Sono almeno 22 le persone fermate dalla polizia nella giornata di venerdì al Cairo per le proteste contro l’aumento improvviso del costo dei biglietti della metropolitana. Alcuni disordini sono scoppiati spontaneamente in diverse stazioni metro della capitale egiziana in seguito all’annuncio di un incremento del 350% del prezzo dei biglietti.
Molti pendolari hanno iniziato a scavalcare i tornelli e a urlare slogan contro i rincari, in alcuni casi bloccando i binari e scatenando la reazione della polizia.
Il regime, recitando il solito copione, accusa i Fratelli Musulmani di aver istigato le proteste, in realtà segnale di un diffuso malessere sociale. Il governo dichiara che gli aumenti serviranno a migliorare il servizio e compensare le perdite della società dei trasporti.
Ma è evidente il nesso tra questa decisione e le misure di austerità che dal 2016 il regime sta portando avanti per poter accedere ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale, che hanno già causato un’inflazione oltre il 30% e una gravissima perdita di potere d’acquisto per classi lavoratrici e il ceto medio. Gli aumenti arrivano proprio a pochi giorni dall’inizio del mese di Ramadan, un periodo dell’anno in cui le famiglie hanno più spese da sostenere.
Secondo un’attivista locale, che ha commentato la notizia sul suo profilo Facebook, il regime ha già in programma altri tagli sostanziosi ai sussidi sui carburanti, che entreranno in vigore subito dopo la fine del mese sacro per i musulmani. Il movimento dei Socialisti Rivoluzionari denuncia che con le nuove tariffe il costo mensile per i pendolari sarà l’equivalente di un quarto del salario minimo, un’assurdità per un paese in cui il 30% della popolazione vive ormai al di sotto della soglia di povertà.
Intanto, secondo l’Egyptian Center for Economic and Social Rights, attualmente 10 persone (sette uomini e tre donne) sarebbero ancora detenute per le proteste di venerdì. Rischiano condanne fino ai 5 anni con le accuse di assembramento, manifestazione e interruzione di pubblico servizio.
La legge che proibisce le proteste, emanata nel novembre 2013, in tre anni ha portato in carcere circa 10.400 persone. Lo rivela una dettagliatissima inchiesta pubblicata in questi giorni sul portale indipendente Mada Masr, «Prigionieri per sempre», che si concentra sull’uso della custodia cautelare come misura punitiva per gli oppositori politici. La detenzione preventiva per gli imputati in attesa di processo è infatti diventata negli ultimi anni una prassi consolidata, che colpisce soprattutto gli islamisti, ma anche attivisti laici e di sinistra, giornalisti e ricercatori.
In mancanza di dati ufficiali, l’inchiesta getta luce su un fenomeno che solo recentemente ha iniziato ad emergere nella sua ampiezza. Da misura preventiva la custodia cautelare è diventata un modo per prolungare a oltranza la detenzione dei prigionieri politici, senza alcuna possibilità di appello contro i continui rinnovi del provvedimento.
Il caso tristemente più noto è quello di Shawkan, il giovane fotoreporter in carcere da cinque anni la cui udienza è stata rimandata più di 60 volte. In migliaia di casi nel periodo monitorato la detenzione supera gli stessi limiti stabiliti per legge. Più il processo è politico, più le decisioni finiscono per essere arbitrarie e a discrezione del giudice, è il commento degli autori.
E dietro le sbarre la vita per i prigionieri politici è un inferno. È di una settimana fa la denuncia del centro Nadeem per le vittime di tortura per le condizioni del leader islamista moderato Abdel Moneim Aboul Futuh. Arrestato a febbraio durante la campagna per le presidenziali, il 67enne a capo del partito Egitto Forte, detenuto nel famigerato carcere di Tora, ha avuto quattro attacchi cardiaci in meno di tre mesi.
Nonostante le gravi condizioni di salute, i giudici rifiutano il trasferimento in ospedale e l’anziano oppositore continua a essere mantenuto in isolamento in «condizioni disumane». La negligenza medica intenzionale «equivale ad una lenta condanna a morte», una «tortura indiretta» secondo Nadeem, che ha censito 59 casi simili nei primi tre mesi del 2018.
Pino Dragoni da il manifesto
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Oggi la Procura di Roma al Cairo, la madre di Giulio in sciopero della fame
Il team del procuratore Pignatone lavorerà al recupero delle immagini delle telecamere di sorveglianza della stazione della metro di Dokki, dove il giovane scomparve. L’attivista Amal Fathy resta in prigione: la protesta della famiglia del ricercatore
Ci vorranno alcuni giorni ma il processo pare iniziato: partono oggi le operazioni di recupero, attese da due anni e tre mesi, delle immagini delle telecamere di sorveglianza della metropolitana del Cairo, fermata Dokki. È qui, il 25 gennaio 2016, quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, che Giulio Regeni scomparve. Fu ritrovato, il corpo straziato da giorni di atroci torture, il 3 febbraio lungo l’autostrada Il Cairo-Alessandria.
Il team della Procura di Roma, guidato dal pm Colaiocco, è al Cairo: insieme agli investigatori egiziani si metterà al lavoro su uno degli elementi più attesi. I video sovrascritti delle telecamere di Dokki sono stati sempre negati dal regime egiziano, parte di una più ampia operazione di insabbiamento. Prima adducendo una presunta violazione della Costituzione egiziana in materia di privacy, poi promettendo di consegnarli con irritante frequenza per non farlo mai. Ora una compagnia specializzata russa inizia il lavoro
Una volta recuperato, una copia del materiale sarà consegnato alla Procura di Roma. Lo stallo si è interrotto una settimana fa con il via libera del procuratore generale Sadek alla visita del team del procuratore Pignatone. Ci sono voluti quasi due anni e mezzo per ottenere materiale probatorio fondamentale: in quelle immagini potrebbero essere stati catturati gli ultimi istanti da uomo libero di Giulio e le identità dei responsabili della sua cattura, sempre che in questi anni non siano stati manomessi.
Non solo: il team romano potrebbe procedere a nuovi interrogatori dei nove agenti, tra poliziotti e funzionari dei servizi, sospettati di aver preso parte all’omicidio di Giulio.
Resta la responsabilità politica del regime, al di là dei responsabili materiali. E per questa non servono indagini, ma una presa di posizione del governo italiano. Soprattutto alla luce di quanto accaduto quattro giorni fa: l’ennesimo arresto per ragioni politiche, stavolta strettamente connesso al caso di Giulio. Amal Fathy, attivista egiziana e moglie di Mohammed Lofty, consulente della famiglia Regeni e direttore dell’Ecrf, è stata arrestata venerdì.
L’accusa ufficiale è aver denunciato in un video le violenze subite dalle donne in carcere. Per la famiglia di Giulio, il suo arresto è una punizione per l’attività del marito. In ogni caso, l’abuso è palese.
Da ieri la madre di Giulio, Paola Deffendi, è in sciopero della fame che protrarrà fino alla scarcerazione di Amal (in arabo «speranza»). A lei si alterneranno la legale Ballerini e altri esponenti politici (tra loro Laura Boldrini e Monica Cirinnà) e della società civile: «Da donne siamo particolarmente turbate per il protrarsi della detenzione di Amal – spiegano Deffendi e Ballerini – Vi chiediamo di digiunare con noi fino a quando Amal non sarà libera». Sono stati rilasciati il marito e il bimbo di tre anni di Amal, che venerdì erano stati portati via con lei.
I timori sono fondati: per l’accusa di insulto alle istituzioni egiziane, di cui è accusata Fathy, si rischia l’ergastolo e la pena di morte, spiega Amnesty International.
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Ballerini, avvocata dei Regeni: dal Cairo attacco a noi difensori
Arrivano oggi, le autorità giudiziarie italiane. Arrivano al Cairo, per una “visita” programmata da più di una settimana, da quando cioè il procuratore generale egiziano Nabeel Sadek ha assicurato al capo dei pm di Roma Giuseppe Pignatone che avrebbe messo a disposizione le riprese effettuate dalle telecamere a circuito chiuso nella Capitale egiziana in cui compare Giulio Regeni, le ultime immagini del ricercatore italiano trovato torturato e ucciso il 3 febbraio 2016. Una svolta alle indagini, le sole da cui la famiglia di Giulio possa aspettarsi la verità, ossia quelle condotte dalla Procura della Capitale italiana.
Ebbene, poche ore prima che il sostituto di Pignatone Sergio Colaiocco si imbarcasse per il Paese nordafricano, si è messo in moto quello che con amaro sarcasmo potremmo definire il protocollo di benvenuto: nella notte tra giovedì e venerdì è stato arrestato uno dei consulenti legali egiziani dei familiari di Giulio, Mohamned Lofty. Hanno liberato lui ma trattenuto sua moglie, finita in isolamento. Un atto a cui hanno risposto Paola Regeni, la madre di Giulio, e Alessandra Bal- lerini, avvocata della famiglia del ricercatore e a sua volta protagonista dell’ostinata ricerca della verità messa in atto in questi due anni: «Abbiamo appena iniziato un digiuno a staffetta per chiedere l’immediata liberazione di Amal Fathy, moglie del nostro consulente legale al Cairo Mohamed Lofty», spiega Ballerini. «Mohamed è il direttore della Commissione per la libertà e i diritti umani attiva presso la capitale egiziana. Come donne, siamo particolarmente turbate e inquiete per il protrarsi della detenzione di Amal. Nessuno deve più pagare per la nostra legittima richiesta di verità. E per questo chiediamo di digiunare con noi finché Amal non tornerà libera».
A raccogliere per prima l’appello è stata la senatrice del Pd Monica Cirinnà: «Aderisco con indignata passione», ha detto. Alcuni giorni fa il ministro degli Esteri italiano tuttora in carica, Angelino Alfano, aveva salutato con entusiasmo la disponibilità del procuratore egiziano a far acquisire le immagini di Giulio. Quarantott’ore dopo è arrivato l’arresto di Fathy e della sua famiglia. «Nella notte tra giovedì e venerdì scorsi le forze di sicurezza della National security hanno fatto irruzione in casa di Mohamed», racconta ancora l’avvocato Ballerini, «hanno prelevato lui, Amal e il loro bimbo di tre anni. Mohamed collabora con noi dal 2016, è grazie alla sua associazione se a dicembre siamo riusciti a ottenere copia del fascicolo aperto dalla magistratura egiziana. Ebbene», spiega Ballerini, «giovedì pomeriggio io e Mohamed avevamo avuto una lunga conferenza telefonica per aggiornarci sugli ultimi sviluppi, poi fino a tarda sera ci siamo scambiati in chat informazioni riservate. Poche ore dopo, gli agenti hanno fatto irruzione a casa Lofty. Hanno perquisito tutto, sequestrato il telefono in cui sono conservate tutte le conservazioni intercorse con me, hanno impedito a Mohamed di effettuare altre chiamate e lo hanno arrestato con moglie e figlioletto». Lofty è stato rilasciato poche ore dopo insieme con il piccolo, in virtù della doppia cittadinanza svizzera– egiziana, e della mobilitazione immediata dell’ambasciata svizzera al Cairo.
Un tempismo a cui sarebbe doveroso corrispondesse la mobilitazione delle più alte rappresentanze istituzionali italiane, presidenza della Repubblica compresa. Ballerini intanto è in ansia, insieme con Paola Regeni, perché appunto la moglie di Lofty, Amal, è tuttora in arresto. «L’hanno tenuta in isolamento, con l’accusa di aver diffuso notizie false sui social e aver attentato alla sicurezza dello Stato, reato che in Egitto è punito con l’ergastolo o la pena di morte. L’arresto», nota l’avvocata della famiglia Regeni, «fa seguito a una campagna mediatica diffamatoria messa in atto dai media governativi contro Amal, suo marito Mohamed e la loro Commissione per i diritti umani, accusata di essere un’organizzazione che attenterebbe, appunto, alla sicurezza del Paese. Si tratta di un gravissimo ed evidente attacco a tutti noi difensori della famiglia Regeni, portato proprio all’indomani della consegna della traduzione del fascicolo da parte della Procura» e, come ricordato, «a poche ore dal viaggio al Cairo del procuratore Colaiocco. Ecco perché», ripete Ballerini, «abbiamo iniziato il digiuno, che non interromperemo finché Amal non sarà liberata».
Errico Novi da il dubbio
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Egitto e Regeni: si alza la solita voce nel solito silenzio
La voce esile, ma quanto mai ferma, di Paola Regeni si è fatta sentire con forza in queste ore, ed era vibrante di uno sdegno controllato. Tanto più perché, questa volta, quella voce non si alzava per una vicenda così intima e, allo stesso tempo, così universale come la tortura e l’assassinio del figlio, ma al fine di salvare la vita di un’altra donna. E, insieme alla sua, si è udita la voce di Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, e di tante altre buone cause.
Oggi in gioco c’è la vita di Amal Fathy, arrestata qualche giorno fa in Egitto con suo marito, Mohamed Lofty, direttore esecutivo dell’Ecrf (Commissione per la libertà e i diritti umani) e consulente legale dei Regeni, e il figlio di tre anni.
L’uomo e il bambino sono stati rilasciati immediatamente perché in possesso di doppia cittadinanza, Amal Fathy è invece ancora in stato di arresto. L’accusa è quella di aver postato sulla propria pagina facebook un video contro le violenze che subiscono le donne che si trovano in custodia delle forze di sicurezza egiziane, e la sorte che può attenderla è l’ergastolo, o la pena di morte.
Ancora una volta, in Egitto, il solo motivo che conduce in carcere è la denuncia – pacifica e garantita dal diritto alla libera espressione sancito dalla stessa costituzione – di una grave violazione nella sfera dei diritti fondamentali, come sono gli abusi sessuali. Ancora una volta, le autorità del Cairo si rendono responsabili di un’azione liberticida, puntualmente rappresentativa di quell’esercizio quotidiano del dispotismo che connota il regime di Al-Sisi.
Ancora una volta, nel silenzio pressoché perfetto delle istituzioni e delle forze politiche europee, l’unica azione pubblica sembra essere quella dei familiari di Giulio Regeni, e del loro avvocato, che delle pratiche criminali degli apparati statuali egiziani hanno fatto così dolorosa esperienza.
Familiari e legale che da ieri hanno iniziato un digiuno a staffetta per chiedere la liberazione di Amal: «Nessuno deve più pagare per la nostra legittima richiesta di verità sulla scomparsa, le torture e l’uccisione di Giulio. Vi chiediamo di digiunare con noi, fino a quando Amal non sarà finalmente libera. Noi siamo la loro speranza».
Per partecipare, scrivere il proprio nome e il giorno in cui si intenda digiunare qui: https://www.facebook.com/giuliosiamonoi/.
da il manifesto