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I fascisti? Due o tre cose che so di loro…

Uno dei compiti storici che gli apparati statali e il grande capitale hanno da sempre affidato a neofascisti e affini è quello dell’intossicazione a sinistra, della simulazione di ideali rivoluzionari socialisti o popolari, della confusione dei discorsi all’ombra dello squadrismo e della violenza razzista e stragista. Per questo è importante ricordare chi siano stati i neofascisti italiani e quale sia la loro mediocre e velenosa storia.

di Gianni Sartori

Si narra che l’ex giudice Guido Salvini si sia risentito quando durante la presentazione del suo libro “La maledizione di Piazza Fontana”, qualcuno gli aveva fatto notare l’incongruenza. Ossia aver identificato e segnalato – con un’approssimazione al 90% – colui che 50 anni fa avrebbe deposto materialmente la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, ma limitandosi a definirlo con un nomignolo: “il paracadutista”. Precisando comunque che di trattava di un esponente di Ordine Nuovo, esperto di arti marziali, all’epoca operativo a Verona (N.B. Verona, sempre in mezzo) . A inchiodarlo con nome e cognome (Claudio Bizzarri) ci aveva poi pensato Gianni Barbacetto nel suo articolo apparso su “Il Fatto Quotidiano”.

Ma a questo punto si scopriva che quel personaggio era ormai deceduto. Anche se soltanto un mese prima dell’articolo di Barbacetto e mentre il libro di Salvini era ancora in stampa.

Un tempismo – o forse una mancanza di tempismo – che potrebbe dar da pensare. Chissà di quali protezioni e coperture in alto loco avrà potuto godere quel personaggio rimasto impunito e in circolazione per mezzo secolo!

D’altra parte questa è solo l’ennesima conferma. O, se vogliamo, la scoperta dell’acqua calda. I mandanti delle stragi degli anni sessanta e settanta (Piazza Fontana nel 1969, Brescia e Italicus nel 1974 etc…) ricorrevano sistematicamente alla manovalanza neofascista.

Come aveva già denunciato “La strage di Stato” pubblicato a pochi mesi di distanza dal tragico evento. Libro, tanto per la cronaca, battuto a a macchina da Licia Pinelli, moglie – e vedova – di Pino (il ferroviere anarchico precipitato dal quarto piano della Questura). Alla stesura del testo avevano contribuito anche i compianti Edgardo Pellegrini (“Bandiera Rossa”, in anni successivi tra i maggiori esponenti delle iniziative antiapartheid, vedi per “I Sei di Sharpeville”)) e Giulio Maccacaro ( medico e partigiano) che in seguito – nel 1972 – farà nascere l’Associazione Medicina Democratica, Movimento di Lotta per la Salute.
Vediamo allora di ricapitolare.

Precisando comunque che il presente testo, talvolta frammentario, è frutto di una conversazione (a tratti un soliloquio), interrotta e alimentata da qualche domanda, in margine a un incontro-dibattito. Senza alcuna pretesa di sistematicità o completezza.

Non aspettatevi quindi chissà quali cose. Due o tre, appunto. Qualcuno l’aveva registrata, poi sbobinata e questo è quanto (con l’aggiunta di qualche indispensabile nota e di una “chicca” vagamente surreale: il resoconto di una antica seduta spiritica forse – dico forse – rivelatrice).
Inizialmente il titolo doveva essere “Tutto quello che avreste voluto sapere sui fascisti e non avete mai osato chiedere”, ma mi sarei allargato troppo. E poi, a mio avviso, i fasci andrebbero ridimensionati, riportati all’essenziale di quel che sono sempre stati: guardie bianche e bieche del capitalismo.

Scava, scava non c’è molto altro sotto la paccottiglia misticheggiante, la retorica gerarchica del “guerriero senza sonno” e i richiami a qualche mito nordico preso in prestito. Oltre beninteso a un consistente percentuale di psicopatia.

Come scrisse Zenga Kuren, mio filosofo di riferimento: “Il fascismo? La peggior spazzatura ideologica mai apparsa sul pianeta, sintomo della decomposizione irreversibile del capitalismo”.

Se lo erano chiesto anche i situazionisti cosa fosse mai stato quello “storico” degli anni venti: “Negazione della Storia e, insieme, organizzazione della viltà”, suggerivano . Quanto al neo-fascismo che negli anni settanta impensieriva (sia detto senza ironia) le coscienze democratiche, oggi ormai anestetizzate, si andava più sul classico: “un’espressione ostile del ceto medio al capitale monopolistico”. Definizione calzante anche ai nostri giorni, magari ampliando il concetto di “ceto medio”.

Per concludere, lapidariamente: “Fondato sull’organizzazione delle apparenze, il fascismo alimenta il mito dell’eterno ritorno per riaffermare lo stato di cose presente”.
Negli anni venti e trenta del secolo scorso, sia per le nostrane camicie nere che per le teutoniche S.A., l’uso della violenza assumeva talvolta aspetti quasi erotici (v. Sven Reichardt, 2002). Come si può comprendere dalla mania del dettaglio, il piacere evidente per ogni ferita inferta, il compiacimento per ogni ferita subita… (e dalle ricorrenti fantasie di “poltiglia sanguinolenta” a cui ridurre gli odiati avversari).
Secondo Klaus Theweleit (vedi le sue ipotesi sulla “Bianca infermiera”, un simulacro di donna, asessuata, modello ideale del Terzo Reich): “Muco e fango sono principi femminili: qualcosa di molle, di fluido, senza contorni netti”.

Qualcosa in cui evidentemente le S.A. temevano di affondare.

Certo che di problemi con la sessualità (la loro, in primis, ma anche con quella degli altri: come i preti) dovevano averne parecchi.

Quanto allo sbandierato “cameratismo”, tipico di molti sodalizi maschili paramilitari, non di rado era una copertura per pratiche omosessuali (pubblicamente stigmatizzate, ma praticate in privato).

La lista degli adepti di questa doppia morale era piuttosto consistente tra i primi esponenti del nazionalsocialismo: Rohm, Heines, Koch, Rohrbein, Hans Spreti, Carl-Leon du Moulin-Eckart…

Senza dimenticare Goering, noto per le sue unghie laccate, la cui unica figlia era il frutto di una relazione della moglie con l’autista. Quanto a Hitler, pare che nel periodo viennese non disdegnasse qualche marchetta, tanto che una volta giunto al potere la maggior parte dei suoi conviventi e amici intimi venne elegantemente fatta sparire.

Del resto teppismo e perbenismo (magari conditi da una certa dose di “perversione”, stando ai loro parametri) potevano convivere, riconciliarsi, magari accoppiarsi… nell’animo piccolo-borghese producendo il noto obbrobrio: il nazifascismo, mistificazione perpetua della realtà.

Una delle cause, suggeriva Furio Jesi, andrebbe ricercata nel fatto di “aver per cultura il rapporto con quel mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore che è il passato della patria”. Con la paccottiglia sostanzialmente.

STEFANO DELLE CHIAIE

Ma chi era Stefano Delle Chiaie?

A mio avviso uno che non l’aveva mai raccontata giusta. Prima di morire aveva anche fatto in tempo, nel 2012, a pubblicare un libro, notevole per il fatto di non dire praticamente nulla. Definirlo “reticente” sarebbe stato un complimento. Taroccato anche nel titolo “L’aquila e il condor” (forse per evocare l’Operazione Condor), già utilizzato da “Tre-Rocce Alberto Tampini” per il suo libro di sciamanesimo (ed. L’entronauta, 1998).

Nel suo libello l’esponente di Avanguardia Nazionale insinuava, confondeva e divagava riportando molti episodi insignificanti. Talvolta forse inventati di sana pianta (come quello, impregnato di paternalismo razzista, dei poveri indios che lui avrebbe aiutato guadagnandone la perpetua riconoscenza). A volte minimizzando, altre enfatizzando, alla fine non ha svelato nulla che non fosse già ampiamente risaputo. Contribuendo comunque a confondere e inquinare ulteriormente le acque su quel periodo storico, già torbido di suo.

Per esempio non può negare la sua partecipazione agli eventi di Montejurra (Jurramendi in basco) nel 1976, visto che qui era anche stato fotografato.

Ma naturalmente li descrive a suo modo. Si inventa una presenza di ETA per giustificare l’aggressione agli esponenti della componente democratica dei Carlisti. Dimenticando che se ETA fosse stata presente in maniera organizzata lui e gli altri squadristi NON sarebbero tornati a casa incolumi.

E nessun accenno alla partecipazione dei fascisti italiani fuoriusciti alla squadra della morte denominata B.V.E. da cui deriverà il G.A.L.

INTOSSICAZIONI DA MANUALE IN BOLIVIA

Chi si fosse limitato a scorrere il libro velocemente potrebbe non aver individuato un’ulteriore infamia: l’immagine riprodotta tra pag. 186 e pag. 187.

È la copertina di “Despertar-organo oficial de la Juventud Nacionalista” (n.5° del 1981), una pubblicazione curata da Delle Chiaie durante la sua permanenza in Bolivia.

A lato del nome della testata troneggia la runa Odal, simbolo di Avanguardia Nazionale.

Al centro la scritta: “VIVA EL 1° DE MAYO” e i volti disegnati di un operaio e due contadini che gridano rispettivamente (dall’alto in basso, in stile “fumetto”): “VIVA LA CLASE OBRERA NACIONALISTA”; “VIVA LA JUVENTUD NACIONALISTA – MUERA EL EXTREMISMO Y EL SUPERCAPITALISMO”; “GLORIA A LOS MARTIRES DE CHICAGO – POR DIOS Y LA PATRIA – A VENCER O MORIR”. Un miscuglio macedone niente male!

Un esempio da manuale di pura intossicazione che mescola arbitrariamente messaggi di destra ad altri di sinistra (o almeno apparentemente). Certo che ce ne vuole di doppiezza morale e mancanza di scrupoli per collegare il 1° maggio con la runa di Avanguardia Nazionale!

Per non parlare del riferimento ai Martiri di Chicago (anarchici!) impiccati per i fatti di Haymarket (la bomba risultò una provocazione della polizia in stile strategia della tensione) all’epoca delle lotta per la giornata lavorativa delle otto ore. A loro il movimento operaio internazionale dedicò la festa dei lavoratori.

In Bolivia il “Caccola” non si limitò a stampare giornaletti provocatori, ma partecipò direttamente all’opera di sistematica distruzione della Resistenza al regime. Mettendo a frutto quanto appreso in Spagna.

Scrive a pag. 246: “Quando andai allo stato maggiore notai che mancava una sezione di azione psicologica. Ne parlai con il presidente Meza[i]  che mi incaricò di organizzarla (…). Nacque così il VII reparto…”.

Fine psicologo, il Delle Chiaie operò alacremente per riportare sulla retta via le ingenue e indisciplinate masse popolari latino-americane, evidentemente tratte in inganno dalla propaganda marxista. Sappiamo che Pinochet, Videla, Meza e altri macellai al servizio degli U.S.A. non mancarono di mostrarsi riconoscenti verso i camerati italiani.

INQUIETANTI ANALOGIE

Osservando quella copertina di “Despertar” del 1981 veniva spontaneo cogliere un’analogia con quanto accadeva in Italia nel 1969, quando l’amico e camerata di Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino, si era infiltrato tra gli anarchici (grazie anche, diciamolo, a qualche compagno un pochettino pirla).

Quel Merlino, che era rimasto folgorato sulla via di Damasco, anzi di Atene, partecipando al viaggio-premio (ufficialmente “di studio”; Delle Chiaie lo definì “gita, scampagnata”) nella Grecia dei colonnelli. Partito fascista, Merlino rientrò in Italia anarchico, a suo dire.

Insisto. Sempre quel Merlino che si esibiva (e si faceva fotografare) a pugno chiuso con barba e capelli lunghi e un cartello al collo per la liberazione dei compagni anarchici incarcerati.

A quale scopo? Presumibilmente per acquisire credenziali utili al suo lavoro di infiltrato e provocatore. Alimentando la leggenda metropolitana della convergenza degli “opposti estremismi” quando, caso mai, si dovrebbe parlare di convergenza tra apparati dello Stato, servizi segreti e manovalanza fascista (sempre con la supervisione statunitense, ovvio).

Interessante confrontare la foto del Merlino in versione anarchica (1969) con una foto di qualche anno prima (1966) che lo immortalava davanti alla Facoltà di Lettere, a Roma. Mancano pochi attimi all’inizio degli scontri in cui perderà la vita il compagno Paolo Rossi. E Merlino, ca va sans dire, stava con i “suoi”, i fascisti.
La trovate a pag. 156 nell’edizione del 1970 de “La strage di stato” (ed. Samonà e Savelli). Da notare come qui Merlino si presenti con i capelli in ordine, ben tagliati, da quel bravo ragazzo di destra che era, tanto che nella foto si vede chiaramente perfino la stanghetta degli occhiali dietro l’orecchio.

FASCISTI A VALLE GIULIA
E sempre in tema di infiltrazioni, intossicazioni, manipolazioni, false flag e provocazioni fasciste vorrei riesumare altre fotografie (utilizzate direttamente per gli scopi sopraelencati).
Nel suo libro “Il sangue e la celtica” Nicola Rao scopriva l’acqua calda, ossia una foto di Valle Giulia del marzo 1968 fornitagli (ma guarda talvolta le coincidenze!?!) dal solito Merlino. Nell’immagine si distinguono tre gipponi della polizia, in primo piano, e una quindicina di fascisti. I loro nomi sono diligentemente riportati nella didascalia (vedi inserto fotografico tra pag. 230 e 231): Paglia, Delle Chiaie, Tilgher, Merlino, Tonino Fiore…) che sembrano fronteggiare le “forze dell’ordine”. Sullo sfondo la scalinata e gruppi di studenti. Secondo Rao (presumibilmente imbeccato dai suoi interessati informatori) “a guidare l’assalto, nelle prime file, ci sono i fascisti del Fuan-Caravella e di Avanguardia Nazionale affiancati da militanti del gruppo Europa-Civiltà e di Primula Goliardica”.

L’assalto? Ma quando mai? In una foto immediatamente successiva (pubblicata su “Dopo la contestazione” Skema n.4, aprile 1973) si riconosce lo stesso veicolo della polizia (osservate la targa) nel frattempo avanzato di una decina di metri, il piazzale vuoto e il fumo dei lacrimogeni.
E i valorosi fascisti che “guidavano l’assalto”? Scomparsi, volatilizzati, dopo aver svolto adeguatamente il loro compito di provocatori. Del resto la presenza dei fasci a Valle Giulia poteva essere una novità soltanto per Rao. Lo aveva appunto segnalato e denunciato ancora nel 1970 il libro “La strage di stato”.

Sul ruolo di infiltrato professionista di Merlino arrivarono conferme anche da fonti di destra sicuramente ben informate. Nell’intervista concessa a Giorgio Zicari dai fratelli Di Luia (esponenti di Avanguardia nazionale scappati all’estero, senza apparente ragione visto che le indagini su piazza Fontana si concentravano solo a sinistra, su anarchici e Feltrinelli) si leggeva che “Merlino è stato mandato fra gli anarchici e la persona che lo ha plagiato è la stessa che fece affiggere i primi manifesti cinesi in Italia”. L’intervista risale al 5 marzo 1970, a neanche tre mesi dalla strage del 12 dicembre 1979.

Ma di quali manifesti parlava Di Luia? Di quelli apparsi ancora nel 1966, inneggianti a Stalin e Mao e contro l’URSS. Firmati da sconosciute sigle marxiste-leniniste, apparentemente filocinesi, servivano ad alimentare i contrasti all’interno del PCI per indebolirlo. La provocazione era stata ordita da Umberto Federico d’Amato (Ufficio Affari Riservati, ministero degli Interni) con la collaborazione di Mario Tedeschi e di Pino Bonanni, esponenti del MSI che contattarono Delle Chiaie per la realizzazione pratica.

L’operazione viene tuttora considerata un classico esempio di “intossicazione a sinistra”, da manuale. A Firenze, Pistoia, Livorno… tra il 5 e il 6 gennaio 1966 i militanti di AN diffusero manifesti, volantini (e inviarono lettere di ugual tenore agli iscritti del PCI) firmati Movimento marxista leninista d’Italia.

Dopo l’intervista, il 10 aprile 1970, i due fratelli Di Luia, Serafino e Bruno, incontrarono al Brennero il questore Silvano Russomanno per “interessanti rivelazioni sui recenti attentati dinamitardi commessi a Milano e Roma e anche su quelli della famosa notte dei treni”.
Questo si leggeva nella lettera del questore di Bolzano del 20 marzo 1970 che preannunciava l’incontro con i due “latitanti senza ragione”. Almeno apparentemente “senza ragione”, aggiungo io. Penso sia inutile precisare che a oltre cinquanta anni di distanza le “interessanti rivelazioni” rimangono ancora segrete.

Per la cronaca: Serafino (coincidenza: lo stesso nome in codice Gladio di Gianni Nardi) di Luia fu anche uno dei fondatori di “Lotta di popolo”. Insieme a Ugo Gaudenzi, poi direttore del giornale di estrema destra “Rinascita” che tuttora si mimetizza con tematiche di sinistra e antimperialiste. Non perdono il vizio, evidentemente.

PARENTESI NECROFILA

Qui (sui Colli Berici n.d.a.) venivo a trovare la mamma durante la latitanza in Spagna. Lo so, qualcuno dubita ancora, nonostante la riesumazione, dell’autenticità della mia dipartita. Vi dirò… a volte ne dubito anch’io… del resto noi fascisti con la Morte abbiamo da sempre molta familiarità…[ii] Certo che quella Donatella Di Rosa ne ha fatto di casino. E tutto perché il suo amante era l’ex di mia madre, vedova, voglio precisare. Ma avevo anche un camerata, Giancarlo (Esposti n.d.a.), fascio perso fino al midollo… anche se dai gusti particolari. Nel nostro ambiente era cosa nota e risaputa la relazione sentimentale tra Giancarlo e Golosone (Angelo Angeli: spacciatore di eroina e stupratore – impunito – di Franca Rame n.d.a.). Tutti e tre eravamo a capo delle S.A.M. (Squadre Azione Mussolini n.d.a.)”.

Questo è quanto avrebbe detto – con beneficio d’inventario – l’anima in pena del Nardi, presunto membro di Gladio (sigla 0565), incautamente evocato tra le boscaglie autoctone e le ville dei riccastri foresti.[iii]

Ufficialmente Nardi è deceduto a Campos (Maiorca) il 10 settembre 1976 in un incidente stradale, inseguito (pare) dalla polizia. Secondo una versione l’auto (una Fiat 127 con targa vicentina: VI-323885, forse rossa, altri dicono azzurra) sarebbe risultata rubata. Secondo un’altra sarebbe stata di proprietà di un ufficiale amico dei Nardi (targa sempre la stessa, vicentina, comunque). A proposito di Vicenza: mentre da più parti sono state messe in evidenza le possibili relazioni tra la vicenda di Pian del Rascino e la strage di Brescia (28 maggio 1974), forse non è stata presa altrettanto in considerazione una delle tre rivendicazioni immediatamente successive alla strage. Apparve proprio nella città del Palladio, il 1 giugno, con firma “Anno Zero-Ordine Nuovo”.

Sui Colli Berici sorgeva una villa appartenente alla famiglia Nardi. Un’altra villa si trovava non lontano da dove Esposti trascorse i suoi ultimi giorni (Ascoli Piceno, Teramo e Pian del Rascino). Qualche giorno prima di venir ucciso si sarebbe anche recato in visita alla sorella di Nardi qui residente.

Ma allora chi era questo Giancarlo Esposti, amico fraterno del Nardi?

Tra le altre cose, un depresso che si curava in cliniche di lusso come raccontava in alcune lettere che scrisse a Franco Freda (quel Franco Freda).

All’epoca, mentre da sinistra (vedi Franco Basaglia) si mettevano in discussione le istituzioni totali (manicomi, carceri…), da destra si invocavano inasprimenti ulteriori (magari vagheggiando “soluzioni finali”) per i soggetti disadattati, improduttivi e devianti.

Tanto per i borghesi benestanti come Esposti c’erano le cliniche svizzere a pagamento in cui curarsi senza venir stigmatizzati socialmente. Per i proletari, invece, i manicomi-lager (rivedere le foto di “Morire di classe”). Mentre Nardi era stato arruolato da Gladio, Esposti aveva la tessera della PIDE[iv]  e si recava spesso in Portogallo dove, dietro la facciata di una finta agenzia di stampa a Lisbona, operava l’Aginter Press, organizzazione internazionale di destra coinvolta nella strategia della tensione e nell’eliminazione fisica (tramite l’infiltrazione) di vari esponenti dei movimenti di Liberazione (vedi Cabral e Mondlane, forse anche Ruth First). Inoltre riforniva di mercenari (fascisti europei) il Sudafrica razzista per farli combattere in Namibia e Angola.

Esposti sarebbe stato anche in buoni rapporti con i Servizi nostrani. Forse “in Alto” si prese la decisione di eliminarlo (a Pian del Rascino il 30 maggio 1974) perché “sapeva troppo” o perché ritenuto ormai inutile e “fuori controllo” (vedi lo “sgarro” della visita con minacce a Degli Occhi).

Qualche dubbio permane sulle vere ragioni di quel lungo girovagare di Esposti e camerati ( Alessandro D’Intino, Alessandro Danieletti e Umberto Vivirito che rientrò a Milano prima del conflitto a fuoco).

Su e giù per i monti di Marche, Abruzzo e Lazio senza tante precauzioni (con una Land Rover “taroccata” e una moto Benelli 250) incontrando altri fascisti (Luciano Benardelli, Peppe Ortenzi, Guido Ciccone…), fraternizzando con escursionisti e pescatori di frodo e mangiando al ristorante… come autentici “guerriglieri della domenica”.

Rimane poi avvolto nel mistero quale fosse l’obiettivo finale (sempre che ce ne fosse uno di preciso).

Avevano oltre 20 chili di gelignite, centinaia di proiettili 7,62 e fucili di precisione, oltre a vari rotoli di miccia e detonatori. Non si esclude l’ipotesi che nelle loro intenzioni ci fosse un bis di Brescia, magari a Roma per la sfilata del 2 giugno. Si è anche ipotizzato che intendessero colpire con un fucile di precisione il Presidente della Repubblica. Di sicuro il fucile adatto lo avevano.

In effetti il 28 maggio Esposti e Danieletti si erano recati con la moto di Vivirito a Roma dove incontrarono varie persone tra cui Bruno Stefano (arrestato due anni prima con Gianni Nardi alla frontiera con la Svizzera in un’auto imbottita di armi) che propose di portarli in Andorra, praticamente in Spagna, con il suo aereo privato.

Fu veramente per procurarsi altre armi (come raccontò Danieletti) o per un sopralluogo?

Di quella vicenda rimangono le immagini in bianco e nero del cadavere di Esposti coperto da un telo mimetico, la jeep che un sindaco del luogo ha voluto conservare come reperto e un’ipotesi.

Forse il capo delle SAM ha pagato per la sua ultima intemperanza, quella visita non propriamente di cortesia al leader della “Maggioranza silenziosa” l’avvocato Adamo Degli Occhi.

Inevitabile, all’epoca, provare anche un po’ compassione per questo fascista in crisi di identità.

Nel 1974, non ancora a conoscenza di tutti i retroscena (appartenenza alle SAM, rapporti col MAR di Fumagalli…) ne avevo anche parlato in un articolo-volantino su “Vicenza-Contro” (o era “Contro-Vicenza”?) definendolo, pietosamente, un “desperado”. Chissà? Forse non si accettava, forse simulava una vita eroica da “combattente” per compensare le proprie miserie esistenziali. Un caso umano… forse.

Va anche ricordato che nel 1974, dopo la strage di Brescia, parte della fascisteria (anche di quella appositamente addestrata, ma risultata poco affidabile) sembrava sul punto di perdere qualche rete di protezione, in particolare quella fornita dall’Ufficio affari riservati, sciolto d’autorità. Per non parlare dei sanbabilini, scaricati dopo il fallito attentato di Nico Azzi (di cui si voleva incolpare la sinistra) e il “giovedì nero” del 12 aprile 1973 con l’uccisione dell’agente Marino per le bombe a mano SRCM mod. 35 lanciate da Loi e Murelli (sanbabilini iscritti al MSI). Vengono meno alcune coperture, Giancarlo Esposti viene eliminato (un chiaro segnale che non tutti però compresero) e partono numerosi mandati di cattura. Inconsapevoli pedine di un conflitto interno, concorrenziale, tra apparati dello Stato più o meno deviati.

Fatte le debite proporzioni, era quello che capitò alle SA quando divennero superflue (oltre che impresentabili).[v]

Chi forse capisce più di altri è Nardi che si rifugia in Spagna temendo di fare la fine di Esposti. È solo un’altra ipotesi naturalmente.

IN QUESTO MODO ERA (RI)COMINCIATA…

I funerali di Paolo Rossi, vittima dei fascisti a Roma nel 1966, vengono considerati come una delle prime manifestazioni studentesche antifasciste di massa degli anni sessanta. Possiamo dire che “così era ri-cominciata” perché la Resistenza popolare al fascismo non si era mai completamente esaurita (giugno 1960 a Genova, i Morti di Reggio Emilia…). Ma sicuramente questo tragico evento costituisce la scintilla per un nuovo ciclo di lotte, in particolare con le prime occupazioni delle Università. Dopo Roma (1966) toccherà a Pisa (1967) al Palazzo della Sapienza. Sarà poi il turno di Sociologia a Trento e della “Cattolica” di Milano, istituzione privata in mano al Vaticano, ma lautamente finanziata dallo Stato. Alle lotte del 1968 (Valle Giulia, 19 aprile a Valdagno, Avola…) e del 1969 (Battipaglia, Autunno Caldo…) le classi dominanti reagirono con la repressione e la violenza terroristica contro-insurrezionale utilizzando manovalanza fascista.

La strage di Piazza Fontana segnerà, non solo simbolicamente, l’inizio della “strategia della tensione”. Da allora almeno una strage di Stato all’anno o un tentativo fallito: Gioia Tauro, Catanzaro, Peteano, via Fatebenefratelli[vi], Piazza della Loggia, San Benedetto Val di Sambro, Alcamo, Piazza Arnaldo, Venezia…

E, quasi sempre, in sintonia con le stragi, riuscite o meno, si udiva il ben riconoscibile “rumore di stivali” dei golpisti. Con il “68” i gruppi neofascisti – alle dipendenze dei servizi segreti, retribuiti, completi di ritenute e assegni familiari – si infiltrano, talora quasi pubblicamente, nei movimenti studenteschi. Altri, come il citato Merlino, finsero la “conversione” e si intrufolarono in gruppi m-l e anarchici. Era la messa in pratica delle strategie della “guerra rivoluzionaria” elaborate ancora nel 1965 in un convegno all’hotel Parco dei Principi a Roma (3-5 maggio 1965).

Così la raccontava Pino Rauti, noto esponente di Ordine Nuovo nel frattempo passato a miglior vita: “Vedevamo questi paracadutisti, uomini di un reparto d’élite, super-addestrati (dagli USA n.d.a.) che nella notte del golpe calarono su Atene e che buttavano dalle finestre del Parlamento documenti e archivi parlamentari, incendiandoli con dei falò. Fornendoci un’immagine nibelungica”.

Anche sulla stampa non mancarono segnali premonitori del 12 dicembre 1969…

Dalla famosa copertina di Epoca dell’undici dicembre alla domanda inusuale apparsa sulla stampa britannica (“Strategy of tension?”) in sincronia con Piazza Fontana.

Da quel momento apparve chiaro, almeno per chi voleva vedere, quale sarebbe stata la “politica” dell’estrema destra italica negli anni settanta.

Va riletto quanto scrisse l’ex “picchiatore fascista” Giulio Salierno.

Stragi e neofascismo sono le valenze attraverso cui chi gestisce il dominio manipola le coscienze delle classi subalterne offrendo loro, in cambio dello scampato pericolo, alcune gratificazioni: la preservazione degli istituti di democrazia delegata. Nulla di più di quanto i dominati avevano conquistato con la Resistenza e che, prima delle stragi, consideravano come garantito. E così attentati indiscriminati e feroci, offrono al potere il pretesto per preparare l’opinione pubblica all’accettazione di leggi e provvedimenti limitativi delle stesse libertà borghesi”.

E l’ex seguace di Evola, ormai redento e diventato collaboratore di Basaglia e di Terracini nella lotta alle istituzioni totali, continuava: “Mentre i killers fascisti sognano golpes e coprono, con la dinamite, le loro angosce depressive e persecutorie, la borghesia si serve del loro operato per creare una frattura tra le speranze proletarie e la radicale trasformazione della società”.

Molto attuale, direi. Forse basterebbe scrivere ISIS al posto di Ordine Nuovo e magari si comincerebbe a capirci qualcosa anche del presente.

Volendo parafrasare Von Clausewitz: “Le stragi di Stato? La prosecuzione della guerra imperialista con altri mezzi”.

Intanto, tra una strage e l’altra, nelle strade, nelle caserme, nei commissariati e nelle questure – oltre che beninteso nelle carceri – proseguiva l’opera di ordinaria repressione.

Chi volava fuori dalla finestra (Giuseppe Pinelli, 15 dicembre 1969), chi si beccava un lacrimogeno in pieno petto (Saverio Saltarelli, 12 dicembre 1970), chi semplicemente veniva massacrato di botte (Franco Serantini, 7 maggio 1972), chi moriva, lentamente, di carcere (Alberto Buonoconto, 20 dicembre 1980).

Quanto al parastato (intendendo i fascisti), agli attentati terroristici indiscriminati si accompagnavano innumerevoli azioni squadristiche, mirate (ad personam). Contro i compagni naturalmente.

Il ruolo delle squadracce di destra? Lavoro sporco per conto delle classi dominanti, paragonabile a quello svolto da UVF e UFF in Irlanda del Nord contro la comunità repubblicana.

Mi torna in mente una fredda, nebbiosa mattina di picchetto (1970 o 1971), per una volta unitario (militanti di PotOp e sindacato) davanti alle fabbriche di Olmo di Creazzo.

Arrivò la notizia, direttamente dal paron (che evidentemente era un capitalista, ma non un fascista) secondo cui i fascistelli locali si erano offerti di sfondare i picchetti per riportare le maestranze ribelli alla usuale condizione di docile forza lavoro. Per la cronaca, disse anche: “Li gò mandà in mona so mare… Se vien fora casini mi no ghe sentro…”.

Poi a sfondare i picchetti ci pensarono le forze dell’ordine. Risultato: parecchi contusi e tre o quattro arresti. L’immediata manifestazione unitaria di protesta prevedeva una breve sosta davanti al vecchio carcere di san Biagio, ma quando rischiò di “degenerare” (dal punto di vista benpensante, ovvio) il sindacato prese le distanze e, per quanto ricordo, la breve convivenza si esaurì.

Naturalmente i compagni, non avendo ben interiorizzato le massime evangeliche (nonostante un diffuso retroterra cattolico), non porgevano l’altra guancia. Certo, i metodi non furono sempre eleganti, ma sappiamo che non è un pranzo di gala.

Come definire gli anni dell’antifascismo militante? Direi soprattutto anni di autodifesa popolare contro le violenze delle guardie bianche del capitale; anni fin troppo crudeli, sicuramente. E vissuti pericolosamente.

Dopo i fatti di Salerno (quando Giovanni Marini per difendere un compagno assalito da fascisti armati di coltello ne avrebbe colpito uno mortalmente) e visto che le aggressioni fasciste non accennavano a diminuire, molti compagni cominciarono a prendere alla lettera lo slogan “Difendersi dai fascisti non è reato[vii]

Lunga, troppo lunga era la lista degli antifascisti assassinati, sparati, accoltellati, bruciati vivi, massacrati…da qualche “cuore nero”:

Walter Rossi, Elena Pacinelli, Roberto Scialabba, Valerio Verbano, Fausto e Iaio, Luigi De Rosa, Claudio Varalli, Gaetano Amoroso, Adelchi Argada, Mariano Lupo, Ivo Zini, Gianni Aricò, Annalisa Borth, Angelo Casile, Luigi Lo Celso, Franco Scordo, Giulia Barzoli, Livia Bottardi Milani, Luigi Pinto, Euplo Natali, Bartolomeo Talanti, Alberto Trebeschi, Clementina Calzoni, Vittoria Zambarda, Alberto Brasili, Fiore Mete, Vittorio Ingria, Alceste Campanile, Rosaria Lopez, Giuseppe Malacaria, Vincenzo De Waure, Iolanda Palladino, Sergio Graneris, Nicola Tommaselli, Adriano Salvini, Tonino Miccichè, Benedetto Petrone…
nonché gli altri.[viii]

INTOSSICAZIONE A SINISTRA: UNA COSTANTE DELLA DESTRA

Tra le organizzazioni neofasciste che si distinsero per i ripetuti tentativi di camuffamento, inquinamento, intossicazione, infiltrazione e provocazione, ancora negli anni sessanta, va citata Giovane Europa, sezione italiana di Jeune Europe fondata dal camaleontico Jean-Francois Thiriart, già volontario nelle waffen-SS (divisione Wallonien guidata da Léon Degrelle).

Sorta nel 1960 (inizialmente denominata “Giovane Nazione”) era – ovviamente – ferocemente anticomunista, antisemita e schierata apertamente con l’OAS contro le lotte di liberazione anticoloniali. Oltre a Franco Cardini, aderirono a Giovane Europa: Attilio Mordin, Marco Bersacchi, Amerino Griffini, Massimo Marletta, Pier F. Bruschi, Renato Cinquemani, Antonino Debono, Carlo de Agostinis, Claudio Mutti, Ugo Gaudenzi (quello di Lotta di popolo, “Rinascita” etc.), Claudio Orsi, Franco Freda, Borghezio…

Nel raccontare le ragioni “profonde” della sua adesione il Cardini insisteva sul “legame sentimentale con il fascismo letterario francese, ma – cercava maldestramente di minimizzare –si tratta di quello a cui aderì Pierre Drieu La Rochelle, molto vicino all’estrema sinistra”. Va detto che di questa inesistente contiguità di Drieu La Rochelle all’estrema sinistra finora se n’era accorto solo il Cardini.

Forse, poco elegantemente, sorvolava su un fatto incontestabile. Nell’ottobre 1941, insieme ad altri scrittori collaborazionisti (Brasillach, Chardonne, Jouhandeau…) Drieu accolse l’invito di Goebbels e prese parte ad un “Congresso degli intellettuali europei” in Germania. Il viaggio e il convegno furono l’occasione per visitare la Cancelleria del Reich e avviare una proficua collaborazione con gli occupanti nazisti.

Tra i principali tentativi di camuffamento operati da Giovane Europa: il Comitato Europa-Palestina (1970), l’Associazione Italia-Cina (ottobre 1970), l’Associazione Italia-Libia (vedi Claudio Mutti, niente male per dei nipotini del boia e genocida, in Libia come in Etiopia, Rodolfo Graziani), il Movimento dei comunisti d’Italia (vedi Claudio Orsi, 1972)…

La maggior parte dei militanti di Giovane Europa confluirà in Lotta di Popolo.

Per la precisione: Organizzazione Lotta di Popolo (OLP), ambigua e intossicante fin dalla sigla, identica a quella della resistenza palestinese. Tanto per confondere le idee. Paradossalmente, ma non tanto considerando il loro ruolo di mercenari e provocatori, i fascisti italiani (NAR, ma non solo) in Libano collaboreranno con la Falange maronita (cristiani fascisti) e con l’esercito israeliano contro i palestinesi. Parteciparono al massacro di Tall el Zaatar (1976, con la Falange e la copertura siriana) e forse anche a quelli di Sabra Chatila (Beirut, 1982) con le milizie filoisraeliane del cristiano-maronita Haddad (ESL) e di Hobeika (e, ovviamente, la copertura di Tsahal).

Venne fondata, almeno ufficialmente, il 1° maggio 1969, a Roma (e sciolta nel 1973). I militanti provenivano da: Giovane Europa, Primula goliardica, Movimento Studentesco Operaio d’Avanguardia e Avanguardia di popolo (sigle sotto cui si mascherava Avanguardia Nazionale).

“Lotta di popolo” stampava un omonimo giornale il cui direttore, Ugo Gaudenzi, in anni più recenti diventerà il direttore di “Rinascita” (Come? L’avevo già detto? Non importa: repetita iuvant!), un foglio che così, a spanne, potremmo sbrigativamente definire “nazi-maoista”. Dove, tra gli altri, scriveva Tommaso Della Longa. Noto per varie faccende nebulose (Croce Rossa, collaborazione al “Riformista”…), ma soprattutto, per quanto mi riguarda, per aver rinnovato i tentativi della destra di appropriarsi, indebitamente, della lotta di liberazione del popolo irlandese. Come Roberta Angelilli, ex di Terza Posizione (e anche di Lotta Popolare, interna al MSI, con Signorelli) che mentre santificava Bobby Sands, il compagno Bobby Sands, definiva “terroristi e criminali” i partigiani.

Stando a quanto ne scriveva Saverio Ferrari, Ugo Gaudenzi avrebbe frequentato agenti del Bundesnachrichtendienst (BND, i servizi germanici) ed era in rapporto con la contessa Raimonda Di Giovanni, simpatizzante nazista. .

Tra i militanti originari di lotta di Popolo anche Walter Spedicato, uno dei fondatori di Terza Posizione.

Nata nel 1976, TP si può considerare l’erede sia di Avanguardia Nazionale che di Lotta di Popolo: stesso stile, stessa ambiguità, stessa propensione ad appropriarsi di tematiche di sinistra (stravolgendole). E medesima funzione, suppongo.

Quanto a Serafino di Luia “non era altro che un funzionario del ministero degli Interni” secondo Paolo Pecoriello, dirigente di Avanguardia Nazionale. Da sottolineare il reciproco scambio di accuse tra camerati. Nel 1970 era stato Serafino Di Luia a definire Merlino “un infiltrato tra gli anarchici” agli ordini di Federico D’Amato del ministero degli Interni (Affari Riservati). Appare evidente che erano tutti, Delle Chiaie compreso, utili marionette, complici e servi del potere che a parole contrastavano.

Colgo un’obiezione: “Ma che cazzo c’entrano i fratelli Di Luia con Lotta di popolo?”

Ma non l’avevo già detto? Vabbè… dunque… Serafino Di Luia, considerato il numero 2 di A.N. (dopo il “comandante” – come lo chiamava Borghezio – Delle Chiaie), aveva partecipato al “viaggio-premio” nella Grecia dei colonnelli e fu tra i fondatori (eppure ero sicuro di averlo già detto) di Lotta di Popolo con Gaudenzi. Quest’ultimo ricordava che del primo ufficio politico facevano parte:

Leucio Miele (poi in Terza Posizione), Dante Polverosi, Raimondo Ciasullo, Aldo Guarino, Enzo Maria Dantini (oltre naturalmente allo stesso Gaudenzi).

Il loro testo di riferimento? “La disintegrazione dei sistema” di Franco Freda. Serafino Di Luia divenne poi un abituale frequentatore del noto allevamento di neofascisti milanesi: Piazza san Babila. Qui, sempre nel 1969, aveva fondato la sezione milanese di Lotta di Popolo.

Più recentemente il fratello minore di Serafino, Bruno di Luia, si era fatto notare ai funerali (non propriamente ben riusciti) di Priebke e a quelli di Tonino Fiore (vedi la foto su “La strage di stato” ed.1970, con la giacca donatagli, paternalisticamente, dalla madre di Merlino).

Il 18 dicembre 2013 partecipò anche alla manifestazione di Roma del “Movimento 9 dicembre” (“I Forconi”) e in precedenza (2012) a quella del Movimento Sociale Europeo.

Ma: “Bruno di Luia, chi? Forse quello che nel 1966 girava con la bottiglia di Coca-cola “piena d’acqua perché se la polizia la vede vota, capisce che la voio dà in testa a qualcuno”? Quello che sulla scalinata della facoltà di Legge cantava l’inno delle SS con Giancarlo Cartocci?

Proprio lui. Ricordando che nell’assalto dei fasci a Lettere (27 aprile 1966) perse la vita Paolo Rossi.

Doveva averlo intuito perfino il Giorgio Almirante che c’era del losco: “Io penso che il movimento extraparlamentare di destra che si chiama Lotta di Popolo sia finanziato e protetto dal ministro dell’Interno” (vedi su “Panorama” del 7 giugno 1973). E se lo diceva lui…[ix][x]

QUOTE ROSA A DESTRA?

Tra coloro che si sono occupati indebitamente della lotta di Liberazione del popolo irlandese attribuendovi valenze fasciste ne avevo citato due di sesso maschile (Gaudenzi e Della Longa), ma una sola di sesso femminile (Angelilli). Per rispetto delle quote rosa, aggiungerei un altro caso, quello di Alessia Lai, già redattore capo di “Rinascita”. Conosciuta per le sue posizioni (possiamo dire “revisioniste”?) in merito allo sterminio degli ebrei e “arruolata” con Della Longa nella Croce Rossa…(mah?!?).

Chissà? Magari era veramente convinta di fare un favore ai prigionieri repubblicani difendendoli (a parole, beninteso) dalle angherie britanniche mentre in contemporanea giustificava i nazisti.

Ma alla fine (deliri neofascisti a parte) per conto di chi agivano concretamente i camerati?

Qualche citazione per capire quale fosse la posta in gioco e da chi venivano realmente prese le decisioni sul destino del nostro disgraziato paese.

Vernon Walters, attaché militare a Roma negli anni sessanta (e poi numero 2 – o forse 1 – della CIA), dopo l’annuncio dell’apertura ai socialisti (vedi Moro, novembre 1960) propose di usare le truppe USA presenti in Veneto, a Livorno, a Napoli (ed eventualmente anche quelle in Germania) per impedirlo.

Henry J. Tasca, ambasciatore statunitense in Atene, elogiava apertamente il regime dei colonnelli come la “più efficiente amministrazione in un paese della NATO”.

Per un generale statunitense (sempre in riferimento ai colonnelli ellenici): “questo è il miglior governo che la Grecia abbia avuto dopo Pericle”.

Forse Piazza Fontana fu un esperimento per testare la possibilità di importare il modello greco in Italia. Ma le cose, sappiamo, non andarono come previsto. Il 15 dicembre 1969 l’intera Milano si riversava nelle strade per onorare le vittime della strage avvenuta tre giorni prima. Cosa sarebbe potuto accadere se i cittadini si fossero chiusi in casa a contemplare il loro sgomento? Se in 300mila non avessero riempito all’inverosimile Piazza duomo? Il “21 aprile 1967” greco stava forse per concedere un bis?

Sicuramente la borghesia italiana, cinica e provinciale, coltivava da tempo il desiderio di affidarsi a rozzi squadristi e volgari colonnelli.

Vien da chiedersi se l’odierna società civile italica sarebbe in grado, qui e ora, di generare un soprassalto di uguale portata. Se mi guardo intorno e annuso sento solo l’odore di vite in decomposizione che non avrebbero più la forza di “alzare la mano prevenendo il macellaio”.

Concludo.

La Storia, la Storia… a ben guardare un cumulo di spazzatura, una discarica cosmica, un cassonetto planetario…

Documenti divorati dalle tarme, macerie pericolanti, tracce incerte, ricordi sfocati, testimoni reticenti e testimonianze dubbie, bugie e falsificazioni, reperti e referti…

rammenti di speranze tradite e brandelli di utopie implose…

Vittime consenzienti e carnefici blasonati, lapidi imbrattate e tombe violate, manoscritti apocrifi e bandiere infangate, frasi celebri citate a sproposito e commenti fuori luogo (e tempo)…

La pistola di Bresci, il cranio di Danton, le mutande della Petacci…

Tutto ciò che la risacca porta a riva e poi risucchia, perpetuamente… e nel frattempo consuma, degrada, deteriora…

Tanto che ancor prima di rendertene conto sei già un residuato bellico…

E tuttavia, come Giorgio Cesarano sul muro della cella, scrivo e scriverò ancora che:

L’AMOR MIO NON MUORE!” (almeno per ora, poi si vedrà).

Note:

[i] Luis Garcia Meza Tejada, divenuto presidente della Bolivia con il golpe del luglio 1980 (il 191°!)

[ii] Si chiama, tecnicamente, necrofilia.

[iii] Il testo in corsivo venne riscritto, a memoria, dopo un’improvvisata seduta spiritica nei presii di un convento abbandonato. Si era svolta nottetempo, nel brolo dove anticamente pare venissero sepolti i frati. Va precisato che la medium era un personaggio quantomeno folcloristico, istrionico. In seguito finì nei “giri” dell’eroina e morì in circostanze mai chiarite (ritrovata, in avanzato stato di decomposizione: suicidio, omicidio…?). Quindi le presunte dichiarazioni, postume, del non meno presunto spirito di Nardi evocato per la circostanza vanno prese con beneficio di inventario. Sarebbero comunque una conferma, per quanto indiretta, dell’avvenuto decesso.

Ulteriore precisazione. Qui “Nardi” (o chi per lui) sembra fare un po’ di confusione: non era l’amante, ma il marito di Donatella Di Rosa (il tenente colonnello Aldo Michittu) l’ex della mamma di Nardi (Cecilia Amadio). L’amante della Di Rosa, al momento delle presunte riunioni golpiste a cui avrebbe preso parte il Nardi redivivo, era il generale Franco Monticone che di Nardi era stato ufficiale. Un equivoco che sembra appartenere più alla medium (forse non abbastanza informata) che al presunto spirito evocato e che rende ulteriormente incerta la “testimonianza”. Quanto alle voci raccolte tra gli “indigeni” secondo cui Cecilia Monticone sarebbe stata l’amante del 5 volte presidente del Consiglio Mariano Rumor, l’uomo degli omissis, si tratterebbe soltanto di una leggenda locale priva di fondamentoPeccato, perché se confermata, la notizia avrebbe aperto scenari impensati sull’illustre esponente democristiano, presumibilmente bisessuale. Questa, tra l’altro, sarebbe la vera ragione per cui non venne mai candidato alla presidenza della Repubblica pur avendone i requisiti politici (così come le altre due “Sorelle Bandiera”: Emilio Colombo e Fiorentino Sullo). A complicare ulteriormente le cose, ho “scoperto” che la madre di Rumor si chiamava Tina Nardi (sorella dello scrittore Pietro Nardi). A questo punto rinuncio.

[iv]  alquanto fantasiosa, al limite del ridicolo, la spiegazione fornita da Cesare Ferri: “si trattava della tessera di un locale notturno”.

[v] quella che passerà alla Storia come la “notte dei lunghi coltelli” (o anche la “grande purga”) del 30 giugno 1934, ossia il massacro dell’ala radicale del partito nazista (le SA, garanti fino ad allora dell’avanzata di Hitler) da parte principalmente delle SS fu la sbrigativa soluzione adottata dal Fuhrer per risolvere una serie di questioni. Innanzitutto stroncare le velleità “rivoluzionarie” delle plebee SA (a modo loro antiborghesi, se non addirittura anticapitaliste e quindi detestate sia dagli Junker che dagli industriali), spianare brutalmente gli attriti sorti tra SA ed esercito ed evitare contestazioni in vista della sua prevedibile successione al presidente Hindenburg, ormai sul punto di esalare l’ultimo respiro.

Il capo dello Stato maggiore delle SA, Rohm, vantava ai suoi ordini oltre due milioni di aderenti e pareva intenzionato a costituire un “esercito popolare” fondato sulle SA mettendo ai suoi ordini le forze armate, tutti gli ex combattenti (Corpi Franchi compresi) e le SS.

La richiesta, ovviamente, provocò la vibrata protesta della classe militare. A questo, forse come pretesto, si aggiunse l’indignazione per le voci di “corruzione, dissolutezza, ubriachezza e omosessualità” che pervadevano la “marmaglia delle SA”. Un tentativo di Hitler di ridimensionare e disarmare le SA di Rohm (le quali invece si andavano procurando armamenti pesanti) inasprì ulteriormente i toni.

Ottenuta l’approvazione degli alti gradi dell’esercito per la successione a Hindenburg, ancora vivente ma per poco, nella riunione di Bad Nauheim (16 maggio1934), Hitler si mostrò privo di scrupoli nel sacrificare, in cambio del sostegno dei militari, i vecchi alleati e sostenitori. I quali, dal canto loro, non esitavano ad agitare lo spettro di una “Seconda Rivoluzione”.

Contro Rohm si erano alleati Goring (capo della Gestapo prussiana, oltre che ministro dell’Aviazione ) e Himmler (capo delle SS, ancora integrate nelle SA e quindi sotto il comando di Rohm, almeno formalmente). Nominato generale da Hindenburg, Goring lasciò le SA schierandosi con la casta militare e reclutando, per maggior sicurezza personale, un suo corpo speciale di polizia (Landespolizeigruppe General Goring).

Era ormai evidente che Goring e Himmler non progettavano solo l’eliminazione di Rohm e accoliti, ma la definitiva eliminazione di ogni opposizione nel partito nazionalsocialista.

La resa dei conti (esasperata dalle critiche espresse pubblicamente da Papen che parlava anche a nome del moribondo Hindenburg) avvenne nella stazione climatica di Wiesse (dove Rohm aveva invitato anche Hitler nel loro ultimo incontro) il 30 giugno 1934. Il Fuhrer venne ulteriormente sollecitato all’inevitabile conclusione quando il comandante in capo dell’esercito (pur non volendo sporcarsi direttamente le mani) sospese tutte le licenze e mise in stato di allerta le truppe. All’ultimo momento anche Goebbels si schierò con Hitler.

Alle quattro del mattino, mentre Rohm e i suoi luogotenenti dormivano profondamente nelle camere dell’albergo Hanslbauer sulle rive del lago Tegernsee (Wiesse), Hitler e i suoi raggiunsero Monaco dove erano già stati arrestati alcuni capi delle SA. Una lunga colonna di auto cariche di uomini armati raggiunse Wiesse e il massacro ebbe inizio. Intanto a Berlino Goring e Himmler procedevano in egual maniera e i plotoni di esecuzione formati da SS fucilarono circa 150 esponenti delle SA.

Rohm, dopo essere stato portato nel carcere di Stadelhein, venne ucciso da un ufficiale delle SS con un colpo a bruciapelo (pare avesse declinato l’invito a suicidarsi).

Nella stessa circostanza vennero uccisi dalle SS (stavolta “in borghese”) anche il generale Schleicher e la moglie. Poi toccò al generale Kurt von Bredow.

Georg Strasser (“Fronte Nero”, nazionalsocialista della prima ora, poi entrato in contrasto con Hitler) venne arrestato a Berlino e ucciso nel giro di poche ore nella prigione della Gestapo.

Assassinato anche quel padre Bernhard Stempfle, a cui probabilmente si deve buona parte del Mein Kampf, ma che conosceva troppi segreti della vita privata di Hitler (comprese le ragioni del suicidio della giovane Geli Raubal) e alcuni dei responsabili dell’incendio del Reichstag (messi così definitivamente a tacere).

Alle fine le vittime furono parecchie centinaia (circa 400 si presume), anche se il numero esatto rimane difficile da calcolare. Sicuramente molte di più della settantasette ufficialmente rivendicate da Hitler.

Sul presunto “complotto” ordito da Rohm (e che fornì a Hitler il pretesto per eliminare le SA e altri dissidenti) non sono mai emerse prove concrete.

[vi] la strage di via Fatebenefratelli (17 maggio 1973), con cui sembra si volesse colpire Rumor, fu opera di un provocatore manovrato da Ordine Nuovo (in particolare da Carlo Maria Maggi). Gianfranco Bertoli, soidisant “anarchico individualista” aveva già svolto attività di informatore e di infiltrato per conto del SIFAR e del SID. Altra coincidenza, il Bertoli sarebbe stato tra gli “ufficialmente esclusi” per non aver superato i corsi di Gladio. Proprio come Gianni Nardi. Si presume che in realtà fossero stati inseriti ad un altro livello.

[vii] era questa la formulazione originaria, autentica: “difendersi” non “uccidere” come raccontano invece i fascisti nei loro vittimistici piagnistei. Ovviamente non escludo che in anni successivi (nel ’77) qualcuno abbia voluto esagerare con gli slogan e con le scritte.  Su Giovanni Marini si richiede qualche precisazione, per lo meno dopo alcune ricostruzioni della vicenda (come quella divulgata da Luca Telese in “Cuori Neri”) che personalmente non mi convincono. Tra l’altro non si esclude – era questa anche la convinzione di Franca Rame – che la coltellata fatale per Falvella non provenisse dal Marini, ma – forse – da Mastrogiovanni, già ferito dagli aggressori.

Secondo questa ipotesi Marini si sarebbe preso la colpa conoscendo il carattere fragile del più giovane compagno, non i grado di reggere a una lunga carcerazione (e destinato, come è noto, a morire nel 2009 legato su un letto di contenzione , sottoposto a TSO).

[viii] come avrete notato ho riportato i nomi delle vittime della Strage di Brescia (28 maggio 1974) in quanto l’attacco era chiaramente rivolto contro una manifestazione antifascista.  Un nome che talvolta non viene riportato è quello di Elena Pacinelli. Le spararono da una mini bianca, in corsa, la sera del 29 settembre 1977 a piazza Igea (Roma) . Ferita gravemente, morì qualche tempo dopo per un male incurabile. In ogni caso, le ferite riportate quella sera furono determinanti nell’aggravare le sue condizioni di salute. In qualche modo la sua morte venne “oscurata” da quella di Walter Rossi (il giorno dopo, durante una manifestazione di protesta per il ferimento di Elena) per mano dei futuri NAR Alibrandi e Fioravanti (“il Melone”, fratello di Giusva). Ho inserito anche la proletaria Rosaria Lopez torturata e massacrata da tre nazisti di buona (nel senso di ricca) famiglia, con un evidente disprezzo di classe, al Circeo.

Il militante di Lotta Continua Tonino Micciché venne ucciso da una guardia giurata che però era iscritto alla CISNAL.

E non sarebbe fuori luogo aggiungere anche Peppino Impastato visto che stava indagando sulle protezioni a livello istituzionale di cui godevano i fascisti (oltre che su alcuni oscuri traffici di armi, gli stessi, presumibilmente, su cui successivamente indagheranno sia Mauro Rostagno che Ilaria Alpi). Qulche analogie (non solo la quasi sincronicità) con l’uccisione di Fausto e Iaio (opera dei NAR in trasferta). Anche i due leoncavallini stavano indagando.

Cito poi il caso di Lucio Terminello assassinato (“per sbaglio” ?!?) dal sanbabilino Marco Pastori.

È stato confermato che il padre di Pastori versò 100 milioni di lire (nel 1974: ricordo bene – per esperienza personale – qual era all’epoca lo stipendio, magari in nero, di un operaio o di un facchino) al perito balistico per fargli sostituire la canna della pistola che lo avrebbe incriminato. Tanto per dire a quale classe sociale appartenevano in genere i “cuori neri”.

[ix] Una curiosità: nelle dichiarazioni rese durante un interrogatorio da Angelo Izzo si nomina un certo Pietro Allatta di Aprilia incontrato per “uno scambio di pistole”. Allatta è il fascista che il 27 maggio 1976 uccise il giovane comunista Luigi di Rosa (raid di Tezze: Sandro Saccucci, Franco Anselmi, Miro Renzaglia, Angelo Pistolesi…) sparandogli con una pistola.

[x] Sorvoliamo pure sul fatto che la denominazione sembrava presa in prestito dall’inno di Lotta Continua (“Lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà”) e ricordiamo invece che la sigla venne utilizzata, con una leggera modifica, anche all’interno del MSI. “MSI Lotta Popolare” venne fondata nel 1975 (due anni dopo la scioglimento ufficiale di Lotta di Popolo riprendendone in qualche modo lo spirito) da Teodoro Bontempo, R. Sabatini e C.A. Guida. In seguito Sabatini e Guida, insieme a Paolo Signorelli, fondarono il “Movimento Politico Lotta Popolare” da cui nascerà “Costruiamo l’azione”, uno dei più ambiziosi esperimenti di intossicazione e provocazione contro la sinistra rivoluzionaria.