Menu

Flick: “Neanche il covid ha cambiato il carcere, usato come una discarica”

Intervista al Presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick: “La repulsione per i detenuti ricorda l’odio per gli ebrei. In cella vada solo chi è pericoloso”.

intervista a cura di Errico Novi per il dubbio

«Fallimento». «Occasione persa». Sono le parole che per Giovanni Maria Flick bastano a descrivere i due anni di covid per il carcere. «Sembrava che la pandemia potesse essere l’occasione per svelare e risolvere il vero vizio che affligge il sistema penitenziario: il sacrificio della dignità. E invece ci si è limitati a norme emergenziali, col risultato che il carcere continua ad essere una discarica del diverso». È amara l’analisi proposta dal presidente emerito della Consulta: ne ha parlato a margine dell’incontro con il Garante dei detenuti svolto tre giorni fa a Napoli. Solo un aspetto, a suo giudizio, ravviva la speranza: «L’ipotesi di rafforzare la giustizia ripartiva: è la prospettiva a cui guardare. Ed è importante», dice, «registrare proposte valide, in materia, come quella con cui la Fondazione Falcone collega la liberazione condizionale degli ergastolani ostativi, anche di mafia, proprio a condotte riparatorie del condannato».

Perché si è persa un’occasione, presidente Flick?

Non è escluso che si possa rimediare. Ma serve uno scatto culturale. Nella coscienza diffusa, certo. Ma prima di tutto nella politica, che deve smettere di utilizzare il carcere e il diritto penale come strumenti di suggestione e di paura.

Cosa si poteva fare sul carcere in tempo di covid?

Alcuni passaggi che vediamo nella riforma del processo penale, proprio in materia di giustizia riparativa, sono interessanti, ma il loro potenziale è ridotto dall’assenza di un’adeguata cornice normativa, che dovrebbe consentire per esempio forme riconciliative fra autore del reato e vittima in ogni fase del procedimento. Le dirò di più: si registrano sul punto una sensibilità poco diffusa e una scarsa formazione della magistratura. Sono problemi da affrontare in una riforma organica. D’altronde si sono viste, in questi due anni, tante amnesie su altri aspetti.

A cosa si riferisce in particolare?

Qualcuno, ottimisticamente, pensava che l’emergenza coronavirus poteva essere l’occasione per iniziare una riflessione seria sui penitenziari, su un modello da superare, perché quello attuale, in molti casi, non rispetta la dignità del detenuto. Non garantisce quei principi che pure sono scritti nell’articolo 27 della Costituzione e in molte altre sue norme in tema di diritti, a partire dall’articolo 2.

E invece com’è andata?

Non c’ stata alcuna nuova riflessione. Ha prevalso anche questa volta l’agire solo sulla base dell’emergenza, senza progetti di lungo periodo. E soprattutto, non si è diffusa né l’idea di una funzione rieducativa della pena né di una giustizia riparativa, fatte salve le ricordate eccezioni. Si è continuato a considerare il carcere non come luogo che può offrire una rinascita, ma come deposito dove semplicemente scontare una pena: una sorta di discarica per rifiuti tossici e pericolosi.

Da dove si dovrebbe partire?

Mi verrebbe da risponderle che andrebbero recuperati prima di tutto i lavori della commissione ministeriale per la riforma istituita nel 2016, quando l’incombere delle elezioni indusse poi a cestinare il progetto. Temo che i risultati di quei lavori saranno al più studiati da qualche appassionato. Eppure alcuni spiragli di luce, intravisti innanzitutto nella nuova commissione creata per la riforma del penale e, in parte, nel ddl delega che ne è seguito, andrebbero coltivati. Fino a un radicale cambio d’impostazione.

Cioè?

Si deve prendere atto che l’attuale modello carcerario italiano non è compatibile con uno stato di diritto basato sulla centralità della persona e sulla sua pari dignità. È un modello in cui si mischiano carceri sovraffollate, interventi solo emergenziali, reclusione vista come la forma più efficace o unica di pena, il condannato isolato perché considerato diverso. E invece non possiamo più esimerci dal ragionare su un punto: il carcere, per come lo conosciamo oggi, è un modello da superare. Non in tutti i casi, beninteso, ma bisognerebbe almeno lasciarsi alle spalle l’idea secondo cui la reclusione sarebbe la norma per affrontare la diversità. In carcere, invece, dovrebbe andare solo chi è aggressivo e violento, e perciò pericoloso: per gli altri condannati è necessario pensare a pene diverse, ma non per questo meno efficaci. Non si tratta tanto di far uscire dal carcere quante più persone è possibile, ma di farvene entrare quante meno è possibile.

Nel Paese non sembrano prevalere culture favorevolia una svolta simile.

Molti ritengono che non sia possibile arrivare a un modello del genere. Al di là di sparute eccezioni, si tende tuttora a vedere la pena come una vendetta pubblica e il detenuto come una monade che non fa più parte della società. Ma ci dobbiamo arrivare, al superamento del modello attuale. Ci possiamo arrivare. Certo sono necessarie alcune condizioni. Prima di tutto culturali. La società deve accettare il rischio che chi sconta la pena fuori dal carcere torni a commettere reati. Potrebbe accadere, ma si può fare in modo che ciò tendenzialmente non accada, o che si verifichi il meno possibile. Come? Innanzitutto non abbandonando il condannato a se stesso. La percentuale di recidiva è comunque molto più elevata per chi sconta la pena in carcere rispetto a chi la sconta con una misura alternativa.

In attesa che la percezione diffusa cambi, si può agire sull’ordinamento?

Sarebbe ingiusto negare i pur limitati passi avanti compiuti. Tengo a segnalare, tra questi, l’istituzione del Garante, nella sua espressione nazionale e locale. Una prima risposta: anche considerato che fra i suoi obiettivi sono previsti il contatto con i reclusi, il raccordo fra realtà istituzionale, penitenziaria e categorie deboli. E, aspetto significativo, l’impegno culturale per la conoscenza diffusa della realtà carceraria. L’altro elemento nuovo non può che consistere in un rafforzamento della giustizia riparativa, ulteriore rispetto a quanto già previsto nella riforma penale. Si può partire da alcuni aspetti inseriti nella riforma: l’impulso previsto per i centri di giustizia riparativa, la formazione degli operatori, la valorizzazione della messa alla prova e, cosa importante, il principio che l’applicazione di meccanismi riparatori non debba essere subordinata al tipo e alla gravità dei reati. Vuol dire che per il legislatore non dev’esserci ipotesi, per quanto grave, in cui la ricerca di uno strumento riparativo, da affiancare all’esecuzione penale, possa essere esclusa. Va aggiunta, come detto, l’ipotesi molto interessante avanzata dalla Fondazione Falcone: passare dall’irreversibile ergastolo ostativo, incostituzionale e infatti bocciato dalla Consulta, a una liberazione condizionale degli stessi condannati per mafia da concedere anche sulla base di condotte riparative.

Quindi non è del tutto pessimista.

Tenderei ad esserlo, in realtà. C’è analogia fra la dignità che si nega al detenuto e altre forme di discriminazione: dall’odio ancestrale, ignorante, immotivato e razziale verso gli ebrei, alla violenza contro la donna, che si arriva a uccidere se sfugge al potere del maschio, al rifiuto del migrante, liquidato in base a logiche di sicurezza e paura, al dramma della solitudine delle ultime ore dell’anziano dirottato nelle case di riposo. Ma dobbiamo approfittare proprio del trauma che il coronavirus ci ha inflitto per scuoterci anche dalla grettezza e dall’odio. Siamo abituati alla modernità come vettore del profitto, ma la pandemia ci ha fatto notare che allo stesso modo, in un attimo, anche il coronavirus si propaga. Siamo costretti a cambiare modello di vita e di valori, approfittiamone anche per trasformare il carcere. È urgente.