Dopo le rivolte di marzo – con 13 detenuti morti a seguito delle proteste e la repressione nel carcere di Modena – nulla o quasi è cambiato nei penitenziari italiani. Ieri è stato reso noto la positività al Covid-19 nel carcere romano di Rebibbia, che dimostra come colpevolmente troppo poco si è fatto per svuotare le celle sovraffollate in questi mesi.
Nel carcere romano ci sono 110 detenuti positivi al Coronavirus. Nel carcere maschile – tra vecchio e Nuovo complesso – risultavano detenuti al 31 dicembre 2020 1796 detenuti su 1466 posti effettivamente disponibile, con un sovraffollamento di 33o persone in più nelle celle. Incredibilmente alla stessa data l’Istituto a Custodia Attenuata Terza Casa è pieno esattamente a metà, con 81 posti occupati su 162.
Il Garante dei Detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasia ieri ha lanciato l’allarme, che riguarda in particolare modo il Nuovo complesso dove si trova concentrata la maggior parte della popolazione carceraria ed è il settore più affollato del penitenziario. Lo scorso lunedì i detenuti positivi erano 51, i numeri del contagio potrebbero dunque peggiorare ulteriormente trasformando il penitenziario in un enorme cluster.
Checché ne dicano in diversi, i penitenziari non sono il luogo più sicuro dove trovarsi durante l’attuale pandemia, e il garante sottolinea come le “carceri sono luoghi a rischio per la diffusione della pandemia”. Come potrebbero esserlo luoghi dove si vive affastellati, uno addosso all’altro, insalubri e dove la popolazione malata o con problemi sanitari?.
“Le loro condizioni igieniche e di sovraffollamento, unite alle condizioni di salute dei detenuti, ne fanno ambienti in cui il virus ha grande facilità di diffusione, nonostante gli sforzi profusi dal personale sanitario e penitenziario e dalla sempre maggiore consapevolezza dei detenuti sulle misure di prevenzione individuali da adottare”, spiega Anastasia. Per questo “servono iniziative e disposizioni immediate, a partire dalla scarcerazione di tutti coloro che possano beneficiare di alternative al carcere e dei detenuti in attesa di giudizio per reati non violenti, in modo che si possa gestire nel migliore dei modi l’isolamento, il monitoraggio e l’assistenza di chi contrae il virus in carcere”.
Il commissario Domenico Arcuri ha sottolineato solo qualche giorno fa la necessità di vaccinare con priorità la popolazione carceraria, e la Regione Lazio ha approvato un ordine del giorno per procedere con la vaccinazione dei detenuti dopo quella degli over 80. Per ora c’è l’impegno politico, mancano le disposizioni nella programmazione, ma potrebbe volerci del tempo forse troppo tempo a guardare quello che sta accadendo a Rebibbia. Se il Covid è un’occasione di ripensare la nostra società, può essere anche l’occasione per cominciare a ripensare quel buco nero dei diritti e delle tutele che è il sistema penitenziario, cominciando dall’applicazione delle pene alternative e uscendo da una cultura penale che ha al centro la detenzione.
La possibilità di un’amnistia, con il parlamento più giustizialista della storia, sembra davvero remota, ma il fatto che non si stia agendo neanche con gli strumenti a disposizione è un fatto grave: evidentemente la salute di persone la cui tutela è in teoria nelle mani dello Stato vale meno di quella degli altri cittadini. Questo nonostante le promesse di un uso massiccio dei domiciliari e delle pene alternative, oltre che alla possibilità di far uscire dalle celle chi sta è ormai prossimo alla fine della pena.
Ora sta a tutti, e non solo agli addetti ai lavori, non girarsi dall’altra: perché quella del carcere è sempre presentata come una questione marginale nel dibattito pubblico, ma è invece centrale per la qualità di una democrazia. Fateli uscire ora: perché le condizioni in carcere già sono inumane e tutt’altro che riabilitanti normalmente, in questa situazione poi è un accanimento che assomiglia a una condanna in contumacia.
Valerio Renzi
da fanpage.it