Il fascismo dentro la Repubblica. Storia del “fallimento epocale” delle mancate epurazioni
- maggio 30, 2022
- in interviste, malapolizia
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Poliziotti, funzionari e magistrati che fecero carriera sotto il regime hanno potuto riciclarsi nell’Italia repubblicana, nata dopo il referendum del 2 giugno. “Una democrazia che annovera tra i suoi alti funzionari personaggi infedeli è zoppa”, spiega lo storico Mimmo Franzinelli. Quella auto-assoluzione segna ancora il presente
di Ilaria Sesana
Marcello Guida, classe 1913, entra in polizia nel 1935 e “grazie al suo zelo e alle non comuni capacità di lavoro” diventa a soli 24 anni vice-direttore della colonia penale di Ponza e, successivamente, direttore di quella di Ventotene dove, negli anni Trenta del Novecento, erano stati inviati al confino illustri esponenti dell’antifascismo tra cui Sandro Pertini, Luigi Longo e Altiero Spinelli. “Guida è stato uno zelante esecutore, che sotto il fascismo ha servito il regime: ha diretto Ventotene con durezza, tra le altre cose ha negato le cure a un confinato malato di tubercolosi, provocandone la morte”, racconta ad Altreconomia lo storico Mimmo Franzinelli.
Ma la storia di Guida non finisce con la caduta del regime fascista: dopo il 25 luglio 1943 si mette agli ordini del governo Badoglio e quando Roma viene occupata dai tedeschi passa al servizio della Repubblica sociale italiana (Rsi). Al tempo stesso, però, prende contatti e collabora con la Resistenza. “Fu proprio questo fatto a salvarlo dall’epurazione nel Dopoguerra e a permettergli di intraprendere una carriera prestigiosa diventando questore di Torino, dove era a libro paga della Fiat in funzione anti-operaia –continua Franzinelli-. Successivamente è stato trasferito a Milano dove, nel dicembre 1969, ha svolto un ruolo centrale nel tentativo di far passare la morte di Giuseppe Pinelli come suicidio e nello sbattere in prima pagina Pietro Valpreda come responsabile della strage di Piazza Fontana”.
La vicenda di Marcello Guida è la più emblematica tra quelle che Mimmo Franzinelli ha raccolto nel saggio “Il fascismo è finito il 25 aprile 1945” (Laterza) in cui ricostruisce le cause delle mancate condanne nei confronti di coloro che si macchiarono di gravi crimini sotto il regime e la stretta continuità tra ampi settori della polizia e della magistratura fascista con quelle dell’Italia repubblicana, nata dopo il referendum del 2 giugno 1946. “In quel periodo il Paese si trova in una fase di passaggio decisiva tra il conflitto mondiale, che si era concluso da poco ma che aveva lasciato ferite profonde, e l’inizio della Guerra fredda. Quel contesto ha agevolato il reinserimento degli ex fascisti nelle istituzioni: con il blocco anti-comunista, i governi di centro-destra trovarono utile ricorrere ai servizi dei funzionari che avevano costituito l’ossatura del regime. La magistratura è passata totalmente indenne all’epurazione e ha avuto un ruolo chiave nell’evitare le condanne agli esponenti del fascismo più compromessi, applicando in maniera estensiva l’amnistia voluta dal ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti. Mentre nelle fila della polizia sono tornati a operare anche funzionari come Guido Leto, che tra il 1938 e il 1945 era stato direttore dell’Ovra, la polizia politica fascista, che ha svolto un ruolo chiave nella repressione del dissenso.
In che modo la Guerra fredda ha influito su questa mancata epurazione?
Anche se l’epurazione stava già fallendo, la Guerra fredda ha avuto un suo peso: gli ex fascisti sono stati inglobati nel fronte centrista che ha governato l’Italia per tutti gli anni Cinquanta, mentre comunisti e socialisti sono stati collocati tra i “nemici” dell’Occidente e bollati come sovversivi. Un aspetto molto importante, e per certi versi trascurato di questa fase, sono le schedature di polizia: si tratta di una prassi che aveva raggiunto un livello di estrema raffinatezza sotto il fascismo nei confronti di oppositori politici e dissidenti. Ebbene, quel meccanismo è stato ripreso pari pari nel 1947, arrivando addirittura a utilizzare lo stesso linguaggio. Inoltre il blocco centrista ha potuto contare sull’appoggio del Movimento sociale italiano, partito apertamente neofascista, non soltanto a supporto di maggioranze risicate, ma addirittura nelle elezioni dei presidenti della Repubblica come Gronchi, Segni e Leone. Non a caso questo periodo culmina con i gravissimi incidenti del luglio 1960 sotto il governo Tambroni, sostenuto apertamente dai neofascisti del Msi.
Lei parla di “fallimento epocale” dell’epurazione dei vertici delle istituzioni fascista. È possibile dare una dimensione di questo fallimento?
In termini numerici è impossibile tracciare un bilancio preciso: personalmente valuto nell’ordine di almeno un milione i procedimenti aperti e poi archiviati o amnistiati. Tuttavia credo sia più significativo l’aspetto qualitativo del fenomeno e osservare in che modo si sono sviluppate le carriere e le figure professionali di diversi esponenti di spicco del regime fascista: prendiamo ad esempio il Tribunale speciale per la difesa dello Stato che condannò alla fucilazione molti antifascisti. Il suo presidente, Guido Cristini, venne amnistiato. Se persino il presidente del più importante tribunale politico del fascismo è riuscito a passare indenne, figuriamoci i sottoposti.
Che ruolo ha avuto in tutto questo l’amnistia voluta da Togliatti?
Ci furono delle carenze tecniche nella scrittura del testo del decreto e questo ha agevolato coloro che dovevano applicarla: in particolare i presidenti delle sezioni della Corte di Cassazione che avevano fatto carriera sotto il fascismo, ma erano rimasti al loro posto. Erano uomini d’ordine che vedevano nei partigiani degli eversori ed erano portati a simpatizzare con i condannati fascisti. I giudici utilizzarono quella sciagurata definizione, scritta dallo stesso Togliatti, secondo cui l’amnistia si poteva applicare a tutti, tranne a coloro che si fossero macchiati di “crimini particolarmente efferati”. Molti torturatori riuscirono a scampare alla condanna proprio perché i giudici non riconobbero la particolare efferatezza dei crimini da loro commessi. Diversi casi di violenze sessuali ai danni di partigiane, ad esempio, non vennero puniti perché ritenuti semplici reati contro la morale e quindi amnistiabili.
Quale è a suo avviso l’istituzione in cui è più eclatante questa continuità tra lo Stato fascista e lo Stato repubblicano?
Sicuramente la polizia, che per tutti gli anni Cinquanta è stata guidata da funzionari che avevano fatto carriera durante il regime reprimendo gli antifascisti: la polizia ha avuto un’assoluta continuità tra l’Italia fascista e quella repubblicana. Ripresero servizio persino funzionari che avevano servito sotto la Repubblica sociale.
Quali conseguenze ha avuto per l’Italia aver mantenuto ai vertici della magistratura, della polizia o delle prefetture, esponenti -anche di primo piano- dell’Italia fascista?
Una democrazia che annovera tra i suoi alti funzionari personaggi infedeli alla democrazia stessa è zoppa. E lo abbiamo visto in maniera chiara e drammatica negli anni Sessanta, durante la strategia della tensione: queste persone intervennero pesantemente per occultare le piste neo-fasciste degli attentati e caricare su esponenti anarchici le responsabilità, come avvenuto a Piazza Fontana.
Che ruolo ha avuto la classe dirigente antifascista?
Durante il mio lavoro di ricerca sono rimasto basito nel vedere una certa impreparazione da parte della classe dirigente antifascista, la sua incapacità di comprendere come fosse necessario cambiare pagina, anche sul piano legislativo: i codici penali del fascismo, a partire dal Codice Rocco, rimasero in vigore per decenni. È mancata la capacità di condurre una riforma democratica dello Stato in profondità. Guardiamo ad esempio alla Corte costituzionale: venne istituita dieci anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione stessa, anche per effetto delle resistenze messe in atto dai giudici della Cassazione. E non solo: nel 1957 venne nominato presidente Gaetano Azzariti, già a capo del Tribunale della razza. L’Italia non ha voluto fare i conti con le asprezze della propria storia, si è auto-assolta dalle responsabilità del fascismo. L’Italia nata dopo il 2 giugno 1946 è un Paese che non ha fatto i conti con il suo passato.
Negli altri Paesi europei dove ci sono stati fenomeni di collaborazionismo con il nazismo e gli occupanti che cosa è successo? E in Germania?
Anche in Belgio, Olanda, Norvegia e Francia si giunse all’amnistia per chi aveva collaborato con il nazismo ma le differenze furono abissali rispetto a quello che è successo in Italia. In Francia passarono dieci anni prima dell’applicazione dell’amnistia: i condannati avevano scontato parte o completamente le pene detentive che erano state comminate. Non solo: i collaborazionisti vennero bollati come traditori della patria. Anche la Germania, che a seguito del conflitto è stato considerato “Paese vinto” a tutti gli effetti, fu costretta a fare i conti con la propria storia, ci fu un’elaborazione rispetto alle responsabilità diffuse nel Paese. In Italia non è successo nulla del genere e lo vediamo anche nel fatto che si registrano con grande frequenza episodi che ormai passano sotto silenzio come l’esibizione del saluto romano o esposizione dei calendari del Duce nelle edicole; cose che in Germania sono inimmaginabili e sarebbero severamente punite. Penso anche ai tanti Comuni italiani che ancora annoverano Mussolini tra i propri cittadini onorari in nome di una presunta memoria storica: dimenticando però che quell’ondata di concessioni non fu un fatto spontaneo, ma venne orchestrata direttamente dal regime all’indomani della campagna elettorale del 1924 condizionata dalle violenze squadriste. Tra i Comuni che l’hanno mantenuta ce ne sono due che mi scandalizzano particolarmente: quello di Salò, che fu sede della Rsi, e quello di Carpi, dove venne allestito il campo di internamento di Fossoli, da dove transitarono migliaia di cittadini italiani di fede ebraica ed esponenti politici diretti verso i lager nazisti.
da altreconomia