La dura repressione, a Torino, delle manifestazioni studentesche contro Giorgia Meloni pone, ancora una volta, il problema del dissenso nelle società democratiche. Al riguardo restano fondamentali le parole di N. Bobbio: «Il criterio discriminante tra democrazia e dispotismo è la maggiore o minore quantità di spazio riservato al dissenso».
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Nel suo aureo libretto Il futuro della democrazia (Einaudi, 1984) Norberto Bobbio, afferma che, se c’è un «criterio discriminante» tra la democrazia e il dispotismo, questo è «la maggiore o minore quantità di spazio riservato al dissenso» (p. 53). Dopo le manifestazioni di protesta che si sono svolte a Torino lo scorso 3 ottobre 2023 durante la visita alla Città della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha partecipato al Festival delle Regioni, giova ricordare questa massima scolpita nella nostra Costituzione. Anche alla luce del modo come la Presidente del Consiglio e il Ministro degli interni, Matteo Piantedosi hanno commentato i fatti di Torino. La prima: «Se le contestazioni sono dei centri sociali, lo considero perfettamente normale. Anzi, mi ricorda che sono dalla parte giusta della storia». Il secondo: «L’uso della forza e della violenza ingiustificata non è tollerabile» (1). A futura memoria, conviene registrare da un lato che è quanto meno pretenzioso ritenere di essere contemporaneamente dalla parte di Dio e della Storia, dall’altro che l’uso “giustificato” della forza e della violenza impegna in primo luogo lo Stato e i suoi apparati. Di più, in uno Stato democratico l’intervento giudiziario non può e non deve trasformarsi in uno strumento per garantire l’ordine pubblico. La questione, infatti, non riguarda solo alcune frange isolate e estremiste ma investe direttamente il rapporto tra i conflitti sociali e la giurisdizione.
In primo piano torna il grande tema della liceità e della legittimità del dissenso, che può essere manifestato sia attraverso la libera espressione delle opinioni personali sia riunendosi in associazioni legalmente riconosciute, sia promuovendo manifestazioni pubbliche più o meno di massa. Sta qui la differenza tra una democrazia costituzionale e una “democrazia giudiziaria”.
Il buon democratico sa che è inaccettabile «quella violenza contro giovani disarmati» che si è vista a Torino, che «non è giusto, non è logico, non è guardabile quell’accerchiamento di un ragazzino, con i manganelli che si muovono, i caschi schermati che nascondono i volti dei poliziotti mentre fanno quello che sono chiamati a fare per mestiere, e cioè tutelare la sicurezza di tutti noi», che «una libera democrazia è tale se fa vivere il dissenso» (E. Loewenthal, Quella violenza contro giovani disarmati, La Stampa, 4 ottobre, p. 8).
Quando il dissenso è lecito e legittimo secondo la teoria democratica? Come argomenta Norberto Bobbio in Il futuro della democrazia, il passaggio dallo stato di natura (che è uno stato polemico) allo stato civile (che è uno stato agonistico) non significa il passaggio da uno stato conflittuale a uno stato non conflittuale: la conflittualità non cessa, ciò che cambia è il modo in cui vengono risolti i conflitti. Il filosofo democratico non arriva a dire che la democrazia è «un sistema fondato non sul consenso ma sul dissenso». Tuttavia, sostiene, che «in un regime fondato sul consenso non imposto dall’alto, una qualche forma di dissenso è inevitabile, e che soltanto là dove il dissenso è libero di manifestarsi il consenso è reale, e che soltanto là dove il consenso è reale il sistema può dirsi a buon diritto democratico» (p. 53). Detto in breve, se nello Stato polemico il dissenso può e deve essere controllato anche con la forza perché può manifestarsi in modo conflittuale e violento, nello Stato agonistico – lo Stato democratico è uno Stato agonistico per definizione – il dissenso deve essere lasciato libero di esprimersi senza alcuna restrizione finché si esprime in modo conflittuale e nonviolento.
Se poi ci si pone dal punto di vista della teoria della nonviolenza, lo Stato nonviolento (e lo Stato democratico è uno Stato tendenzialmente nonviolento) si fonda sul dissenso e non sul consenso. La qualità di una buona democrazia si misura non dal grado del consenso ma da quello del dissenso. Il dissenso non è una manifestazione della vita democratica inevitabile e, come tale, consentita e da tollerare. Il dissenso è la via maestra per impedire il tralignamento della democrazia nell’autocrazia. L’aggiunta nonviolenta alla democrazia sta in una più ricca e variegata articolazione delle forme del dissenso individuale (il vegetarianesimo, il superamento del risentimento e della vendetta, la preghiera, la persuasione, il dialogo, l’esempio, il digiuno, la testimonianza, l’obiezione di coscienza, la non collaborazione) e del dissenso collettivo (la comunità nonviolenta, le marce, lo sciopero, il boicottaggio, il sabotaggio, la pubblicità delle iniziative, la disobbedienza civile). L’educazione al dissenso – l’educazione a dire consapevolmente di no – è «un elemento fondamentale dell’educazione civica, quando questa venga intesa non come una serie di obbedienze a ogni costo e a ogni autorità, ma come quella parte dell’educazione di sé e degli altri che ha lo scopo di preparare a partecipare nel modo meglio informato e più attivo alla complessa vita della comunità e al miglioramento continuo, senza violenza, delle sue strutture sociali e giuridiche (A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza [1967], Edizioni dell’asino, 2009, p. 136)»
Nota:
(1) Per il Ministro della pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, i manifestanti di Torino sono «pseudo studenti che si trasformano in professionisti del disordine», mentre per il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida, sono «epigoni della violenza e fiancheggiatori dell’eversione». Invece, per la vice capogruppo alla Camera dei deputati di Fratelli d’Italia, Augusta Montaruli, «c’è stata un’aggressione inammissibile da parte di facinorosi, travestiti, male, da studenti». Cfr. P. F. Borgia,“Giorgia qui a Torino non sei benvenuta”. E i finti studenti vanno all’assalto. Scontri con la polizia, il Giornale, 4 ottobre, p. 4. Per il Presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, la colpa è di «una componente anarchica che contesta chiunque arrivi».
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