Alla vigilia delle recenti elezioni politiche, la tentata strage di Macerata, drammatico epilogo di una campagna elettorale dominata dagli appelli al «prima gli italiani», sembrava aver imposto in modo inderogabile all’attenzione generale il tema della diffusione del razzismo, anche violento, e del ritorno del neofascismo nella società italiana. Eppure, malgrado il voto abbia tradotto plasticamente l’estrema pervasività delle tesi agite dagli imprenditori politici dell’intolleranza e dai sostenitori di una chiusura identitaria e discriminatoria della società, favorendo però la Lega, e in parte almeno anche i 5 Stelle, a scapito delle formazioni della destra radicale, di quell’allarme, salutare ben al di là della contingenza elettorale, sembra ora rimanere poco o nulla.
Proprio la fotografia dell’Italia del 4 marzo, segnata da una deriva che ha trasformato in un sinistro senso comune le invocazioni xenofobe e gli appelli identitari, induce al contrario a guardare al neofascismo più come ad una inquietante avanguardia di fenomeni molto più articolati e diffusi, che come ad una testimonianza residuale. Un orizzonte evocato da una serie di saggi e inchieste che propongono letture e analisi della galassia nera.
Punto di partenza obbligato per questo itinerario, la constatazione, pressoché scontata per chi guardi all’appeal che l’estrema destra esercita sui giovanissimi, relativa al debutto di un fenomeno nuovo, definibile nei termini di «fascismo pop». A tracciarne le coordinate è Christian Raimo, che in Ho 16 anni e sono fascista (Piemme, pp. 112, euro 13) descrive come presso gli adolescenti, in «un misto di nascondimento ed esibizione», il fascismo sia diventato una sorta di «moda».
Il tentativo di uscire dalla ridotta della semplice nostalgia, avviato da decenni, seppur non senza contraddizioni, dalla destra radicale, irrompe nel contesto deteriorato e contraddittorio della realtà italiana. In tali condizioni, «il fascismo oggi è una possibilità per molti: non è una possibilità maggioritaria, ma si è trovato in una larga parte della società una legittimazione», spiega Raimo. «Mentre i movimenti neofascisti elaboravano nuovi codici culturali, dalla musica alla grafica dei manifesti, mentre riuscivano a rimuovere un linguaggio che li stigmatizzava che oggi ci sembra distante secoli (pensiamo alla parola “naziskin”), mentre il fascista in giacca e cravatta si conquistava una presenza fissa nei talk show televisivi, – aggiunge il giornalista e scrittore romano – nell’Italia post-crisi avveniva uno smottamento sociale per cui slogan che erano considerati fascisti e per questo inaccettabili, impronunciabili e minoritari come “Aiutiamoli a casa loro” o “Resistenza etnica” sembravano poter entrare nel dibattito pubblico come ipotesi di buonsenso». Al punto che perfino «Traini (l’attentatore di Macerata, nda) è la conseguenza naturale di questa educazione fascistoide di massa, quotidiana, spacciata per racconto del reale».
Accanto ai riferimenti consueti della tradizione fascista, a partire dal rapporto con la violenza e con la morte, scanditi da «una drammaturgia quasi rituale» – che si esprime ad esempio nelle marce in onore dei caduti, della Rsi come degli anni Settanta -, la comunicazione di questi gruppi si orienta ora verso temi quali l’immigrazione, già al centro di costanti campagne mediatiche. La tesi dominante in materia, quella della cosiddetta «grande sostituzione» – l’idea che i processi migratori siano il risultato di «un complotto» contro l’uomo bianco -, ammanta però in questo caso il tutto di quello che Raimo definisce come il «fascino cospirazionista (che) finge di spiegare con un solo concetto questioni molto diverse e complesse, dalle incognite dell’economia globale a quella della crisi della rappresentanza».
Parallelamente alle forme nuove/vecchie di proselitismo, centrate, come racconta un responsabile di Blocco studentesco, sulla «fascinazione per un simbolo», sulla definizione di uno «stile», e su un processo totalizzante di coinvolgimento dei militanti che ricorda quello di «una setta», emerge l’utilizzo massivo della rete e dei social.
Una dimensione, quest’ultima, che come indicato a partire dal caso francese – dove il Front national fu nel 1996 il primo partito a sbarcare in rete -, da Dominique Albertini e David Doucet in La fasciosfera (La nave di Teseo, pp. 437, euro 20), caratterizza sempre più l’estrema destra che dopo aver cercato per questa via «di aggirare il filtro dei media tradizionali», ne ha fatto il proprio terreno di battaglia principale. «Siti e blog, Facebook e Twitter, commenti sui forum o sui siti d’informazione, video, fotomontaggi: le forme di esistenza online sono innumerevoli. Non è nemmeno più una sfera: è un turbine», affermano i due reporter transalpini.
Due le caratteristiche che emergono in questo processo. In primo luogo la volontà di presentarsi come dei «dissidenti» rispetto all’informazione mainstream; quindi, «la creazione di ecosistemi ideologici le cui componenti si completano, si corrispondono, si amplificano a vicenda»: comunità che prendono vita in rete per poi tentare di imporre i propri contenuti nell’azione politica tout-court.
In questo senso, concludono Albertini e Doucet, «lo sviluppo della fasciosfera somiglia molto a quello del mercato pornografico. Prima dell’esplosione del digitale, la rappresentazione della sessualità sullo schermo era rara e controllata. Analogamente, le idee di estrema destra sono uscite dal cono d’ombra e hanno raggiunto il grosso pubblico». E rischiano ora di affermarsi, offrendo «una risposta alla crisi di significato del mondo contemporaneo», e proponendo a società indebolite e segnate dall’incertezza, una sinistra via d’uscita con la rievocazione dei miti di razza e nazione e un inedito profilo sociale.
Inevitabilmente, la stagione della crisi fa da sfondo anche al «viaggio nell’Italia che si è riscoperta fascista», compiuto da Paolo Berizzi attraverso le pagine di NazItalia (Baldini & Castoldi, pp. 424, euro 20). Il cronista, da anni sulle tracce dell’estrema destra, riflette in particolare sul modo in cui «un fascismo liquido, certo, disaggregato e sfuggente, e proprio per questo molto insidioso» si sta diffondendo nel nostro paese, «grazie alla sottovalutazione e alla sbadataggine, o alla complicità di qualcuno», e punta «a permeare – in parte ci è già riuscito – gli strati più deboli della società». In un quadro composto dalla trasversalità politica degli accenti allarmistici sull’immigrazione, dalla banalizzazione dei discorsi d’odio, e perfino da un’«accettazione di un tasso di violenza squadrista allarmante», sono le stesse tappe attraverso le quali si compie l’esplorazione di Berizzi a descrivere l’inquietante eccezionalità del «caso italiano».
Dopo essere passata per stadi e concerti nazirock, come tra le fila di Forza Nuova e Casa Pound, l’inchiesta approda infatti alla nuova Lega nazionale di Matteo Salvini, «il Grande Traghettatore dell’Italia nera», che, sfruttando il clima sociale e politico di questa fase, è diventata «interprete del sentimento nazionalista e antieuropeo, delle pulsioni identitarie, xenofobe, razziste, delle parole d’ordine e dei principi della destra radicale». Portando «l’onda nera» sulla soglia dell’esecutivo.
Proprio Berizzi ricorda però come specifico al neofascismo sia anche il nesso costante tra il nuovo e l’antico, attraverso il passaggio di testimone tra una generazione e l’altra, fino a definire un percorso senza soluzione di continuità che dal Ventennio alla Rsi, passando per l’ordinovismo degli anni Sessanta e Terza Posizione nel decennio successivo, giunge fino alle formazioni attuali.
Alla luce di questa prospettiva, si può leggere la Storia di Ordine Nuovo firmata da Aldo Giannuli e Elia Rosati (Mimesis, pp. 242, euro 18). Un libro che ha il grande pregio di illustrare in qualche modo «dall’interno», grazie all’ampia documentazione a cui Giannuli ha avuto accesso come consulente della Commissione stragi, le vicende e «l’antropologia» del gruppo più importante della stagione della Strategia della tensione, e la sua eredità politica. Oltre ad offrire al contempo, nel saggio conclusivo di Rosati, il profilo ideologico e la funzione di «laboratorio» culturale che On svolse, intorno alla figura di Julius Evola, e la cui eco ha attraversato il mondo neofascista fino ad anni recenti.
Pur se radicato nel presente, e nelle sue contraddizioni, suggeriva del resto vent’anni orsono Umberto Eco, esiste in ogni caso un Fascismo eterno, – che è anche il titolo di un suo celebre intervento riproposto da La nave di Teseo (pp. 52, euro 5) -, le cui caratteristiche tipiche, per quanto in forma apparentemente contraddittoria o innocente, hanno attraversato la storia e sono «ancora oggi intorno a noi».
Guido Caldiron
da il manifesto