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Fine del tabù, ora il mondo deve agire

La parola apartheid non è un tabù: non lo è certo in Israele, mentre paradossalmente per molti versi lo è in Italia, dove la sua pronuncia è equiparata a un’espressione di antisemitismo.

di Riccardo Noury da il manifesto

Nei giorni scorsi la Corte internazionale di giustizia, la cui opinione era stata sollecitata alla fine del 2022 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è arrivata a una conclusione che non poteva essere più forte e chiara: l’occupazione e l’annessione da parte di Israele dei territori palestinesi sono illegali e le leggi e prassi discriminatorie israeliane contro i palestinesi violano il divieto di segregazione razziale e di apartheid. Si tratta di una rivincita storica per i diritti dei palestinesi, vittime di decenni di crudeltà e di sistematiche violazioni dei diritti umani derivanti dall’illegale occupazione israeliana.

L’occupazione è un elemento fondamentale del sistema di apartheid con cui Israele domina e opprime i palestinesi e che è causa di sofferenze di massa: i palestinesi assistono quotidianamente alla demolizione delle loro case e all’esproprio delle loro terre per la costruzione e l’espansione degli insediamenti e subiscono soffocanti restrizioni che interferiscono in ogni aspetto della loro vita quotidiana, dalla separazione dei nuclei familiari alla limitazione della libertà di movimento fino al diniego dell’accesso alla terra, all’acqua e alle risorse naturali.

Dall’autorevolezza dell’opinione della Corte dovrebbero derivare (uso il condizionale, data l’immediata reazione di Israele: nulla di sorprendente, considerando la totale mancata applicazione delle misure cautelari ordinate dalla stessa Corte per evitare il genocidio a Gaza) il ritiro dai Territori palestinesi occupati, Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est; la fine del dominio su ogni aspetto della vita dei palestinesi; la cessione del controllo delle frontiere, delle risorse naturali, dello spazio aereo e delle acque territoriali dei territori occupati; la fine del blocco illegale di Gaza e il diritto dei palestinesi di muoversi liberamente tra Gaza e la Cisgiordania.

Starà allora agli stati, soprattutto a quelli alleati di Israele, intraprendere rapidamente azioni inequivoche per assicurare che Israele ponga fine all’occupazione, a partire dall’immediato stop all’espansione degli insediamenti e all’annessione di territori palestinesi e dallo smantellamento del brutale sistema di apartheid contro i palestinesi. Ricordiamo bene le conseguenze della mancata azione della comunità internazionale rispetto all’opinione della Corte nel 2004 sulla costruzione del muro di separazione all’interno dei Territori occupati: Israele venne incoraggiato a sfidare il diritto internazionale e a rafforzare la sua impunità. Non dev’esserci una seconda volta.

Merita soffermarsi, infine, sulla menzione da parte dei giudici della Corte della parola apartheid: cioè di quel sistema israeliano di oppressione e dominazione ai danni dei palestinesi, tenuto in piedi e rafforzato dalla frammentazione territoriale, dalla segregazione e dal controllo, dalla confisca di terreni e proprietà e dalla negazione, tra gli altri, dei diritti economici e sociali.

L’opinione della Corte è il sigillo giuridico ai rapporti di organizzazioni non governative internazionali quali Human Rights Watch e Amnesty International e dei gruppi israeliani per i diritti umani come Yesh Din e B’Tselem. A un paese avviato verso un sistema di apartheid in passato si erano riferiti, preoccupati, gli ex primi ministri Olmert e Barak, l’ex direttore dello Shin Bet Amihai Ayalon, l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair e l’ex ambasciatore israeliano in Sudafrica Alon Liel, probabilmente la persona che più sapeva di cosa si stesse parlando.

La parola apartheid non è un tabù: non lo è certo in Israele, mentre paradossalmente per molti versi lo è in Italia, dove la sua pronuncia è equiparata a un’espressione di antisemitismo. Nel frattempo, nel mondo, di quella parola viene sollecitato un uso ancora più ampio. Amnesty ha chiesto che tra i più gravi crimini di diritto internazionale, dunque come crimine contro l’umanità, sia riconosciuto e inserito quello di apartheid di genere, dando seguito alle richieste che si levano da anni, ben a ragione, dalle attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan e Iran.

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