arresti arbitrari o incarcerazioni.

Ora la preoccupazione maggiore è sapere dove si trova Hamdi, il pericolo è che sia finito in qualche prigione egiziana dove le condizione dei detenuti politici sono drammatiche. Amnesty International ha recentemente pubblicato un rapporto dove viene chiaramente testimoniato che il sovraffollamento è la regola.

Le persone detenute sono almeno il doppio del numero limite ( secondo l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il sistema carcerario egiziano contiene almeno il doppio dei 55mila detenuti dichiarati), spesso agli internati per “reati di coscienza” è negata l’assistenza sanitaria e si rischia di morire perché vengono negate cure basilari.

Per Hussein Baoumi di Amnesty «c’è la sensazione che all’interno delle carceri, le guardie e soprattutto l’agenzia di sicurezza nazionale stiano cercando di schiacciare la rivoluzione prendendo di mira questi individui, minando il loro diritto alla salute e alla dignità».

L’organizzazione per i diritti umani ha elencato prove su vere e proprie rappresaglie contro i prigionieri politici, come l’isolamento fino a 23 ore al giorno, il rifiuto alle visite dei familiari e dell’accesso ai pacchi alimentari consegnati dai parenti. In particolare ha monitorato la condizione di 67 detenuti in 16 carceri in tutto il paese; 10 di questi sono morti in custodia e 2 sono morti poco dopo il rilascio.

Molte delle figure più rappresentative protagoniste della fine del regime trentennale di Mubarak languiscono dietro le sbarre, in cella non soltanto politici islamisti ma anche avvocati per i diritti umani e cittadini comuni arrestati più o meno sempre con la stessa accusa: «diffusione di notizie false» per rovesciare Sisi.

Una situazione tale da far scomodare anche l’Onu, la relatrice speciale per i diritti umani, Mary Lawlor, ha descritto chiaramente gli attacchi contro attivisti e blogger come Hamdi «ingiustamente accusati di appartenere a organizzazioni terroristiche e descritti come una minaccia alla sicurezza nazionale in base a vaghe disposizioni legali».

Eppure le autorità continuano a ripetere che in Egitto non esistono prigionieri politici, un’evidente falsità che però persiste perché, nonostante il lavoro delle organizzazioni, non è facile quantificarne il numero. Lo ha spiegato Baoumi: «È chiaro che sono decine di migliaia, con casi politici divisi tra quelli processati dalla procura suprema per la sicurezza dello Stato, le migliaia in custodia cautelare e quelli ripetutamente condannati in più casi».

Alessandro Fioroni

da il dubbio