Il diritto alla «speranza», intesa in senso pannelliano del termine, non come condizione passiva ma come capacità di farsi portatori di cambiamento, è un elemento essenziale nella «rieducazione» del condannato. Lo ha affermato, come sottolinea il costituzionalista Marco Ruotolo, la Corte europea dei diritti dell’Uomo quando l’8 ottobre scorso ha condannato l’Italia per l’ergastolo ostativo. Ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre, componente del Comitato degli esperti durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2017, Ruotolo si augura che oggi la Corte Costituzionale possa ispirarsi a questo stesso principio pronunciandosi sulla questione di costituzionalità della norma che impedisce al mafioso non collaborante Sebastiano Cannizzaro l’accesso ai benefici penitenziari.
Professore, la pronuncia della Corte di Strasburgo può avere ripercussioni giuridiche, prima ancora che psicologiche, sulla decisione della Consulta?
Le questioni di costituzionalità sollevate dalla Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia fanno riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, non agli obblighi internazionali di cui all’art. 117. Ritengo però che ci si debba aspettare un’incidenza, sia pure indiretta, della sentenza Viola, perché la Consulta non può non tenere conto che secondo i giudici di Strasburgo il «diritto alla speranza» sarebbe violato da un fine pena mai senza possibilità di revisione. Infatti, il principio di rieducazione, invocato come parametro, dovrebbe sottendere la possibilità di liberazione prima della morte perché ciò che è in ballo è la possibilità di rivalutare la posizione del condannato alla luce del suo comportamento, a prescindere dall’elemento della collaborazione che invece oggi è considerato imprescindibile per eliminare l’ostatività all’ergastolo.
L’articolo 3 della Convenzione europea che, secondo Strasburgo, è stato violato dall’Italia, è sovrapponibile con l’art. 27 della Costituzione italiana?
Oltre al divieto di pene e trattamenti inumani e degradanti, imposto da entrambi gli articoli, proprio alla luce di questo principio, si dovrebbe interpretare l’art. 27 della Carta in modo tale da considerare la rieducazione comprendente il «diritto alla speranza».
Forse la Consulta dovrebbe chiarire cosa si intende oggi per rieducazione?
Sì, io credo che la finalità della pena, la «rieducazione», sia ricostruire un legame sociale. Se è così, il comportamento che il detenuto ha assunto nel corso della pena non può diventare insignificante al fine del ritorno alla libertà. A prescindere dal fatto che abbia deciso o meno di collaborare con la giustizia. Resta fermo che per un soggetto appartenente al consesso mafioso i benefici penitenziari saranno molto difficili da ottenere, però escludere del tutto questa possibilità a priori è incompatibile con il diritto alla speranza.
L’ergastolo ostativo, creato negli anni ’90 durante l’emergenza delle stragi per combattere meglio le mafie, è stato poi esteso ad altre tipologie di reato, come il terrorismo. La Consulta potrebbe tornare a limitare il range di applicazione?
La Corte potrebbe distinguere la posizione del soggetto interno alle mafie da colui che invece ne è estraneo ma che si è avvalso del metodo mafioso o ha agevolato il reato di criminalità organizzata legato al 416 bis c.p.. E quindi potrebbe diversificare anche la questione della collaborazione, restringendo al solo caso degli affiliati alle mafie la preclusione ai benefici penitenziari imposta per legge. Negli altri casi la parola passerebbe al Tribunale di sorveglianza che verificherebbe caso per caso. Dico questo perché nel 2013 e nel 2015 la Consulta ha emanato due sentenze che riguardavano la custodia cautelare applicando un distinguo tra coloro che sono fortemente indiziati di reati di mafia e i soggetti che ne sono estranei pur avendo concorso all’associazione, lasciando solo in questi ultimi casi la decisione ai giudici.
La Consulta però si era già espressa sull’ergastolo ostativo negli ultimi anni (sentenza n°306/1993, 273/2001 e 135/2003) rigettando sempre l’incostituzionalità. Perché questa volta potrebbe andare diversamente?
Per due ragioni: per la sentenza della Corte Edu e perché va valutato anche storicamente l’elemento della collaborazione come decisivo ai fini dell’accesso ai benefici.
Cambiando la norma, non si indebolirebbe la lotta alle mafie?
Non nego che la collaborazione sia uno strumento utile, ma lasciare il giudice valutare caso per caso non significa far sì che il detenuto non collabori più con la giustizia. La collaborazione rimarrebbe sicuramente il modo più facile per ottenere i benefici, e la mancata collaborazione li renderebbe non impossibili ma improbabili.
Come a dire: senza speranza non si cambia l’individuo e non si combattono le organizzazioni criminali?
Sì, questo diritto alla speranza è un elemento che la Corte europea ha sempre valorizzato, quella italiana mai. Io però non la vedrei come un elemento di passività, la speranza in attesa della provvidenza, ma un modo per consentire al detenuto di immaginare un futuro in libertà. Un futuro che però dipende da se stesso.
Eleonora Martini
da il manifesto