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Federico Aldrovandi e una proposta ‘dimenticata’

Ripensare la polizia perché non ci sia mai più una Diaz o un “controllo” come in Via Ippodromo
Il recente presidio del sindacato di polizia Coisp a Ferrara, sotto il palazzo municipale dove lavora la madre di Federico, ha prodotto un “effetto boomerang”, riaccendendo i riflettori sulla vicenda. Una vicenda da tempo uscita dal perimetro locale, arrivata all’attenzione nazionale e diventata – giustamente – un simbolo dei molti (troppi) casi di “malapolizia”. Tutto questo, è bene ricordarlo, non certo grazie a percorsi autocritici delle forze dell’ordine (distintisi anche sul “caso Aldrovandi”, come già per il G8 di Genova, in un’autodifesa corporativa, spesso sconfinata in veri e propri ostacoli opposti alle indagini) ma bensì grazie al coraggio e alla determinazione di Patrizia e Lino, genitori di Federico, e di alcuni giornalisti/scrittori: Checchino Antonini, Dean Buletti, Alessio Spataro, Filippo Vendemmiati, per citarne alcuni.
Non mi soffermo sul presidio del Coisp, limitandomi a segnalare due fra gli articoli più interessanti apparsi sul fatto: “Il Coisp, Aldrovandi e il degrado dello spirito democratico in polizia” di Lorenzo Guadagnucci e “G8 di Genova e gas CS, le “parole” del Coisp prima di Aldrovandi” firmato da Marco Trotta. Lorenzo e Marco sono fra i pochi che, oltre a criticare l’iniziativa del Coisp, hanno allargato il discorso con riflessioni sullo “stato dell’arte” dei corpi di polizia dal G8 di Genova in poi. Mi soffermo invece su una riflessione “collaterale”.
La mia impressione è che, ogni qualvolta si affronta un caso in cui sono coinvolte le forze dell’ordine, ci sia la tendenza a polverizzare la discussione in mille rivoli, fino a perdere di vista alcuni elementi essenziali. Patrizia e Lino sono sempre riusciti a “tenere dritta la barra” (altro loro grande merito). E’ anche grazie a loro se sul caso di Federico possiamo sottolineare alcune cose che solo un osservatore distratto può ritenere marginali nel “caso Aldrovandi”:
– La battaglia per l’introduzione di un codice di riconoscimento per gli agenti in servizio di ordine pubblico;
– La necessità di introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico (in special modo come fattispecie di reato specifico per appartenenti a forze di polizia);
– La necessità di sospensione immediata degli agenti rinviati a giudizio o sotto inchiesta. Inoltre, almeno per alcuni “tipi” di reato commessi da uomini in divisa, all’acquisizione di una sentenza definitiva di condanna deve essere prevista non la sospensione temporanea dal servizio, ma la radiazione. (sottolineo questo punto perché, secondo voci riportate su popoff – qui – gli agenti condannati a 3 anni e 6 mesi per l’uccisione di Aldro potrebbero essere reintegrati in servizio all’inizio del 2014).
Di istanze ce ne sarebbero altre, ne ho citato solo alcune. Tutte portate all’attenzione della politica da diversi comitati/associazioni (già subito dopo Genova 2001 e reiterate successivamente, senza alcun effetto). Per dare un’idea di questa reiterazione basti pensare alla petizione “mai più come al G8” (2003), a “le richieste di Reti-Invisibili ai candidati alle primarie dell’Unione” (2005), a “la verità è rivoluzionaria” (2013, in occasione delle ultime elezioni politiche), ai ripetuti appelli di Amnesty International. Sicuramente altre realtà e altri appelli mi sfuggono: me ne scuso, ma il senso di questo articolo va al di là di un’elencazione più completa.
Tutte queste istanze tendono a due obbiettivi, entrambi importanti e in stretta relazione fra loro: scongiurare che i reati commessi dalle forze dell’ordine restino impuniti (o vengano sanzionati scarsamente); assicurare che casi atroci come quello di Ferrara non abbiano a ripetersi. E’ chiaro che solo l’ottenimento di entrambi gli obbiettivi garantisce risultati pratici. Per fare un esempio banale, introdurre il reato di tortura garantisce che certi comportamenti vengano sanzionati, ma non li previene, se non per un generico “effetto deterrente” (effetto che – sia chiaro – ritengo assai blando, per usare un eufemismo, in questo come in altri casi); specularmente, fare di tutto perché la tortura non avvenga è meritevole, ma insufficiente se non si prevedono serie sanzioni e una reale applicabilità delle stesse.
Per questo credo che, accanto alle altre istanze già citate (tutte da me condivise e, allo stato, purtroppo disattese) ce se sia una fondamentale e dimenticata, presente nella già menzionata petizione “mai più come al G8”: “programmare un costante aggiornamento professionale delle forze dell’ordine ed attività didattiche finalizzate a promuovere i principi della nonviolenza, una coscienza civica e una deontologia professionale conformi alle loro funzioni difensive e nonviolente”.
Purtroppo sembra che ultimamente il dibattito si sia avvitato sull’eventualità che ai 4 condannati per la morte di Aldrovandi siano o meno concessi i domiciliari. Una polemica simile sta emergendo per quanto concerne i funzionari condannati per la scuola Diaz: è ormai imminenti il giudizio che disporrà se questi soggetti andranno in carcere o usufruiranno delle pene alternative.
Sia chiaro, in un paese dove esistono i CIE, dove poveri cristi marciscono in galera per la Bossi/Fini o la Fini/Giovanardi, non è certo il senso di pietà a farmi dire quel che segue: considero la battaglia per far andare/rimanere in carcere i condannati per i processi Diaz o Aldrovandi una battaglia “di retroguardia”. Nel senso che non piangerò certo se le porte del carcere dovessero accogliere (o mantenere dentro) i condannati. E il mio commento non è per nulla “moderato”: semplicemente non mi sentirei risarcito (o garantito per il futuro) dalla sola certezza di una pena detentiva.
Provo a spiegarmi con un altro esempio. Ammettiamo che davvero i 4 poliziotti ferraresi per cui si è mosso il Coisp restino in carcere e quelli condannati per la Diaz vi entrino. E ammettiamo, però, che nessuna delle nostre altre istanze (reato di tortura, riconoscibilità degli agenti ecc) sia accolta, magari con la “ciliegina sulla torta” di vedere in futuro questi soggetti reintegrati in servizio. Potremmo davvero parlare di una vittoria?
Credo sia ora di pensare in altri termini. Lorenzo Guadagnucci, nel suo pezzo citato all’inizio, ha scritto: “liquidare questa vicenda come un caso isolato di estremismo sarebbe un grave errore. Il caso è semmai una spia del brodo di coltura nel quale il sindacato Coisp è nato e cresciuto: un contesto nel quale i valori che ispirarono la smilitarizzazione della polizia di stato (1981) e la sua apertura alla società sono un ricordo più che sbiadito. . La terribile vicenda di Genova G8, invece d’essere l’occasione per un’autocritica e l’avvio di un’inversione di tendenza, è stata usata per accentuare la chiusura corporativa e ingaggiare una prova di forza coi poteri elettivi, per affermare cioè un’indipendenza che va ben oltre la lettera e la prassi della Costituzione. . La sentenza (sulla Diaz, ndr) è arrivata nonostante il pervicace tentativo della polizia di stato, ossia del suo vertice, di ostacolare il corso della giustizia, sia sul piano pratico con il boicottaggio dell’inchiesta, sia su quello politico e simbolico con le promozioni degli imputati e la loro conferma anche dopo le sentenze di condanna di secondo grado. . Si è tollerato e ammesso di tutto. Le bravate passate e presenti del Coisp, ma anche i tentativi di manipolare i processi e soprattutto si è permessa la permanenza in servizio di agenti e funzionari responsabili di abusi e falsi con la pericolosa “scusa” che è compito della magistratura l’accertamento dei reati (ma è compito della polizia punire chi sbaglia e prevenire ulteriori abusi!)“.

Quello di Lorenzo è un ragionamento, come sempre, lucidissimo. E che voglio provare a estremizzare e brutalizzare: il problema – oggi – non sta più “solo” nella certezza (certamente ben più che auspicabile!) che i reati commessi dalle forze dell’ordine vengano seriamente sanzionati: sta nel fatto che in polizia certi soggetti non dovrebbero essere nemmeno ammessi; o, perlomeno, si dovrebbe contare su metodi di reclutamento nuovi, finalizzati all’accertamento di requisiti deontologici e civici (da monitorare successivamente, nel corso del servizio.). In altre parole, il mio problema non sono le “mele marce” (indipendentemente dal fatto che a mio avviso la formula “mele marce” è errata e fuorviante), ma chi dovrebbe controllare il cesto delle mele (o il frutteto, se preferite) e invece accoglie di tutto, salvo affermare poi “. ma il cesto in sostanza è sano”.
Per questo ritengo fondamentale tornare a parlare dei principi di reclutamento delle forze dell’ordine. Ritengo che solo in questo modo si possano gettare le basi affinchè “casi come quelli di Federico non avvengano più”, formula condivisibilissima ma che ormai suona retorica, al di là delle intenzioni e della buona fede di chi la pronuncia.
 
Francesco Baro Barilli