Fare memoria: è la creazione del nemico che genera i mostri
- gennaio 28, 2025
- in misure repressive, riflessioni
- Edit
La follia si ripete. Nelle società contemporanee si è di nuovo alla ricerca del nemico come condizione per l’affermazione ideologica del potere e si persegue alacremente l’odio verso l’altro (il non identico a sé, il diverso, l’antagonista, l’oppositore, il non integrabile). Così, con un insopprimibile ghigno, si ricomincia a parlare di deportazione e di campi di concentramento, di muri e di filo spinato.
di
«Normalmente – osserva Erika Mann nel suo saggio del 1938, La scuola dei barbari. L’educazione della gioventù nel Terzo Reich – il termine “brutalità”, al pari di altri (come, ad esempio, “barbarico”), esprime un senso negativo. Ma quando viene inteso come una qualità della Hitlerjugend o della Gioventù di Stato in generale, cioè come “un dato che è auspicabile avere e mettere in pratica”, allora acquista un senso positivo. Riempiti dall’odio, “alimentato e coltivato con cura, sistematicamente e conseguentemente, […] fomentato con ogni mezzo a disposizione”, i giovani nazisti dovranno mettere in pratica quella crudeltà contro un nemico qualsiasi, anche se di fatto esso ora non c’è, e che, in certe situazioni che si tratta di agevolare, un giorno ci sarà. E ci sarà quando Hitler e la Germania daranno inizio al loro Kampf, alla loro guerra per la conquista del mondo: “Perché oggi è nostra la Germania” – suonano i versi di una canzonetta che i bimbi tedeschi cantavano marciando –, “e domani il mondo intero”. Nell’attesa di questa guerra mondiale, essi possono intanto esercitarsi e mettere alla prova la loro crudeltà creandosi opportunamente un nemico interno, nella stessa patria, nella società (ebrei, pacifisti, socialisti), nelle istituzioni (politici, insegnanti, religiosi), nella stessa famiglia (genitori e parenti contrari alla pedagogia nazionalsocialista, la quale sotto certi aspetti sembra paradossalmente rifarsi alla Repubblica e alle Leggi di Platone). Ben lungi però dal prepararsi culturalmente, con l’invenzione di un nemico interno essi debbono invece cominciare a prepararsi sia a una “lotta difensiva” sia a una guerra preventiva. Infatti, osserva ancora la Mann, privati di questo nemico inventato, “nazisti e gioventù nazista non potrebbero più vivere”. Ecco dunque un altro chiaro esempio di necessaria priorità del negativo».
Abbiamo voluto riprendere questa pagina di un nostro recente lavoro, in cui riflettevamo intorno alla Shoah a partire da Primo Levi, perché sembra che nelle società contemporanee ci si sia messi di nuovo alacremente alla ricerca del nemico come condizione imprescindibile per l’affermazione ideologica del potere. In queste società infatti si registra non solo il rovesciamento e lo stravolgimento ideologico dei significati o dei valori eticamente consolidati (con il conseguente smantellamento della cultura o della memoria che li conteneva), ma anche la radicale alterazione del valore della politica intesa come arte di occuparsi della città e dei cittadini; in esse si persegue sia l’odio verso l’altro (il non identico a sé, il diverso, l’antagonista, l’oppositore, il non integrabile) sia la necessaria creazione di un nemico, di fatto inesistente, che però risulta propedeutica alla formazione di una generazione consenziente, risulta cioè essere preparatoria a un eventuale confronto con l’altro, con un nemico reale; e tutto ciò come unica ragione di vita per giovani a cui, in un’esistenza senza prospettive, si offre ancora una volta come modello culturale e formativo la messa a rischio della propria vita.
Questa logica idealistica della necessità del negativo conduce alla storica e culturale necessità del nemico, dell’altro da me, il quale diventa dialetticamente necessario per l’affermazione dell’io e della sua identità. Ma non ci può essere né affermazione dell’io né emancipazione dell’altro negato e assoggettato senza l’altrettanto necessario rischio di morte. Per quel genere di logica infatti questo rischio serve sia per l’affermazione formativa dell’io sia per l’affermazione emancipativa dell’altro. Secondo tale logica pertanto il confronto con la morte risulta imprescindibile per le due opposte autocoscienze, sia per colui che è diventato il Signore solo perché ha sottomesso l’altro, sia per quest’altro, il quale, ottenendo salva la vita, è diventato il Servo del primo. Questo rapporto dialettico che Hegel aveva scorto all’inizio della storia e della civiltà umana – e su cui tra l’altro hanno riflettuto a fondo anche Edgar Morin e Zygmunt Bauman – ben lungi dall’essere stato superato, si è invece sempre più consolidato ed evidenziato nel corso del tempo, con tutte le sue tremende conseguenze – fra le quali, come si è visto, rientra anche la pedagogia nazifascista, la pedagogia nera della “bella morte”, formativa per tutti quei giovani che diventeranno anche SS.
Proprio in virtù di questa logica e di questa sua conseguente pedagogia, che affonda le sue radici nella ricerca ossessiva di un nemico e del rischio della bella morte, grazie a questo tipo di educazione, dalla quale i nostri tempi continuano incredibilmente a trarre ispirazione, sia dunque in passato che nel nostro presente si potrebbe dire, riprendendo Bauman che riflette sull’etica di Lévinas, «la vita si emancipa da ogni responsabilità». Ora, come non vedere con quale velocità nel nostro tempo ci si affretti e ci si adoperi per ottenere una tale “emancipazione”? Tutti, Signori, Servi e Servette, per un motivo o per l’altro, approfittando della favorevole congiuntura, del passaggio inatteso di una “buona stella” o del “grande carro” nel cielo stellato sulla loro testa, cioè fuori di loro, tutti insieme cercano prima che possono, prima che sia troppo tardi, di emanciparsi da ogni responsabilità, vale a dire sostanzialmente di mettersi al riparo per i disastri che hanno già compiuto e per quelli che si apprestano a compiere. A tal proposito, faceva osservare Levi in una pagina de L’altrui mestiere, non tutti hanno quella legge morale kantiana dentro di loro. Anzi, scrive appunto in Notizie dal cielo: «Ogni anno che passa – [siamo nel 1985, a quattro anni dalla demolizione del muro di Berlino] – accresce i nostri dubbi; davanti alla necrosi politica che affligge il nostro Paese, e non solo il nostro; davanti alla corsa insensata verso il riarmo nucleare, non si sfugge al sospetto che sulla legge morale prevalga un principio perverso, per cui acquista potere chi di questa legge, che sentiamo unica in ogni tempo e luogo, cemento di tutte le civiltà, non sa che farsene, non ne percepisce il pungolo, è senza e sta bene senza».
Abbiamo voluto evidenziare alcune parole di questo sorprendente e lungimirante passo del testimone torinese per far notare che quel “principio perverso” era a fondamento dell’indimenticabile “mondo alla rovescia”, mondo di un recente passato che, come irresponsabili amenti, uomini e donne del nostro tempo, a soli ottant’anni dalla liberazione del campo di Auschwitz, tentano ancora oggi in tutti i modi di riproporre anche nel nostro mondo attuale e forse anche per il futuro, per le nuove generazioni. E Auschwitz, ammoniva a sua volta Ka-Tzetnik (un altro deportato in quel Lager nazista), «Auschwitz non sarà stato altro che fumo, se l’umanità non saprà trarne la sua lezione; e del resto, se Auschwitz dovesse essere dimenticato, come se non fosse esistito mai, l’uomo avrà dimostrato di non meritare che la sua esistenza si perpetui» (La fenice venuta dal Lager).
Che amarezza vivere in un mondo in cui con un insopprimibile ghigno si ricomincia a parlare di deportazione e di campi di concentramento, di muri e di filo spinato, di annessione e persino di remigrazione! A cosa possono servire grandi organismi internazionali come l’Onu, la Nato, l’Unione Europea e i Tribunali internazionali istituiti dopo la seconda guerra mondiale – guerra che i russi e gli anglo-americani hanno vinto contro il nazifascismo – se da essi non si è levata neppure una sola voce, almeno per redarguire quel genio naturalizzato statunitense che con il suo folle gesto, con quel suo saluto romano dimostra apertamente di non volere riconoscere quelle istituzioni? A che cosa serve tutto il progresso del mondo se si realizza come regresso? Il nostro è uno strano tempo in cui gli Alleati americani, vittoriosi sul nemico nazifascista, in virtù della loro nuova scelta nazional-protezionista, cercano incomprensibilmente con gesti plateali e premeditati di allearsi con esso, cioè con il vecchio nazionalismo razziale tedesco, il quale, a causa di una nuova e profonda crisi economica, si sta di nuovo minacciosamente risvegliando. È il tempo astorico e amente in cui, a causa della ricerca folle del massimo potere e del massimo guadagno, vengono meno le differenze amico/nemico, vittima/carnefice che erano finora a fondamento dell’etica e della politica. È il tempo in cui, venuta meno la differenza con il nemico, ci si mette alla ricerca di nuovi e necessari nemici per legittimare la riaffermazione di quel vecchio potere, di quell’ancien régime che non ha ancora estinto la sua atavica sete di assoluto, di dominio imperialistico. Tutto si ripete di nuovo come se la tanto decantata astuzia hegeliana della ragione si fosse gradualmente trasmutata in quella che in Moby Dick Ismaele definisce astuzia della demenza. Nel romanzo di Melville Ismaele è l’unico scampato al naufragio contro il Leviatano acronologico, ma nel racconto biblico (a cui in quel romanzo continuamente ci si richiama) il giovane Ismaele verrà abbandonato, assieme alla madre Agar, dal padre Abramo nel deserto del Negev, oggi confinante con l’Egitto e con l’attuale striscia di Gaza. Ma – potremmo chiederci in conclusione ancora con lo scrittore newyorkese – dove ci porterà mai questa nuova avventura dello spirito, dove ci condurrà questa nuova circumnavigazione, se non, «attraverso pericoli innumerevoli, al punto esatto da dove eravamo partiti»?
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp